ISSN 2039-1676


15 giugno 2012 |

Qualche breve nota critica sulla sentenza Dell'Utri

Nota a Cass. pen., Sez. V, 9 marzo 2012 (dep. 24 aprile 2012), n. 15727, Pres. Grassi, Rel. Vessichelli, ric. Dell'Utri

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1. C'era molta attesa per la pubblicazione della motivazione della sentenza con la quale la Cassazione ha annullato con rinvio la decisione della Corte d'appello di Palermo di condanna del senatore Marcello Dell'Utri quale concorrente esterno nel delitto di associazione di stampo mafioso, soprattutto dopo l'ormai celebre requisitoria del Cons. Iacoviello (pubblicata su questa Rivista), nel corso della quale il Procuratore Generale aveva speso parole durissime nei confronti del lavoro dei giudici palermitani e - ciò che aveva suscitato le polemiche più aspre - aveva dichiarato che al concorso esterno "ormai non ci si crede più".

Al di là di quest'ultima affermazione - che a leggere con attenzione le parole del P.G. ha più il sapore di un'estemporanea provocazione piuttosto che di un vero e proprio atto di sfiducia rispetto alla configurabilità di una fattispecie che ha ricevuto l'avallo di ben quattro diverse pronunce della Cassazione a sezioni unite negli ultimi diciotto anni -, le critiche formulate da Iacoviello alla sentenza di secondo grado si erano sostanzialmente imperniate su due argomenti. In primo luogo, s'era detto, il processo mancherebbe di un'imputazione, la lettura della decisione di merito non consentendo, infatti, di ricostruire con sufficiente precisione quali siano i fatti contestati a Dell'Utri; in secondo luogo, s'era altresì sostenuto, se si esclude (come in questo caso) che l'imputato abbia concorso nel fatto di estorsione realizzato da Cosa Nostra ai danni di Berlusconi, come si fa a sostenere che lo stesso imputato abbia al contempo realizzato gli estremi di un concorso esterno all'associazione criminale?

Ebbene, va detto subito che la Cassazione liquida entrambi gli argomenti proposti dal P.G. con poche ed efficaci parole. Con riferimento al primo argomento, i giudici di legittimità osservano che all'imputato era chiaramente contestato di (ed è stato conseguentemente condannato per) aver contribuito al rafforzamento di Cosa Nostra, dapprima, promuovendo nel 1974 un incontro tra i vertici dell'organizzazione criminale e l'amico Berlusconi, nel corso del quale sarebbe stato raggiunto un accordo per cui il sodalizio criminale avrebbe offerto protezione alla famiglia di Berlusconi in cambio della dazione periodica, per il tramite dello stesso Dell'Utri, di cospicue somme di denaro; e, successivamente, occupandosi per quasi un ventennio (dal 1974 al 1992) di far pervenire i pagamenti concordati a Cosa Nostra.

Quanto alla secondo argomento critico, invece, la Cassazione osserva correttamente come esso si fondi sull'erronea convinzione che nel caso di specie ci si muova all'interno di una vicenda estorsiva. Al contrario, dicono i giudici di legittimità, i fatti così come ricostruiti dalla Corte d'appello (secondo una ricostruzione ritenuta logica e in quanto tale non censurabile) dimostrano inequivocabilmente che la scelta di Berlusconi di concludere un accordo con Cosa Nostra - grazie all'intermediazione di Dell'Utri - non era da addebitarsi a iniziative intimidatorie che avevano finito con il coartare la volontà dell'amico imprenditore, ma era piuttosto da considerarsi finalizzata alla realizzazione di "evidenti risultati di arricchimento". Nessuna estorsione, dunque, ma solo un patto dal quale sono derivati reciproci vantaggi per gli stipulanti[1].

 

2. Quali, allora, gli argomenti che hanno condotto la Cassazione ad annullare la sentenza dei giudici palermitani?

Per dare risposta a tale quesito, occorre in prima battuta evidenziare che i giudici di legittimità hanno suddiviso il periodo oggetto di contestazione (1974-1992) in tre diversi "sotto-periodi" - un primo periodo, che va dal 1974 al 1977; un secondo periodo, dal 1978 al 1982; e, infine, un terzo periodo, dal 1983 sino al 1992 -, ritenendo che la Corte d'appello di Palermo abbia correttamente motivato sulla sussistenza del delitto di concorso esterno in associazione mafiosa solo con riferimento al quadriennio '74-'77, nel corso del quale, dice la Cassazione, l'imputato - promuovendo un accordo tra Berlusconi e gli allora vertici di Cosa Nostra e occupandosi personalmente di recapitare a quest'ultima i pagamenti pattuiti - avrebbe effettivamente contribuito al rafforzamento o, quanto meno, alla conservazione del sodalizio criminale.

Sotto il profilo soggettivo, poi, la Cassazione ritiene che la circostanza che il Dell'Utri avesse promosso l'incontro di Milano del 1974 con i capi mafiosi, e che lo stesso imputato nei quattro anni successivi si fosse più volte incontrato e avesse intrattenuto buoni rapporti con altri personaggi di spessore mafioso, siano "ampiamente dimostrativ[e], sul piano logico, anche del fatto che il ricorrente avesse accettato di risultare aderente al fine perseguito dal sodalizio, il quale traeva il vantaggio patrimoniale finale dall'intera operazione" (pag. 126). Già da questo passaggio della sentenza comincia a emergere un aspetto che assumerà rilievo decisivo nel proseguo di quest'analisi: per i giudici di legittimità, il dolo del concorrente esterno passa necessariamente per l'adesione di quest'ultimo alle finalità perseguite dall'associazione criminale; adesione che ben può essere desunta dall'esistenza di rapporti "conviviali" tra l'extraneus e i componenti del sodalizio.

 

3. Spostiamo l'attenzione, a questo punto, sui due "sotto-periodi" sui quali si sono concentrate le censure della Corte di Cassazione.

Ora, per ciò che concerne il quinquennio '78-'82, il ragionamento della Corte è molto semplice: in questo periodo Dell'Utri ha momentaneamente interrotto il suo rapporto professionale con Berlusconi, trasferendosi alle dipendenze di un altro imprenditore (Rapisarda), ciò che evidentemente gli ha impedito di - o, quanto meno, la sentenza di merito non ha sufficientemente motivato sulle modalità con le quali sarebbe riuscito a - proseguire nella sua attività di intermediazione tra l'amico imprenditore e i vertici mafiosi.

Alla luce di questo ragionamento, tanto semplice quanto difficilmente contestabile, la Corte, in modo del tutto condivisibile, ritiene di escludere la sussistenza del concorso esterno, per gli anni '78-'82, già sotto il profilo dell'elemento materiale.

 

4. Assai meno condivisibili risultano, invece, le argomentazioni della Corte sull'ultimo periodo oggetto di contestazione, quello che va dal 1983 - anno in cui Dell'Utri riprende a lavorare per Berlusconi - al 1992.

In estrema sintesi, la Cassazione afferma che i giudici palermitani hanno correttamente motivato in ordine alla circostanza che Dell'Utri, una volta tornato alle dipendenze di Berlusconi, avrebbe ripreso a svolgere un'attività di mediazione tra quest'ultimo e i vertici di Cosa Nostra, che si sarebbe estrinsecata, in particolare, esattamente come avvenuto tra il 1974 e il 1977, nel garantire la protrazione dei pagamenti da parte dell'amico imprenditore all'associazione criminale. Nulla quaestio, dunque, in ordine alla sussistenza dell'elemento oggettivo del delitto di cui agli artt. 110 e 416 bis c.p.

Ciò che tuttavia cambia radicalmente rispetto al quadriennio '74-'78 sono i rapporti tra l'imputato e il sodalizio criminale. A tal proposito, la Corte ricorda che all'inizio degli anni ottanta si era verificato un avvicendamento al vertice di Cosa Nostra, con il gruppo dei c.d. corleonesi, capeggiati da Riina e Provenzano, che, grazie all'eliminazione dei boss Bontade e Teresi, aveva conquistato il comando dell'organizzazione. Quest'avvicendamento aveva comportato il venir meno degli interlocutori storici di Dell'Utri, che si era dunque ritrovato a dialogare con un nuovo gruppo direttivo, molto più aggressivo del precedente. Risultato: "un rapporto estremamente teso tra Dell'Utri riluttante ai pagamenti e i vertici mafiosi del dopo-Bontade, in particolare i Pullarà descritti come fonti di vessazione dall'interlocutore (lo 'tartassavano') e poi Riina autore di repliche perentorie e/o di attentati" (pag. 122). In altre parole, Dell'Utri, in questo periodo, continua a far pervenire i pagamenti a Cosa Nostra, con la quale, tuttavia, smette di intrattenere quei rapporti amichevoli che avevano invece contrassegnato il quadriennio successivo all'accordo del 1974. Ciò che spinge i giudici di legittimità a escludere - o, comunque, a ritenere insufficiente la motivazione della Corte d'appello di Palermo, in merito a - la sussistenza del dolo richiesto al concorrente esterno all'associazione mafiosa.  

Per comprendere fino in fondo il ragionamento della Cassazione, s'impone, a questo punto, un rapido sguardo ai passaggi che la sentenza dedica alla ricostruzione dell'elemento soggettivo del concorso esterno, con la premessa che la pronuncia in esame, sotto questo profilo, non introduce significative novità rispetto ai più recenti approdi giurisprudenziali, limitandosi al contrario a portare a compimento un percorso le cui linee essenziali erano già state tratteggiate nella sentenze a sezioni unite Carnevale (2002) e, da ultimo, Mannino (2005).

Dicono, quindi, i giudici: "ai fini della configurabilità del concorso esterno, occorre che il dolo investa sia il fatto tipico oggetto della previsione incriminatrice, sia il contributo causale recato dalla condotta dell'agente alla conservazione o al rafforzamento dell'associazione, agendo il soggetto, nella consapevolezza e volontà di recare un contributo alla realizzazione, anche parziale, del programma criminoso del sodalizio" (pag. 123).

In particolare, si precisa, per la sussistenza del dolo del concorrente esterno "è sufficiente e decisivo dimostrare, con ragionamento completo e logico, quello che le Sezioni Unite hanno definito il 'doppio coefficiente psicologico', ossia quello che deve investire, perché possa dirsi sussistente il reato, il comportamento dell'agente e la natura di esso come contributo causale al rafforzamento dell'associazione; in terzo luogo è richiesta la prova della coscienza e volontà che l'apporto risulti diretto alla realizzazione del programma criminoso del sodalizio: una prova, quest'ultima, che non risulta, nella assoluta maggioranza delle sentenze di legittimità, attribuita esplicitamente alla area del 'dolo specifico' e che la generalità degli approdi ha fatto rientrare, come le precedenti, nell'ambito del dolo diretto, nel senso della coscienza e volontà, che l'agente deve avere, di dare il proprio contributo al conseguimento degli scopi dell'associazione, tramite il rapporto col soggetto qualificato" (pag. 123-124).

Alla luce di tali considerazioni, i giudici di legittimità concludono che, così come "non può esservi spazio per la figura del dolo eventuale', esplicitamente esclusa nella sentenza delle SSUU del 2005", allo stesso modo "deve negarsi spazio alla figura del 'dolo intenzionale', evocata dal Procuratore Generale nella requisitoria orale e invece attinente a figure di reato come l'abuso di ufficio ove il legislatore, facendo ricorso all'avverbio 'intenzionalmente' ha espresso la necessità che l'evento del reato sia oggetto di rappresentazione e volizione come conseguenza diretta e immediata della condotta dell'agente e obiettivo primario da costui perseguito" (pag. 124).

 

5. Ebbene, non può certo dirsi che il ragionamento della Cassazione brilli per chiarezza espositiva. La sensazione di chi scrive è che, a confondere le acque, contribuisca soprattutto un utilizzo talvolta improprio delle categorie dogmatiche elaborate dalla dottrina per distinguere tra diverse forme di dolo.

Si fa riferimento, in particolare, al concetto di dolo diretto, che nella sentenza in parola viene inopinatamente evocato laddove si richiede che il concorrente esterno agisca con la coscienza e volontà - non soltanto di contribuire al rafforzamento/conservazione dell'associazione criminale, bensì anche - "che l'apporto risulti diretto alla realizzazione del programma criminoso del sodalizio".

È tuttavia sufficiente sfogliare le pagine di un qualsiasi manuale di diritto penale, per rendersi conto che quest'atteggiarsi dell'elemento psicologico non ha nulla a che vedere con il dolo diretto, per la sussistenza del quale, infatti, è necessario (e sufficiente) che l'agente si rappresenti "come certa o come probabile al limite della certezza l'esistenza dei presupposti della condotta ovvero il verificarsi dell'evento come conseguenza dell'azione"[2]. Nel caso del dolo diretto, dunque, "la realizzazione del reato non è l'obiettivo che dà causa alla condotta, ma costituisce soltanto uno strumento necessario perché l'agente realizzi lo scopo perseguito"[3].

Alla luce di queste autorevoli considerazioni, è allora evidente che se davvero s'intendesse qualificare il dolo del concorrente esterno alla stregua di un vero e proprio dolo diretto, ci si dovrebbe gioco forza accontentare della dimostrazione che l'extraneus era pienamente consapevole che con il suo agire avrebbe consentito all'associazione criminale di conservarsi e/o di rafforzarsi.  

La Cassazione, invece, chiede ben di più: chiede, infatti, che l'extraneus, oltre a essere consapevole che con la sua condotta sta contribuendo a rafforzare l'associazione, sappia e voglia altresì che il suo contributo sia diretto alla realizzazione del programma criminoso dell'associazione; laddove, con il termine "diretto", i giudici di legittimità non stanno certo a indicare l'atteggiamento psicologico proprio del dolo diretto come sopra ricostruito, bensì fanno riferimento a una proiezione finalistica dell'agire dell'imputato che ha tutte le fattezze tipiche del dolo specifico. In estrema sintesi, e sgombrando il campo dagli equivoci generati da imprecisioni terminologiche, quello che pretende la Cassazione è che il concorrente esterno agisca con il medesimo dolo specifico che è richiesto in capo all'intraneus.

D'altra parte, che i giudici di legittimità parlino di dolo diretto ma in realtà finiscano col pretendere (anche) un vero e proprio dolo specifico in capo al concorrente esterno risulta quanto mai evidente sol che si presti attenzione alle argomentazioni addotte per censurare la sentenza d'appello per il periodo '83-'92. A questo proposito, si è già messo in luce come i giudici di legittimità attribuiscano rilievo decisivo - per escludere il dolo del reato in esame - alla circostanza che Dell'Utri, in quest'arco temporale, avesse mantenuto un atteggiamento "riottoso e recalcitrante" nei confronti dei nuovi vertici di Cosa nostra.

Ora, non v'è dubbio che tale circostanza, di per sé, non consente certo di escludere la sussistenza del dolo diretto in capo all'imputato, dal momento che Dell'Utri - come sottolineano gli stessi giudici di legittimità - era comunque pienamente consapevole che, garantendo la prosecuzione dei pagamenti da parte dell'amico Berlusconi, avrebbe consentito l'arricchimento del sodalizio criminale; né, d'altra parte, la ricostruzione dei fatti, così come proposta dalla Corte d'appello di Palermo - e avallata dalla stessa Corte di Cassazione -, consente di ritenere che il rapporto tra Dell'Utri e Cosa Nostra fosse mutato al punto tale da trasformare il primo in una vittima della seconda: neanche in quest'arco temporale, infatti, i rapporti tra le parti assumono mai dinamiche assimilabili a quelle tipiche di una vicenda estorsiva.  

Al più, questo mutato atteggiamento dell'imputato nei riguardi dei nuovi vertici dell'associazione può essere letto - e viene in effetti letto in tal senso dalla Cassazione - quale indice del venir meno di una comunione di intenti con i vertici di Cosa nostra, e, dunque, del venir meno della volontà di contribuire alla realizzazione del programma criminoso perseguito da quest'ultima. Ciò che consente di escludere la sussistenza dell'elemento psicologico del delitto di concorso esterno se, e solo se, a quest'ultimo si riconoscono i tratti tipici di un vero e proprio dolo specifico.

 

6. Ora, come si è detto in precedenza, i principi espressi dalla Corte di Cassazione nella sentenza in esame non rappresentano certo una novità - neanche sotto il profilo dell'elemento psicologico - nel panorama della più recente giurisprudenza pronunciatasi in tema di concorso esterno. Osservazioni analoghe a quelle appena viste, infatti, riecheggiano sin dal 2002, quando le Sezioni Unite, con la sentenza Carnevale, ebbero ad affermare che, per potersi ritenere integrato il delitto ex artt. 110 e 416 bis c.p., occorre che l'agente "pur estraneo all'associazione, della quale non intende far parte, apporti un contributo che sa e vuole diretto alla realizzazione, magari anche parziale, del programma criminoso del sodalizio". E anche allora, peraltro, i giudici di legittimità etichettavano un siffatto atteggiamento psicologico come dolo diretto, invece che come dolo specifico.

Sono ormai dieci anni, insomma, che la giurisprudenza di legittimità propone una soluzione interpretativa che, al netto della confusione terminologica, di fatto introduce, in tema di concorso esterno in associazione mafiosa, una palese eccezione al principio generale secondo cui per concorrere nei reati a dolo specifico è sufficiente il dolo generico in capo al concorrente[4].  Così come, d'altra parte, sono ormai dieci anni che la giurisprudenza di legittimità non perde occasione per ribadire l'incompatibilità del concorso esterno con il dolo eventuale. Con il risultato che per la dimostrazione dell'elemento psicologico del delitto in esame s'impone alla pubblica accusa di fornire la duplice, rigorosissima, prova che l'imputato (i) si sia rappresentato come certo - o come probabile al limite della certezza - il verificarsi dell'evento-rafforzamento dell'associazione quale conseguenza della propria condotta e che (ii) abbia agito con la volontà di contribuire alla realizzazione del programma criminale perseguito dal sodalizio.

Sennonché, ancora oggi, non si rinviene traccia, nel pur copioso argomentare delle diverse sentenze che si sono occupate di questa materia, di una valida argomentazione - che non si riduca al mero timore di un'espansione incontrollata dell'area del penalmente rilevante, già ampiamente scongiurata, sotto il profilo oggettivo, dalla necessità di fornire la prova rigorosa che l'extraneus abbia effettivamente contribuito a rafforzare l'associazione criminale - che consenta di giustificare una scelta ermeneutica di questo genere.

Una scelta ermeneutica che, peraltro, rischia di condannare il concorso esterno in associazione mafiosa a una sostanziale inoperatività, giacché, come è stato recentemente osservato da autorevole dottrina, "la lunga esperienza sinora maturata dei fenomeni di contiguità mafiosa è ben lungi dal confermare che il fiancheggiatore esterno abbia normalmente interesse a far propri i fini dell'associazione criminosa"[5].

 


[1] Sull'argomento proposto da Iacoviello si era espresso criticamente, sulle pagine di questa Rivista, anche Fiandaca, il quale aveva sostenuto che "il fatto che gli stessi pubblici ministeri - a prima vista sorprendentemente - non abbiano contestato all'imputato innanzitutto il concorso nel reato di estorsione deriva, verosimilmente, da una ricostruzione del significato della vicenda non già secondo paradigmi di criminalità comune bensì con lenti ermeneutiche specificatamente orientate alla peculiarità dell'universo mafioso. In termini più espliciti, è verosimile che la magistratura palermitana non abbia ravvisato nell'attività di intermediazione realizzata dall'imputato un vero dolo di (concorso in) estorsione; ma, piuttosto, abbia letto questa stessa attività come finalizzata, da un lato, a ridurre i danni a carico dell'amico Berlusconi e, dall'altro, a strumentalizzare l'episodio estorsivo come occasione per poter instaurare anche per il futuro rapporti di reciproco vantaggio tra Berlusconi e il versante mafioso" (Fiandaca, Il concorso esterno tra guerre di religione e laicità giuridica, Considerazioni sollecitate dalla requisitoria del p.g. Francesco Iacoviello nel processo Dell'Utri, in penalecontemporaneo.it, pag. 6). A differenza di quanto sostiene l'illustre autore, che aveva ipotizzato che la scelta della procura palermitana di non contestare al Dell'Utri il concorso in estorsione fosse sostanzialmente da addebitarsi alla mancata individuazione dell'elemento soggettivo in capo all'imputato, i giudici di legittimità evidenziano come nel caso di specie non vi sia traccia neanche degli elementi oggettivi che contraddistinguono la fattispecie estorsiva.

[2] Marinucci-Dolcini, Manuale di diritto penale, Parte generale, ed. III, pag. 280; in senso sostanzialmente analogo, Fiandaca afferma che "il dolo è diretto (più precisamente, di secondo grado) tutte le volte in cui l'agente si rappresenta con certezza gli elementi costitutivi della fattispecie incriminatrice, e si rende conto che la sua condotta sicuramente la integrerà" (Fiandaca, Diritto penale, Parte generale, ed. VI, pag. 367)

[3] Fiandaca, Diritto penale, Parte generale, ed. VI, pag. 367.

[4] Visconti, Contiguità alla mafia e responsabilità penale, 2003, pag. 222.

[5] Fiandaca, Il concorso esterno tra guerre di religione e laicità giuridica, cit., pag. 3.