ISSN 2039-1676


30 dicembre 2010 |

I nuovi vincoli alla discrezionalità  giudiziale: la disciplina della recidiva

Testo rivisto di una parte della relazione svolta il 29.11.2010 al Corso organizzato dal Consiglio Superiore della Magistratura in Roma sul tema: "Le recenti riforme del sistema penale".

Sommario:
 
 
 
1. Premessa.
 
A partire dalla l. 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), il legislatore ha apportato significative modifiche ad istituti di diritto penale sostanziale e processuale, caratterizzate dall’introduzione di vincoli di vario tipo alla discrezionalità del giudice. Ciò è avvenuto attraverso la trasformazione di circostanze del reato da facoltative in obbligatorie, la previsione di vincoli nel giudizio di valenza tra circostanze eterogenee, l’introduzione di limiti vincolanti al potere discrezionale di quantificazione della pena, l’introduzione di limitazioni nella concessione dei permessi premio e delle misure alternative alla detenzione, la previsione di presunzioni di adeguatezza di talune misure cautelari.
 
Molti di tali vincoli sono stati ancorati all’istituto della recidiva – profondamente modificato nei suoi presupposti e nei suoi effetti ad opera della l. n. 251/2005[1] – e questa rivalutazione dell’istituto ha posto il problema se il legislatore abbia finito per contraddire i principi propri di un moderno diritto penale del fatto, proponendo categorie concettuali tipiche di un diritto penale d’autore. E’ tale un diritto penale che, a scapito della necessaria centralità del fatto di reato, prospetta una colpevolezza per il carattere del reo o per la sua condotta di vita, finendo per punire l’autore del reato non per quello che ha fatto, ma per quello che è o che si è “lasciato diventare”; per contro, un diritto penale del fatto, rispettoso del principio di colpevolezza, non può espandere il riferimento alla personalità dell’agente oltre i limiti di immediata e diretta rilevanza per la valutazione del fatto concreto[2].
 
Questa fondamentale problematica, riguardante la fisionomia stessa del diritto penale, è stata recentemente affrontata in modo esplicito dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 249/2010, avente tuttavia ad oggetto, non già la recidiva, ma l’art. 61, n. 11-bis, c.p., introdotto dal d.l. 23 maggio 2008, n. 92 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica), convertito dalla l. 24 luglio 2008, n. 125: tale disposizione prevedeva l’aggravante generale della clandestinità, consistente nell’“avere il colpevole commesso il fatto mentre si trova illegalmente sul territorio nazionale[3].
La Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 61, n. 11-bis, c.p., in quanto contrastante proprio con i principi che caratterizzano un diritto penale del fatto.
 
Si legge nella motivazione della sentenza: “ (..) la qualità di immigrato ‘irregolare’ (..) diventa uno ‘stigma’, che funge da premessa ad un trattamento penalistico differenziato del soggetto, i cui comportamenti appaiono, in generale e senza riserve o distinzioni, caratterizzati da un accentuato antagonismo verso la legalità. Le qualità della singola persona da giudicare rifluiscono nella qualità generale preventivamente stabilita dalla legge, in base ad una presunzione assoluta, che identifica un «tipo di autore» assoggettato, sempre e comunque, ad un più severo trattamento.
Ciò determina un contrasto tra la disciplina censurata e l’art. 25, secondo comma, Cost., che pone il fatto alla base della responsabilità penale e prescrive pertanto, in modo rigoroso, che un soggetto debba essere sanzionato per le condotte tenute e non per le sue qualità personali. Un principio, quest’ultimo, che senz’altro è valevole anche in rapporto agli elementi accidentali del reato.
La previsione considerata ferisce, in definitiva, il principio di offensività, giacché non vale a configurare la condotta illecita come più gravemente offensiva con specifico riferimento al bene protetto, ma serve a connotare una generale e presunta qualità negativa del suo autore”.
 
Con specifico riferimento alla normativa sulla recidiva, la Corte costituzionale si è invece mossa sul piano dell’interpretazione conforme alla Costituzione, avallando l’interpretazione che attribuisce carattere facoltativo alla recidiva reiterata ex art. 99, co. 4 c.p. (sul punto v. postea, 3).
Tale interpretazione – idonea ad evitare un contrasto con i principi costituzionali - è stata da ultimo confermata dalla citata sentenza n. 249/2010: nell’affermare l’infondatezza del richiamo all’istituto della recidiva per avallare la legittimità costituzionale dell’art. 61, n. 11-bis, c.p., la Corte ha avuto modo di ribadire che l’istituto della recidiva non è incostituzionale, avendo come presupposto una sentenza definitiva di condanna, riguardando solo delitti non colposi ed essendo fondato su una relazione qualificata tra i precedenti del reo ed il nuovo reato da questi commesso.
 
Si legge nella motivazione della sentenza: “Parimenti inconferente sarebbe il richiamo all’aggravante della recidiva. L’art. 99 c.p. prevede infatti che l’applicazione della suddetta circostanza è subordinata ad una sentenza definitiva di condanna per un delitto non colposo, intervenuta prima del fatto per il quale la pena deve essere aumentata. Inoltre, la recidiva aggrava unicamente la pena per i delitti non colposi.
Sono pertanto esclusi dall’area di operatività della citata norma codicistica sia i reati contravvenzionali che quelli colposi, mentre, come s’è visto prima, il reato di immigrazione clandestina è una contravvenzione, punita, oltretutto, con una pena pecuniaria.
Il recidivo è dunque un soggetto che delinque volontariamente, pur dopo aver subito un processo ed una condanna per un delitto doloso, manifestando l’insufficienza, in chiave dissuasiva, dell’esperienza diretta e concreta del sistema sanzionatorio penale.
Cionondimeno, con la sola eccezione dei reati di maggior gravità, l’applicazione della circostanza è subordinata all’accertamento in concreto, da parte del giudice, di una relazione qualificata tra i precedenti del reo ed il nuovo reato da questi commesso, che deve risultare sintomatico – in rapporto alla natura e al tempo di commissione dei fatti pregressi – sul piano della colpevolezza e della pericolosità sociale (da ultimo, ordinanza n. 171 del 2009).
Ben diversa è la disciplina per l’aggravante oggetto di censura, che può attivarsi finanche quando lo straniero ignori (per colpa) la propria condizione di irregolarità nel soggiorno (art. 59, secondo comma, c.p.), che prescinde da ogni collegamento funzionale con il reato cui accede, e che il giudice di tale reato deve accertare in via incidentale (senza attendere, per inciso, neppure l’esito di eventuali ricorsi amministrativi dell’interessato).
Si deve notare, a tale ultimo proposito, che il presupposto di una sentenza definitiva di condanna rende impossibile, nel caso della recidiva, quella formazione di giudicati ingiusti e contraddittori che potrebbe invece derivare, nella materia in esame, dalla accertata non irregolarità della presenza del soggetto nel territorio dello Stato, quando lo stesso sia già stato condannato per un altro reato, con l’applicazione dell’aggravante oggetto dell’odierna censura.
Tale eventualità acquista speciale rilievo nell’ipotesi dello straniero che chieda il riconoscimento dello status di rifugiato e, nelle more della relativa procedura, si veda contestata la circostanza in un giudizio che, a differenza di quello concernente il reato di ingresso o soggiorno irregolare, non può essere sospeso (si veda, a tale ultimo proposito, il comma 6 dell’art. 10-bis del d.lgs. n. 286 del 1998).
Tali paradossi sono preclusi dal legislatore nel caso della recidiva, in coerenza peraltro con la presunzione di innocenza di cui all’art. 27, secondo comma, Cost., che non consente che si produca un effetto sanzionatorio ulteriore causato da un comportamento la cui illiceità penale deve essere ancora accertata in via definitiva”.
 
 
2. L’ambivalenza della recidiva.
 
La problematica della conformità alla Costituzione della disciplina della recidiva introdotta della l. n. 251/2005 è dunque strettamente connessa a specifici problemi interpretativi, la soluzione dei quali ha determinato, come si dirà, una profonda revisione delle tradizionali opzioni dogmatiche riguardanti l’istituto.
 
Si è infatti riproposto il problema della natura giuridica della recidiva, da sempre connotata da una marcata ambivalenza, potendo essere considerata, sia sotto il profilo della colpevolezza del fatto (funzione retributivo-proporzionale), sia sotto il profilo della capacità criminale del reo (funzione special-preventiva), tanto che, come è noto, si parla anche di natura bidimensionale della recidiva.
 
L’ambivalenza della recidiva – che spiega anche le difficoltà del suo inquadramento dogmatico – è del resto già insita nella stessa sistematica del codice penale: mentre la disciplina base dell’istituto è collocata nel libro I, titolo IV (“Del reo e della persona offesa dal reato”), capo II (“Della recidiva, dell’abitualità, professionalità e della tendenza a delinquere”), la sua disciplina come circostanza aggravante è collocata nel capo II (“Delle circostanze del reato”), del titolo II (“Del reato”), del libro I. Altri effetti della recidiva (c.d. effetti indiretti o collaterali) sono poi disciplinati nel contesto della normativa riguardante distinti istituti: amnistia, indulto, prescrizione, estinzione della pena per decorso del tempo, liberazione condizionale, riabilitazione.
 
Sull’impianto originario del codice del 1930, come è noto, si sono stratificati vari interventi riformatori della recidiva (in particolare ad opera del d.l. n. 99/1974 e della l. n. 251/2005), i quali, oltre a modificarne in più punti la fisionomia, ne hanno progressivamente esteso la rilevanza rispetto ad istituti di diritto penale sostanziale (oblazione speciale, giudizio di valenza, concorso formale e reato continuato, prescrizione) e processuale (patteggiamento c.d. allargato; sospensione dell’esecuzione delle pene detentive brevi; benefici dell’ordinamento penitenziario), ampliando i casi di discipline derogatorie fondate sul suo riconoscimento o sulla sua applicazione.
 
Sotto il profilo strettamente dogmatico, la tesi dominante in giurisprudenza e condivisa dalla prevalente dottrina qualifica la recidiva come circostanza del reato, il che trova inequivoco fondamento, non solo nel disposto dell’art. 70, co. 2, c.p. (“Le circostanze inerenti alla persona del colpevole riguardano la imputabilità e la recidiva”), ma soprattutto – dopo la riforma del 1974 – nella sua inclusione nel giudizio di valenza ai sensi dell’art. 69 c.p.
 
Trattasi di circostanza che richiede la previa contestazione (v. postea, 4) e che come tutte le circostanze aggravanti deve ritenersi assoggettata al criterio di imputazione soggettiva di cui all’art. 59, co. 2, c.p.[4].
 
La recidiva, quale circostanza del reato, presenta tuttavia anche profili peculiari, tanto che si parla comunemente di aggravante sui generis: così è da escludere che essa possa incidere sul regime di procedibilità, problema questo che si è posto in giurisprudenza in relazione all’art. 640, co. 3, c.p., che prevede per il delitto di truffa la procedibilità di ufficio, qualora “ricorra taluna delle circostanze previste dal capoverso precedente o un’altra circostanza aggravante[5].
 
Nella giurisprudenza – soprattutto anteriore alla l. n. 251/2005 - sono tuttavia ravvisabili due diverse concezioni della recidiva, così sintetizzabili:
 
a) una concezione che potremmo chiamare formale, normalmente espressa attraverso la qualifica della recidiva come status soggettivo, secondo la quale la recidiva è tendenzialmente produttiva di effetti sulla base del mero dato formale della commissione del nuovo reato dopo una precedente condanna passata in giudicato: in questa prospettiva viene tendenzialmente svalutato l’aspetto della dichiarazione della recidiva da parte del giudice e, nella recidiva facoltativa, il presupposto della maggiore colpevolezza del fatto e della maggiore pericolosità del reo; a questa concezione si può ricondurre ad esempio l’orientamento che relega la discrezionalità della recidiva facoltativa al mero profilo dell’aumento della pena, non incidente sull’esistenza in sè della recidiva, considerata un mero dato di qualificazione del reato, dipendente solo dalla previa condanna;
 
b) una concezione che potremmo chiamare sostanziale,normalmenteespressaattraverso la valorizzazione della qualificazione della recidiva come circostanza del reato, secondo la quale la recidiva è tendenzialmente produttiva di effetti anche indiretti solo se il giudice ne accerti i presupposti e la dichiara, verificando non solo l’esistenza del presupposto formale costituito dalla previa condanna (presupposto che nel caso di recidiva obbligatoria è necessario e sufficiente, sempre che il nuovo reato appartenga al novero dei reati che determinano l’obbligatorietà), ma anche, nel caso di recidiva facoltativa, del presupposto sostanziale costituito dalla maggiore colpevolezza e dalla maggiore pericolosità del reo.
 
L’analisi della giurisprudenza in materia di recidiva (non sempre lineare e coerente) rivela come talune divergenze interpretative su punti specifici sottendano in realtà l’adesione all’una o all’altra concezione: si tratta di un’alternativa assai risalente, in quanto riscontrabile addirittura in epoca anteriore alla riforma del 1974, quando la recidiva era sempre obbligatoria[6].
 
 
3. La facoltatività della recidiva reiterata ed i limiti al giudizio di valenza ex art. 69, co. 4, c.p.
 
Dopo l’entrata in vigore della l. n. 251/2005, il principale problema interpretativo affrontato dalla giurisprudenza è stato quello della natura della recidiva reiterata (art. 99, co. 4, c.p.)[7] e della sua incidenza sul giudizio di valenza ai sensi dell’art. 69, co. 4, c.p. nuovo testo[8].
 
La giurisprudenza ormai costante riconosce innanzitutto che la recidiva reiterata è facoltativa (rectius discrezionale) nell’an e vincolata nel quantum[9], salvo il caso in cui essa diventa obbligatoria nell’an, ai sensi dell’art. 99, co. 5, c.p., essendo il nuovo delitto compreso nell'elenco di cui all'art. 407, co. 2, lett. a), c.p.p.[10].
 
Quanto ai criteri che il giudice deve applicare nell’esercizio del potere discrezionale che è alla base del riconoscimento della recidiva facoltativa, essi sono costantemente individuati nella maggiore colpevolezza del fatto e nella maggiore pericolosità dell’autore del reato[11], il che comporta per il giudice un corrispondente obbligo motivazionale[12],anche se sul punto la giurisprudenza non appare univoca[13].
 
Sempre secondo la giurisprudenza ormai costante, la limitazione del giudizio di valenza di cui all’art. 69, co. 4, c.p. va intesa nel senso che le circostanze attenuanti - di qualunque tipo esse siano - non possono essere dichiarate prevalenti sulle aggravanti nel caso in cui ricorrono gli estremi della recidiva reiterata ex art. 99, co. 4 c.p. (o nel caso in cui ricorrano le aggravanti di cui agli artt. 111 e 112, co. 1, n. 4 c.p.[14]) o perché il giudice riconosce la recidiva facoltativa, ritenendone sussistenti i presupposti formali e sostanziali, o perché la recidiva è obbligatoria e quindi deve essere dichiarata dal giudice per essere in nuovo delitto ricompreso nella previsione dell’art. 407, co. 2 lett. a) c.p.p.: al di fuori di queste ipotesi il giudizio di valenza non è soggetto ad alcuna limitazione[15].
 
Nell’interpretazione dell’art. 69, co, 4 , c.p. la giurisprudenza mantiene dunque l’unitarietà e l’inscindibilità del giudizio di valenza[16], perché la presenza di una determinata aggravante (per quanto qui interessa, la recidiva) incide sul giudizio di valenza nel suo complesso, in quanto impedisce la prevalenza delle attenuanti sulle aggravanti, ma il giudice conserva il potere di dichiarare la prevalenza delle aggravanti sulle attenuanti o la loro equivalenza: il divieto di prevalenza delle attenuanti assume così carattere generale ed assoluto[17].
 
In altri termini, l’art. 69, co. 4, c.p. deroga alla disciplina generale, semplicemente escludendo alcuni dei possibili esiti del giudizio di valenza: le aggravanti “blindate” (artt. 99, co. 4; 111 e 112, co. 1. n. 4, c.p.) sono dotate di maggior “resistenza” e l’attribuisconoanche ad eventualialtre aggravanti concorrenti, nel senso che tutte le aggravanti possono essere dichiarate solo prevalenti o equivalenti rispetto all’attenuante o alle attenuanti concorrenti.
 
Gli esposti orientamenti in tema di facoltatività della recidiva e di giudizio di valenza sono stati recentemente con fermati da Cass., Sez. un., 27.05.2010, n. 35738/10, Calibé[18].
 
L’orientamento che riconosce la facoltatività della recidiva reiterata ha trovato un avallo decisivo nella sentenza della Corte costituzionale n. 192/2007, che ha dichiarato inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 69, co. 4, c.p., come sostituito dall'art. 3 della l. n. 251/2005, sollevate in riferimento agli artt. 3; 25, co. 2; 27, co. 1 e 3; 101, co. 2 e 111, co. 1 e 6, Cost.
La Corte ha infatti osservato che le eccezioni di incostituzionalità sollevate muovevano dal presupposto dell’obbligatorietà della recidiva reiterata, senza che fosse stata vagliata la praticabilità della diversa interpretazione che, attribuendo a tale tipo di recidiva carattere facoltativo, avrebbe fatto cadere l'«automatismo» oggetto di censura, relativo alla predeterminazione dell'esito del giudizio di bilanciamento tra circostanze eterogenee, sulla base di un’asserita presunzione assoluta di pericolosità sociale.
 
Si legge nella motivazione della sentenza: “Conformemente (..) ai criteri di corrente adozione in tema di recidiva facoltativa, il giudice applicherà l'aumento di pena previsto per la recidiva reiterata solo qualora ritenga il nuovo episodio delittuoso concretamente significativo – in rapporto alla natura ed al tempo di commissione dei precedenti, ed avuto riguardo ai parametri indicati dall'art. 133 c.p. – sotto il profilo della più accentuata colpevolezza e della maggiore pericolosità del reo.
 
Di conseguenza, allorché la recidiva reiterata concorra con una o più attenuanti, è possibile sostenere che il giudice debba procedere al giudizio di bilanciamento – soggetto al regime limitativo di cui all'art. 69, co. 4, c.p. – unicamente quando, sulla base dei criteri dianzi ricordati, ritenga la recidiva reiterata effettivamente idonea ad influire, di per sé, sul trattamento sanzionatorio del fatto per cui si procede; mentre, in caso contrario, non vi sarà luogo ad alcun giudizio di comparazione: rimanendo con ciò esclusa la censurata elisione automatica delle circostanze attenuanti.
 
I giudici a quibus non indicano, del resto, quali argomenti si oppongano ad una simile conclusione. In particolare, essi non si chiedono se la conclusione stessa possa trovare ostacolo nell'indirizzo dominante della giurisprudenza di legittimità – formatosi anteriormente all'entrata in vigore della legge n. 251 del 2005 e peraltro avversato dalla dottrina largamente maggioritaria – in forza del quale la facoltatività della recidiva atterrebbe unicamente all'aumento di pena, e non anche agli altri effetti penali della stessa, rispetto ai quali il giudice sarebbe comunque vincolato a ritenere esistente la circostanza; o se assuma, al contrario, rilievo dirimente – pure nella cornice di detto indirizzo – la considerazione che il giudizio di bilanciamento attiene anch'esso al momento commisurativo della pena”.
 
 
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Il contrasto giurisprudenziale sorto dopo l’entrata in vigore della l. n. 251/2005 in ordine al significato della facoltatività della recidiva reiterata ed al tipo di incidenza della stessa sul giudizio di valenza, è fondamentale per comprendere come proprio tale questione abbia fatto emergere le già evidenziate contrapposte concezionidella recidiva, tanto che non a caso è da questo contrasto che ha preso le mosse un processo di superamento degli orientamenti interpretativi fino ad allora prevalenti.
 
Dopo l’entrata in vigore della l. n. 251/2005 era stata prospettata infatti una nozione assai ristretta della facoltatività della recidiva reiterata, secondo la quale essa non riguarda i presupposti della recidiva, cioè la sua sussistenza, ma solo l’aumento della pena: la facoltatività viene riferita al solo effetto quoad poenam, mentre tutti gli altri effetti della recidiva - inclusa lalimitazione al giudizio di valenza di cui all’art. 69, co. 4, c.p. - derivano unicamente dalla verifica da parte del giudice della correttezza della sua contestazione, in base al dato formale della precedente condanna (o delle precedenti condanne).
 
Secondo questa interpretazione, la recidiva consiste dunque in uno status soggettivo fondato sulla ricaduta nel reato dopo una condanna passata in giudicato ed è questo status che, ai sensi dell’art. 69, co, 4, c.p. nuovo testo, impedisce la prevalenza delle attenuanti sulle aggravanti, anche se il giudice ritiene di non dovere applicare l’aumento di pena proprio della recidiva.
           
La sentenza fondamentale al riguardo è Cass., Sez. VI, 27/02/2007, n. 18302/2007, Ben Hadhria, Rv. 236426: “Il divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti sulla recidiva reiterata trova applicazione, unitamente alle altre regole sul giudizio di comparazione, pur quando il giudice ritenga, dopo aver accertato la sussistenza della contestata recidiva, di non disporre l'aumento di pena”[19].
 
Si legge nella motivazione della sentenza: “(....) La giurisprudenza pressoché costante è nel senso che la nuova disciplina della recidiva, di cui alla l. 7 giugno 1974, n. 220, ha sancito soltanto la facoltatività dell'aumento di pena e non anche degli altri effetti penali connessi alla recidiva (lex plurimis, Sez. 3^, 20 maggio 1993, dep. 25 giugno 1993, n. 6424; Sez. 1^, 6 maggio 1986, dep. 23 ottobre 1986, n. 2335; Sez. 2^, 9 marzo 1983, dep. 27 maggio 1983, n. 6948; Sez. 3^, 6 dicembre 1978, dep. 10 marzo 1979, n. 2335).
 
Pertanto, è ius receptum che il giudice è vincolato ad applicare la recidiva, una volta accertato che sia stata correttamente contestata. Mentre, la discrezionalità riguarda solo la scelta di aumento o meno di pena, fermo restando che, in ogni caso, la recidiva ha gli altri effetti penali per essa stabiliti dalla legge. Effetti che vanno dal divieto di misure previste dal diritto sostanziale a quelle previste dall'ordinamento penitenziario - quali la sospensione condizionale della pena, l'oblazione speciale, la liberazione condizionale, la riabilitazione, la prescrizione - e, infine, a quelle processuali, quale quella della preclusione della richiesta di pena ex art. 444 c.p.p., co. 1-bis.
 
Altrettanto è diritto vivente che la recidiva rileva agli effetti penali solo in quanto sia stata ritenuta dal giudice del processo di cognizione dopo essere stata regolarmente contestata, attesa la sua natura di "aggravante". La sentenza che la applica ha natura costitutiva e non dichiarativa del particolare status del soggetto desumibile dal suo certificato penale (Sez. 1^, 6 ottobre 2004, dep. 29 novembre 2004,n. 46229; Sez. 1, 10 novembre 1987, 20 febbraio 1987).
 
La recidiva, al pari di ogni circostanza "inerente la persona del colpevole", in caso di concorso con altre circostanze aggravanti e attenuanti, comporta l'operatività delle regole stabilite dall'art. 69 c.p., come espressamente stabilito dal co. 4 dello stesso articolo.
In altre parole, lo status individuale del recidivo determina sia una qualificazione giuridica soggettiva, in quanto si riferisce a una situazione inerente alla persona del reo, sia una circostanza aggravante soggettiva.
 
Ne consegue che la recidiva è soggetta al meccanismo giuridico del giudizio di comparazione delle concorrenti circostanze attenuanti, indipendentemente dalla valutazione ex ante che il giudice possa già effettuare sull'aumento o meno di pena. Valutazione che, invece, si porrà all'esito della comparazione e nel caso in cui la stessa sia dichiarata prevalente rispetto alle altre.
Qui, il giudice può escludere se operare gli aumenti per la recidiva là dove ritenga gli aumenti di pena delle altre aggravanti concorrenti ex art. 63 c.p. già adeguati, in base ai criteri dettati dall'art. 133 c.p., all'entità oggettiva e soggettiva del fatto”[20].
 
Questa interpretazione si ricollega a quella giurisprudenza anteriore alla l. n. 251/2005, secondo la quale “in tema di recidiva l'art. 99 c.p. – nel testo sostituito dall'art. 9 d.l. 11 aprile 1974, n. 99 conv. l. 7 giugno 1974 n. 220 – dà facoltà al giudice non già di escludere la circostanza, ma di non apportare gli aumenti di pena che da essa dovrebbero conseguire”[21].
           
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Per comprendere perché, solo dopo l’entrata in vigore della l. n. 251/2005, il problema delsignificato della facoltatività della recidiva abbia assunto un’importanza decisiva nella rivalutazione della natura giuridica dell’istituto, è necessario accennare sinteticamente all’evoluzione della disciplina della recidiva in rapporto al giudizio di valenza.
 
Nel codice Rocco del 1930 la recidiva era obbligatoria (salvo i casi di cui all’art. 100 c.p.) e, in quanto circostanza inerente alla persona del colpevole, essa era sottratta al giudizio di valenza.
 
Con la riforma introdotta dal d.l. n. 99/1974 la recidiva era stata trasformata da obbligatoria in facoltativa (con conseguente abrogazione dell’art. 100 c.p.) ed era stata assoggettata al giudizio di valenza attraverso la modifica dell’art. 69 c.p., venendo equiparata alle altre circostanze: anche aderendo alla concezione della recidiva come status il giudice non aveva in pratica dei vincoli nella quantificazione della pena, potendo non applicare l’aggravamento della pena per la recidiva o paralizzarne comunque l’effetto aggravatore dichiarandola subvalente.
 
La l. n. 251/2005 ha mantenuto (stante l’esposta interpretazione affermatasi in giurisprudenza) il carattere prevalentemente facoltativo della recidiva reiterata (ad eccezione dei casi di recidiva obbligatoria di cui all’art. 99, co. 5 c.p.), ma ha introdotto dei vincoli al giudizio di valenza e correlativamente al potere di quantificazione della pena.
           
A fronte di tale modifica normativa, l’adesione alla concezione della recidiva come status aveva come conseguenza che il giudice, stante gli indicati vincoli al giudizio di valenza, si trovava costretto ad irrogare pene la cui gravità veniva avvertita come sproporzionata rispetto al disvalore del fatto ed alla personalità dell’imputato. Tipico il caso del reato di cui all’art. 73 t.u.stup.: aderendo a tale concezione, in presenza della recidiva reiterata anche il riconoscimento dell’attenuante di cui all’art. 73, co. 5 t.u.stup. non permetteva di irrogare una pena detentiva comunque inferiore al minimo edittale di anni sei di reclusione previsto per l’ipotesi base del reato.
           
Di qui la scelta della giurisprudenza di rivedere,innanzitutto ai fini del giudizio di valenza, l’orientamento tradizionale che qualificava la recidiva come status. Invero, solo la piena adesione alla diversa concezione della recidiva come circostanza permetteva di limitare la portata dei nuovi vincoli del giudizio di valenza nel caso di recidiva reiterata: non riconoscendo la recidiva, cioè non riconoscendo l’esistenza di tutti i suoi presupposti (in particolare di quello sostanziale), il giudice poteva evitare in radice di applicare la disciplina derogatoria al giudizio di valenza dettata dall’art. 69, co. 4, c.p.
 
Questa nuova opzione interpretativa ha potuto addurre a proprio favore un argomento apparso subito decisivo: l’incongruenza logica dell’applicazione della concezione tradizionale della recidiva al giudizio di valenza, argomento bene evidenziato anche dalla Corte costituzionale nella già citata sentenza n. 192/2007.
Osserva infatti la Corte: “In effetti, qualora si ammettesse che la recidiva reiterata, da un lato, mantenga il carattere di facoltatività, ma dall'altro abbia efficacia comunque inibente in ordine all'applicazione di circostanze attenuanti concorrenti – siano esse ad effetto comune o speciale – ne deriverebbe la conseguenza, all'apparenza paradossale, di una circostanza “neutra” agli effetti della determinazione della pena (ove non indicativa di maggiore colpevolezza o pericolosità del reo), nell'ipotesi di reato non (ulteriormente) circostanziato, ma in concreto ‘aggravante’ – eventualmente, anche in rilevante misura – nell'ipotesi di reato circostanziato ‘in mitius’. In altre parole, appare assai problematico sul piano logico supporre che la recidiva reiterata non operi rispetto alla pena del delitto in quanto tale e determini invece un sostanziale incremento di pena rispetto al delitto attenuato: profilo problematico, questo, con il quale i giudici a quibus avrebbero dovuto necessariamente misurarsi”.
 
La concezione della recidiva come status si è dunque dimostrata inidonea ad essere applicata anche alla nuova disciplina del giudizio di valenza di cui al nuovo co. 4 dell’art. 69 c.p.
 
Decisiva nel segnare questa svolta interpretativa è stata la sentenza Cass., Sez. IV, 11/04/2007 n. 16750/2007, Serra.
La sentenza evidenzia con chiarezza il punto centrale del problema, vale a dire la concezione della recidiva e la nozione di facoltatività: “Il contrasto giurisprudenziale, oggetto di critica da una parte molto consistente della dottrina, discende dalla generale considerazione secondo cui la facoltatività concerne solo l'aumento di pena, ma non la sussistenza della recidiva (...). Tale impostazione, però, finisce con lo stravolgere l'istituto stesso della recidiva, intesa come circostanza aggravante inerente alla persona, giacché ne deriverebbe l'applicazione ad altri effetti, pur se in concreto è stato escluso l'aumento di pena”.
 
Dopo avere concordato con l’orientamento secondo il quale una circostanza aggravante deve ritenersi applicata, non solo allorquando viene attivato il suo effetto tipico di aggravamento della pena, ma anche quando se ne tragga, ai sensi dell'art. 69 c.p., un altro degli effetti che le sono propri e cioè quello di paralizzare un’attenuante impedendo a questa di svolgere la sua funzione di alleviare la pena irroganda per il reato, la sentenza esprime la propria decisa adesione alla concezione secondo la quale larecidiva, per operare, deve essere ritenuta dal giudice, cioè dichiarata o riconosciuta.
 
“(...) Ed invero, esiste anche un orientamento un tempo minoritario (...)  secondo cui "la recidiva non è un mero status soggettivo desumibile dal certificato penale ovvero dal contenuto dei provvedimenti di condanna emessi nei confronti di una persona, sicché, per produrre effetti penali, deve essere ritenuta dal giudice del processo di cognizione dopo una sua regolare contestazione, onde può desumersi, pure, dal giudizio di comparazione ex art. 69 c.p., anche nell'ipotesi in cui i relativi aumenti di pena siano elisi in sede di bilanciamento per il giudizio di prevalenza delle attenuanti, giacché si tratta di dichiarazione e riconoscimento della recidiva e non di applicazione". Infatti, in presenza di valida contestazione deve ritenersi che il giudice abbia ravvisato gli estremi di quella maggiore colpevolezza del reo o di quella maggiore pericolosità, che, in concreto, integrano il riconoscimento o la dichiarazione della recidiva reiterata.
 
Questa tesi si fa preferire sia per ragioni logico - sistematiche e di garanzia, giacché, secondo la conclusione di un illustre Maestro, è difficilmente spiegabile come "da una recidiva esclusa nella competente istanza (potrà) in un ulteriore episodio giudiziale scaturire una contestazione di recidiva reiterata", sia in considerazione della particolare rilevanza attribuita dalla l. n. 251 del 2005 alla recidiva, delle caratteristiche della disciplina e dell'esistenza di questo contrasto in giurisprudenza, sicché la pedissequa ripetizione del precedente dettato normativo non può comportare un piano adagiarsi sull'interpretazione dominante.
 
Infatti, gli effetti della nuova riforma della recidiva come impongono al giudice, di merito e di legittimità, nell'ambito dei propri compiti, un adeguato obbligo motivazionale, inteso come congrua esplicitazione delle ragioni dell'esercizio del potere discrezionale nei casi di recidiva facoltativa e, sotto altro profilo, quale controllo sulle argomentazioni svolte, reso in parte più pregnante dalle modificazioni introdotte all'art. 606 c.p.p., lett. e), dalla l. n. 46 del 2006, così determinano la rivisitazione di approdi giurisprudenziali, la cui giustificazione non appare appropriata, tenuto conto del quadro costituzionale nel quale deve essere valutato l'istituto della recidiva, tanto più che l'art. 69 c.p., comma 4, fa riferimento alle "ritenute circostanze aggravanti".
 
Di qui il rifiuto della c.d. "discrezionalità bifasica" della recidiva[22]:
 
“Inoltre, seguendo la dottrina maggioritaria, nonostante una carenza di approfondimento sul tema da parte della giurisprudenza, dopo la riforma del 1974, deve rilevarsi che, ritenuta la recidiva una circostanza inerente alla persona, non è ammissibile configurare, in materia di circostanze, una "discrezionalità bifasica" (sull’an della circostanza, che deve essere riconosciuta, e sulla variazione della pena conseguente), in quanto deve riconoscersi che l'individuazione e l'applicazione della circostanza devono seguire un medesimo binario e che la facoltatività della recidiva comporta un accertamento in concreto della particolare insensibilità e pericolosità sociale del soggetto, sicché il requisito oggettivo della precedente condanna non è sufficiente, in assenza dei presupposti soggettivi a fondare non solo l'aumento di pena, ma anche il riconoscimento della recidiva agli altri effetti penali, ma solo a determinare per un successivo delitto l'intervenuta dichiarazione”.
 
Infine la sentenza esplicitamente afferma che una diversa interpretazione dell’art. 99, co. 4, c.p. non sarebbe rispettosa del canone dell’interpretazione conforme alla Costituzione[23], innanzitutto sotto il profilo del rispetto del principio di offensività:
 
“(...) un carattere peculiare, derivante dal divieto previsto dall'art. 69 c.p., co. 4, si verifica nel caso in cui si ritenga configurabile un'attenuante indipendente, contraddistinta dalla previsione di una misura di pena diversa da quella ordinaria del reato base, ovvero quella c.d. ad effetto autonomo, così denominata, in quanto è prevista una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato, vale a dire quelle contraddistinte dall'espressione onnicomprensiva di circostanze "ad effetto speciale", ove questo precetto non venga interpretato nel senso ritenuto corretto da questo collegio cioè ritenendo la recidiva reiterata ex art. 99 c.p., co. 4, facoltativa e necessario il precedente riconoscimento di detto tipo di recidiva per produrre gli effetti ivi contemplati, qualora, pur essendo stata contestata, non si ritenga, in una valutazione dei presupposti e delle condizioni proprie di detto istituto, di applicare l'aumento di pena ivi stabilito.
 
Infatti, è noto che la previsione di queste attenuanti trova una sua giustificazione nel principio di offensività (sulla sua costituzionalizzazione vedi con aderenza al delitto contestato nell'impugnata sentenza le quattro sentenze della Consulta tutte sulla disciplina delle sostanze stupefacenti L. n. 331 del 1991, L. n. 133 del 1992, L. n. 369 del 1995 e L. n. 296 del 1996), giacché la fattispecie circostanziale si basa sulla capacità del fatto considerato di ridurre significativamente l'entità dell'offesa recata al bene protetto, sicché è giustificata una consistente riduzione della pena in presenza soprattutto di minimi edittali del reato base abbastanza elevati in modo da adeguare la sanzione al fatto anche in virtù dei principi di ragionevolezza e di proporzionalità della pena (cfr. Corte Cost. n. 67 del 1992; n. 139 del 1989; n. 49 del 1989; nn. 273 e 409 del 1989, n. 103 del 1982; n. 329 del 1997 basate sul canone fondamentale della proporzionalità coniugato e derivato dal principio di ragionevolezza e di razionalità oppure Corte Cost. n. 168 del 1994, sulla declaratoria di incostituzionalità dell'ergastolo per i minori imputabili, concernente particolari situazioni soggettive, ovvero, riguardanti una mutata sensibilità sociale o un differente quadro normativo vedi Corte Cost. n. 313 del 1995, che concerne altre fattispecie di oltraggio dopo la famosa sentenza n. 341 del 1994, in tema di minimo edittale del delitto di cui all'art. 341 c.p., e Corte Cost. n. 314 del 1995, con riferimento al raffronto tra pene dei delitti di oltraggio e di violenza o minaccia a pubblico ufficiale).
 
Evidenzia ancora la sentenza, che l’interpretazione proposta è giustificata anche dal necessario rispetto dei principi di ragionevolezza e di eguaglianza:
 
“(...) Ed invero, "il canone della ragionevolezza deve trovare applicazione non solo all'interno dei singoli comparti normativi, ma anche con riguardo all'intero sistema" (Corte Cost. n. 84 del 1997). Proprio in relazione alla materia degli stupefacenti ed alla vicenda esaminata dal giudice sassarese, in cui la quantità della droga rinvenuta (circa dieci grammi di eroina), le condizioni di vita degli spacciatori - tossicodipendenti ed il numero dei soggetti coinvolti, il Serra e la sua compagna, hanno indotto il giudicante a ritenere configurabile l'attenuante del fatto di lieve entità con motivazione diffusa, non contestata dal ricorrente, entrambi gli imputati sarebbero dovuti essere puniti con una pena detentiva della reclusione da sei a venti anni e pecuniaria della multa da Euro 26.000,00 a Euro 260.000,00, invece di quella prevista per l'attenuante indipendente (da uno a sei anni di reclusione ed euro da Euro 3.000,00 a Euro 26.000,00 di multa), sicché l'irragionevolezza della previsione di una recidiva obbligatoria anche nell'ipotesi di cui all'art. 99 c.p., co. 4, è eclatante e configge con l'ulteriore principio costituzionale della finalità rieducativi della pena (art. 27 Cost.).
 
Il principio di eguaglianza può essere richiamato in ordine alla normativa di cui all'art. 69 c.p., co. 4, anche sotto un differente aspetto, giacché, secondo quanto rilevato dai primi commentatori, può determinare un appiattimento del trattamento sanzionatorio per situazioni completamente diverse, inerenti non solo alle circostanze ad effetto speciale, ma anche al concorrere o meno di più circostanze attenuanti (ad es. in tema di furto pluriaggravato il riconoscimento delle attenuanti comuni del danno di particolare tenuità e del risarcimento del danno o della restituzione, ritenute circostanze sintomatiche di una minore capacità criminale e l'ultima relativa alla reintegrazione del patrimonio del danneggiato pregiudicato dalla condotta criminosa (Corte Cost. n. 138 del 1998), rispetto all'individuazione di un'altra attenuante da sola, giacché, in entrambi i casi, la pena detentiva minima da irrogare sarebbe di cinque anni di reclusione, ove fosse ritenuta la natura obbligatoria della recidiva di cui all'art. 99 c.p., co. 4, o di tre anni di reclusione, qualora l'altro effetto penale della recidiva facoltativa su indicata, previsto dall'art. 69 c.p., co. 4, discendesse automaticamente dalle condanne risultanti dal certificato penale e non da una dichiarazione o riconoscimento della stessa).
 
Infine, la proposta interpretazione si accorda con il principio della funzione rieducativa della pena:
 
“Peraltro, anche a voler seguire la non condivisibile tesi dottrinale su richiamata, che comporterebbe la difficoltà di ritenere configurabile una violazione dell'art. 3 Cost., sotto l'aspetto della ragionevolezza e della razionalità della disciplina di cui all'art. 69 c.p., co. 4 e art. 99 c.p., sussisterebbe sempre un ulteriore profilo di dubbio di costituzionalità con riferimento all'art. 27 Cost.. Ed invero, l'aggravamento sanzionatorie riservato al recidivo reiterato, senza che detta situazione abbia un effettivo fondamento sostanziale, apprezzato dal giudice in termini di maggiore colpevolezza individuale del reo o di una sua maggiore pericolosità, sicché, invece, è assunto in base ad un rilievo automatico ed obbligatorio e considerato in virtù della mera contestazione senza alcun accertamento da parte del giudice ai fini del dispiegamento degli effetti indicati nel giudizio di comparazione, incide sul principio della funzione rieducativa della pena”.
 
 
4. Sulla natura circostanziale della recidiva.
 
L’affermarsi dell’esposta opzione interpretativa in tema di recidiva facoltativa e la conseguente accentuazione della sua natura circostanziale impongono alcune precisazioni in ordine ai tre distinti profili della recidiva, riguardanti la contestazione, il riconoscimento (o la dichiarazione) e l’applicazione della recidiva stessa.
 
Per contestazione della recidiva si intende l’atto processuale preliminare rispetto ad ogni successiva sua valutazione da parte del giudice, un atto che per il Pubblico ministero è obbligatorio[24].
 
La giurisprudenza è costante nel riconoscere che una formale contestazione della recidiva è il presupposto indispensabile per il suo riconoscimento[25], il che del resto trova conferma nella normativa processuale in materia di nuove contestazioni (artt. 516 ss c.p.p.), che pur prevedendo per la contestazione suppletiva della recidiva una disciplina derogatoria in ordine al diritto al termine a difesa (v. art. 519, co. 1 c.p.p.), implicitamente conferma che alla recidiva si applica la regola della previa contestazione.
 
La contestazione della recidiva deve inoltre essere specifica, perché ad ogni tipo di recidiva sono ricollegati distinti effetti sanzionatori e soprattutto perché la recidiva reiterata produce rilevantissimi effetti indiretti: il giudice non può dunque ravvisare una forma di recidiva diversa e più grave di quella contestata[26].
 
In particolare è stato affermato in giurisprudenza che, dovendo attribuirsi alla recidiva natura di circostanza aggravante, in sede di giudizio abbreviato non condizionato, l’imputazione non può essere modificata con la contestazione della recidiva, non trovando applicazione l’art. 423 c.p.p., in quanto non richiamato dall’art. 441, co. 1, c.p.p.[27]
 
A fronte di tali consolidati orientamenti giurisprudenziali, appare opportuno osservare che l’obbligo per il Pubblico ministero di contestare la recidiva, nel caso in cui essa è facoltativa, sorge sulla base del suo solo presupposto formale: spetterà poi al giudice valutare la sussistenza del presupposto della maggiore colpevolezza e pericolosità del reo, valutazione che sarebbe ingiustificatamente preclusa in mancanza di formale contestazione.
E’ per questo che non appare contraddittoria la scelta del Pubblico ministero che, dopo avere contestato la recidiva, non ne ritenga sussistente il presupposto sostanziale e quindi la escluda, ad esempio nel formulare le proprie conclusioni o aderendo ad una richiesta di patteggiamento avente tale presupposto: l’oggetto della contestazione e del riconoscimento della recidiva facoltativa è infatti solo in parte coincidente.
 
Per dichiarazione o riconoscimento della recidiva si intende comunemente l’atto con il quale il giudice afferma l’esistenza dei presupposti della recidiva.
Come già accennato, nel caso di recidiva obbligatoria trattasi di presupposti concernenti la previa condanna (o le previe condanne nel caso di recidiva reiterata) e l’inclusione del nuovo reato nell’elenco dei reati che ai sensi dell’art. 99, co. 5 c.p. attribuiscono carattere obbligatorio alla recidiva; nel caso di recidiva facoltativa al presupposto della previa condanna (o alle previe condanne) si aggiunge quello della maggior colpevolezza del fatto e della maggior pericolosità del soggetto.
Si parla in proposito anche di recidiva accertata o ritenuta e, per contro, di esclusione della recidiva, quando invece il giudice non ne ritiene esistenti i presupposti.
 
In realtà, poiché i presupposti della recidiva obbligatoria sono meramente formali sarebbe opportuno riservare a tale tipo di recidiva i termini “dichiarare” o “accertare”, parlando invece di recidiva “riconosciuta” o “ritenuta” solo rispetto alla recidiva facoltativa, perché essa annovera anche un presupposto di natura discrezionale.
 
Di recidiva dichiarata si parla tuttavia anche con riferimento al problema se, nel caso di recidiva reiterata, vi debba essere un atto formale di accertamento o riconoscimento della recidiva semplice o se la stessa possa essere desunta dal certificato penale. La giurisprudenza assolutamente prevalente esclude che nel caso in esame la recidiva semplice debba essere stata giudizialmente dichiarata[28]: sotto questo limitato profilo la recidiva si risolve dunque in un mero status soggettivo fondato sul dato oggettivo della previa condanna passata in giudicato.
 
Per applicazione della recidiva s’intende la sua effettiva incidenza sulla quantificazione della pena, il che si verifica non solo nel caso in cui il giudice aumenta effettivamente la pena per effetto della recidiva, ma anche nel caso in cui la recidiva viene considerata dal giudice equivalente ad eventuali attenuanti concorrenti, perché anche in questo caso essa comunque incide concretamente sulla quantificazione della pena paralizzando l’operatività delle attenuanti.
 
Perché dunque la recidiva possa dirsi applicataè necessario: a) che nel caso, in cui ricorra solamente la recidiva o concorrano altre circostanze aggravanti, il giudice abbia applicato l’aumentato della pena in relazione alla recidiva; b) che nel caso in cui concorrano circostanze eterogenee, il giudice abbia proceduto al giudizio di valenza e non abbia dichiarato la recidiva subvalente rispetto ad altra circostanza (o ad altre circostanze) di segno opposto, cioè l’abbia dichiarata prevalente o equivalente.
Vi può essere dunque la dichiarazione o il riconoscimento della recidiva senza che la stessa sia poi applicata: è appunto il caso della recidiva dichiarata subvalente rispetto alle circostanze attenuanti, il che peraltro non può avvenire nel caso di recidiva reiterata stante il disposto dell’art. 69, co. 4, c.p.. 
Tale nozione di applicazione, in rapporto al giudizio di valenza, è stata elaborata dalla giurisprudenza principalmente in materia di indulto[29].
 
Taluni effetti indiretti della recidiva sono connessi solo alla sua dichiarazione o al suo riconoscimento, a prescindere dalla sua applicazione: ciò si verifica in tema di prescrizione del reato (v. postea).
 
Con specifico riferimento all’entità dell’aumento di pena derivante dall’applicazione della recidiva, l’esperienza giudiziaria ha fatto emergere la grande rilevanza pratica dell’applicabilità dell’art. 63, co. 4 c.p., il quale prevede che, nel caso di concorso di più aggravanti che comportano una pena di specie diversa o di circostanze ad effetto speciale, “si applica la pena stabilita per la circostanza più grave, ma il giudice può aumentarla”.
           
Ora, tranne la recidiva semplice, tutte le altre ipotesi di recidiva comportano un aumento di pena superiore ad un terzo e configurano quindi circostanze ad effetto speciale in base alla definizione prevista dall’art. 63, co. 3 ultima parte c.p.: ne consegue che, come evidenziato da Cass., Sez. I, 17/03/2010, n. 18513/2010, Amantonico, se tali ipotesi di recidiva concorrono con circostante che prevedono una pena di specie diversa o con altre circostanze ad effetto speciale trova applicazione l’art. 63, co. 4, c.p. (nel caso oggetto della sentenza la recidiva specifica ex art. 99, co. 2, c.p. – di natura facoltativa – concorreva con l’aggravante di cui all'art. 585 c.p., entrambe dunque ad effetto speciale)[30].
 
Tale sentenza contrasta con la meno recente Cass., Sez. II, 16/06/2009, n. 26517/2009, Grande, riguardante tuttavia un caso di recidiva obbligatoria: la sentenza ha escluso l’applicabilità dell’art. 63, co. 4 c.p. formulando il principio così sintetizzato nella massima ufficiale (Rv. 244723): “La previsione dell'obbligatorietà dell'aumento di pena per la recidiva reiterata specifica, di cui all'art. 99, co. 5, c.p. determina l'obbligatorietà dell'aumento di pena per le circostanze aggravanti ad effetto speciale che qualificano i reati indicati dall'art. 407, co. 2, lett. a), c.p.p., così derogando alla previsione di cui all'art. 63, co. 4, c.p., che prevede, in caso di concorso di più circostanze aggravanti ad effetto speciale, l'applicazione soltanto della pena stabilita per la circostanza più grave, sia pure con possibilità per il giudice di aumentarla” (nel caso oggetto della sentenza l’aggravante di cui all’art. 628, co. 3, n. 1, c.p. concorreva con la recidiva reiterata specifica ex art. 99, co. 4, c.p., ma con aumento di pena obbligatorio ai sensi dell’art. 99, co. 5, c.p., trattandosi di reato incluso nell’elenco di cui all’art. 407, co. 2, lett. a), c.p.p.).
 
La Sezione seconda della Corte di Cassazione, con ordinanza in data 04.11.2010 (dep. 11.11.2010), ha rimesso la decisione sull’indicato contrasto interpretativo alle Sezioni Unite penali che dovranno in particolare decidere se l’art. 63, co. 4, c.p. sia applicabile qualora la recidiva obbligatoria, comportante un aumento di pena superiore a un terzo, concorra con una circostanza ad effetto speciale.
 
Si può in proposito osservare che l’orientamento che esclude nel caso in questione l’applicabilità dell’art. 63, co. 4, c.p. non appare convincente, perché sembra confondere il profilo dell’obbligatorietà della recidiva con il distinto ed ulteriore profilo della determinazione della pena, la qualeè disciplinata dalle norme sul calcolo della pena, incluse quelle di cui agli artt. 63, co. 4 e 69, co. 4, c.p.
Così non sembra corretto affermare, come si legge nella motivazione della citata sentenza Cass., Sez. II, 16/06/2009, Grande, che “nell’art. 99, co. 5, c.p. il legislatore ha implicitamente sancito l’obbligatorietà di entrambi gli aumenti di pena, quello per l’aggravante ex art. 628, co. 3 c.p. e quello per la recidiva reiterata specifica”. In realtà, l’unico dato certo ricavabile dall’art. 99, co. 5 c.p. è che il legislatore ha previsto un caso di recidiva obbligatoria, non che ha voluto che la recidiva fosse sempre applicata, tanto che l’art. 69 c.p., non esclude affatto il giudizio di valenza nel caso di recidiva obbligatoria, ma al comma quarto pone solo dei vincoli al giudizio stesso, limitatamente ad alcuni casi di recidiva obbligatoria (quelli che integrano anche gli estremi della recidiva reiterata).
 
Il concorso della recidiva con altre circostanze ad effetto speciale è un caso assai frequente, sicché si può ben dire che l’applicabilità dell’art. 63, co. 4, c.p. finisce per ridimensionare notevolmente la portata pratica della riforma introdotta dalla l. n. 251/2005, anche con riferimento ai casi di recidiva obbligatoria, un ridimensionamento già iniziato con il riconoscimento del carattere facoltativo della recidiva reiterata.
 
Si deve infine ricordare che la Sezione terza della Cassazione, con ordinanza in data 02/07/2010, ha disposto la rimessione alle Sezioni unite della soluzione della seguente questione: se ai fini della determinazione della pena agli effetti delle misure cautelari e precautelari debba tenersi conto della recidiva reiterata, in quanto circostanza ad effetto speciale, ai sensi dell’ultima parte dell’art. 278 c.p.p., ovvero non debba tenersene conto, ai sensi della norma generale dettata dalla prima parte dell’art. 278 c.p.p.
 
 
5. Le recenti decisioni della Corte costituzionale in tema di recidiva.
 
Dopo la già citata sentenza n. 192/2007 la Corte costituzionale ha dovuto occuparsi ancora di plurime eccezioni di illegittimità costituzionale del divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti sulla recidiva reiterata, sancito dal nuo