ISSN 2039-1676


13 luglio 2014 |

La Corte di Cassazione scrive la parola fine sul processo Dell'Utri

Cass., Sez. I, 9 maggio 2014 (dep. 1 luglio 2014), n. 28225, Pres. Siotto, Rel. Cassano, ric. Dell'Utri

1. Premessa.

Il 1° luglio 2014, con il deposito delle motivazioni della sentenza n. 28225, pronunciata dalla sezione I della Corte di Cassazione, si è chiuso, dopo diciassette anni, il processo penale a carico dell'ex senatore Marcello Dell'Utri, condannato in via definitiva alla pena di sette anni di reclusione per il delitto di concorso esterno in associazione mafiosa.

Dopo un breve riepilogo delle principali tappe che hanno segnato il cammino della complessa vicenda processuale che ha riguardato lo storico collaboratore dell'ex premier Silvio Berlusconi, di seguito si riassumeranno le osservazioni che hanno condotto la Cassazione a confermare in toto la sentenza di condanna pronunciata dalla Corte d'appello di Palermo.

 

2. Gli antefatti

a) La sentenza del Tribunale

Il dibattimento di primo grado del processo Dell'Utri prende avvio, davanti al Tribunale di Palermo, nel novembre del 1997 e si conclude l'11 dicembre 2004, con la condanna a nove anni di reclusione dell'allora senatore di Forza Italia, riconosciuto colpevole dei delitti di concorso esterno in associazione semplice e di concorso esterno in associazione mafiosa, legati dal vincolo della continuazione ai sensi del capoverso dell'art. 81 c.p.

In motivazione, i giudici palermitani scrivono che l'istruttoria dibattimentale ha dimostrato che l'imputato ha intrattenuto, a partire dalla metà degli anni Settanta sino alla fine degli anni Novanta, rapporti diretti e personali con esponenti di spicco di Cosa Nostra e ha altresì svolto, nello stesso periodo, un'intensa e costante attività di mediazione tra questi e Silvio Berlusconi; attività di mediazione vòlta, in un primo momento, a garantire all'ex premier protezione per sé e per la propria famiglia, e, successivamente, a sostenerne l'attività imprenditoriale e politica, in cambio di cospicue somme di denaro, che lo stesso Dell'Utri provvedeva a versare nelle casse di Cosa Nostra, così contribuendo a consolidare il potere del sodalizio criminale.

 

b) La sentenza della Corte d'appello

La sentenza di primo grado viene impugnata sia dalla difesa dell'imputato sia, in via incidentale, dal Procuratore della Repubblica di Palermo. Al termine del dibattimento di secondo grado, la Corte d'appello di Palermo, con sentenza del 29 giugno 2010, condanna Dell'Utri a sette anni di reclusione per il delitto di concorso esterno in associazione mafiosa.

L'abbassamento della pena (nove anni di reclusione in primo grado, sette anni in appello) ha una duplice spiegazione.

In punto di fatto, anzitutto, i giudici di seconde cure, pur confermando che l'imputato, sin dalla prima metà degli anni Settanta, ha svolto un importante ruolo di collegamento tra Silvio Berlusconi e Cosa Nostra, ritengono tuttavia che detta attività di mediazione - e il conseguente contributo al rafforzamento dell'associazione mafiosa - sarebbe cessata nel 1992, anziché nel 1998, come sostenuto dal Tribunale.

In punto di diritto, poi, la Corte d'appello, diversamente dal giudice di primo grado - che, come detto, aveva riconosciuto l'imputato colpevole dei due diversi delitti di concorso esterno in associazione semplice e di concorso esterno in associazione mafiosa -, afferma che, in caso di molteplici contributi a una associazione mafiosa, commessi prima e dopo l'entrata in vigore della fattispecie di cui all'art. 416 bis c.p., che risale al 1982, si applica il solo delitto di concorso esterno in associazione mafiosa, che assorbe in sé il disvalore dei contributi apportati anteriormente al 1982.

Conseguentemente, la Corte d'appello condanna il Dell'Utri per la sola fattispecie di cui agli artt. 110 e 416 bis c.p., rideterminando la pena a sette anni di reclusione.

 

c) La prima sentenza della Cassazione

Il 9 marzo 2012, la V sezione penale della Corte di Cassazione, investita dei ricorsi del Procuratore generale presso la Corte d'appello e dell'imputato, annulla con rinvio la sentenza di secondo grado.

L'annullamento, tuttavia, non investe in toto la pronuncia della Corte palermitana.

I giudici di legittimità, infatti, suddividono il periodo rilevante per l'imputazione (che il giudice di seconde cure aveva fissato nell'arco temporale 1974-1992) in tre diversi sotto-periodi - un primo periodo, dal 1974 al 1977; un secondo periodo, dal 1978 al 1982; un terzo periodo, dal 1983 al 1992 - e, a proposito del primo sotto-periodo, confermano la sentenza impugnata nella parte in cui quest'ultima aveva ritenuto dimostrato che il Dell'Utri, nel 1974, avesse favorito la stipulazione di un accordo tra Silvio Berlusconi e gli allora vertici di Cosa Nostra - accordo in forza del quale il primo avrebbe versato ai secondi cospicue somme di denaro in cambio di protezione per sé e per la propria famiglia -, e che, nei tre anni successivi, si fosse occupato di garantire l'esecuzione di tale accordo, provvedendo personalmente a consegnare il denaro di Berlusconi a esponenti dell'associazione mafiosa.  

Le censure della Cassazione si appuntano, invece, sui due segmenti temporali successivi, rispettivamente indicati nel quadriennio 1978-1982 e nel successivo decennio 1983-1992. 

Per quanto riguarda il periodo 1978-1982, i giudici di legittimità rilevano anzitutto che, stando al materiale probatorio disponibile, in quegli anni il Dell'Utri avrebbe momentaneamente interrotto la propria collaborazione professionale con Silvio Berlusconi, per svolgere un'esperienza lavorativa alle dipendenze di un altro imprenditore (Rapisarda), e osservano quindi che la Corte d'appello non avrebbe adeguatamente motivato in ordine alle modalità con le quali l'imputato, una volta allontanatosi dalla sfera imprenditoriale di Berlusconi, avrebbe comunque continuato svolgere la propria attività di intermediazione tra l'amico imprenditore e Cosa Nostra. A detta della Cassazione, dunque, per il periodo 1978-1982, nella sentenza d'appello mancavano argomenti sufficienti a dimostrare sia l'elemento oggettivo sia l'elemento soggettivo del concorso esterno.

Quanto, infine, al periodo 1983-1992, i giudici di legittimità, da un lato, confermano la sentenza impugnata nella parte in cui essa afferma che, in quest'arco temporale, Berlusconi avrebbe versato a Cosa Nostra cospicue somme di denaro - denaro che, a questo punto, non era più finalizzato a proteggere la famiglia Berlusconi, bensì a consentire a quest'ultimo di svolgere senza danni la propria attività imprenditoriale sul territorio siciliano - e che Dell'Utri, nel frattempo tornato alle dipendenze dell'amico imprenditore, si sarebbe occupato di far pervenire i soldi alle cosche mafiose; dall'altro lato, però, affermano che la Corte d'appello non avrebbe adeguatamente motivato in ordine alla sussistenza del dolo richiesto in capo al concorrente esterno.

In tema di elemento soggettivo, la Cassazione ritiene infatti che i giudici palermitani non avrebbero tenuto in debito conto tutta una serie di episodi verificatisi nell'arco del decennio in esame (uno su tutti, l'ascesa al vertice di Cosa Nostra da parte dei corleonesi, che nel 1981 erano subentrati con la violenza a Bontade e Teresi, gli originari interlocutori di Dell'Utri), dai quali parrebbe evincersi che, dall'inizio degli anni Ottanta, i rapporti tra l'imputato e i vertici dell'organizzazione criminale erano radicalmente mutati, e che, in particolare, era venuta meno quella comunione di intenti che si era invece registrata tra il 1974 e il 1977, e che, nell'ottica dei giudici di legittimità, costituirebbe elemento essenziale del dolo diretto richiesto in capo al concorrente esterno.

 

d) La sentenza della Corte d'appello in sede di rinvio

Sulla base di queste motivazioni, il giudizio viene quindi rinviato alla terza sezione penale della Corte d'appello di Palermo, la quale, a valle di un'analitica rilettura del materiale probatorio formatosi nel corso delle precedenti fasi dibattimentali, il 25 marzo 2013 condanna l'ex senatore Marcello Dell'Utri alla pena di sette anni di reclusione, confermando integralmente il giudizio di colpevolezza già espresso dalla sentenza annullata dalla Cassazione, per l'intero periodo intercorrente dal 1974 al 1992.

Com'è ovvio, la sentenza della Corte palermitana si focalizza in particolare sui due periodi investiti dalle censure dei giudici di legittimità, vale a dire il quadriennio 1978-1982, e il successivo decennio 1983-1992.

A proposito del periodo 1978-1982, la Corte d'appello evidenzia anzitutto che, diversamente da quanto sostenuto dalla Cassazione, l'allontanamento di Dell'Utri dalla sfera imprenditoriale di Berlusconi non si è protratto sino al 1982, bensì solo fino al 1979. In secondo luogo, rileva che anche in questo breve periodo di allontanamento l'imputato, non solo ha mantenuto stretti e continuativi rapporti con importanti esponenti di Cosa Nostra, ma, soprattutto, ha continuato a svolgere quell'attività di mediazione e collegamento tra l'amico imprenditore e l'associazione mafiosa, che aveva portato alla stipula del patto del 1974 (sul punto, la Corte richiama le dichiarazioni rese dai due collaboranti Calogero Ganci e Francesco Paolo Anzelmo Galliano, a detta dei quali i pagamenti di Berlusconi a Cosa Nostra, per il tramite di Dell'Utri, si sarebbero protratti senza soluzione di continuità fino alla morte del boss Bontade, avvenuta nel 1981, per poi proseguire anche negli anni successivi).

Quanto, invece, al decennio 1983-1992, i giudici palermitani passano in rassegna tutti gli episodi che, secondo la chiave di lettura suggerita dalla Cassazione, indicherebbero che in quegli anni l'atteggiamento di Dell'Utri nei confronti di Cosa nostra avrebbe subito un radicale mutamento rispetto al passato, in particolare a seguito della caduta dei boss Teresi e Bontade, interlocutori storici dell'imputato, che all'inizio degli anni Ottanta erano stati sostituiti al vertice dell'organizzazione criminale dal gruppo dei corleonesi, con i quali Dell'Utri - dice la Cassazione - avrebbe instaurato rapporti estremamente tesi e conflittuali, come testimonierebbero gli attentati di matrice mafiosa subiti da Berlusconi nella seconda metà degli anni Ottanta (il riferimento è all'attentato di via Rovani del 28 novembre 1986, alle azioni intimidatorie decise da Riina nel 1987 e agli attentati ai magazzini della Standa di Catania del 1990) e la scelta di Riina di raddoppiare la somma di denaro che Berlusconi doveva pagare a Cosa nostra in cambio di protezione.

Ebbene, a detta della Corte d'appello, "gli accadimenti, sui quali la Corte di Cassazione aveva chiesto un nuovo giudizio da parte di questo giudice di rinvio, non hanno palesato alcun mutamento o torsione nei rapporti tra Dell'Utri-Berlusconi e cosa nostra", essendo viceversa emerso il mero "interesse delle parti a salvaguardare un equilibrio prezioso per entrambe" (pag. 458). Né, d'altra parte, scrivono ancora i giudici palermitani, "può sostenersi che Dell'Utri, dopo aver intrattenuto così a lungo rapporti personali con boss mafiosi del calibro di Bontade, non sia stato consapevole delle finalità perseguite dall'associazione mafiosa: l'imputato aveva perfettamente chiari sia il vantaggio perseguito da cosa nostra, che l'efficacia causale della sua attività per il mantenimento della stessa associazione criminale" (pag. 458). Di talché, conclude sul punto la sentenza, anche in relazione al terzo e ultimo periodo oggetto di imputazione deve ritenersi sussistente "quel dolo specifico e diretto del concorrente esterno" richiesto dalla giurisprudenza per l'applicazione del delitto di cui agli artt. 110 e 416 bis c.p.

 

3. La sentenza odierna della Corte di Cassazione

Diversamente da quanto accaduto nel 2012, la sentenza di condanna pronunciata dalla sezione III della Corte d'appello di Palermo supera indenne il vaglio della Corte di Cassazione. Nelle oltre settanta pagine di motivazione, i giudici di legittimità illustrano distesamente le ragioni per le quali la decisione dei giudici palermitani si sottrae alle plurime censure formulate dalla difesa di Marcello Dell'Utri, sottolineando in particolare come la Corte d'appello, attraverso una rilettura puntuale e completa del materiale probatorio disponibile, abbia saputo colmare quei vuoti argomentativi che avevano invece caratterizzato la sentenza di condanna annullata con rinvio nel 2012.

Di seguito si procederà, dunque, a riassumere le principali osservazioni svolte dalla Cassazione, ripercorrendo, dapprima, i principi di diritto espressi in tema di concorso esterno in associazione mafiosa, e, successivamente, le valutazioni più strettamente attinenti alla vicenda Dell'Utri.

 

a) I principi di diritto espressi dalla Cassazione in tema di concorso esterno

Nel ricostruire gli elementi obiettivi della fattispecie di concorso esterno in associazione mafiosa, la Cassazione non si discosta dalle definizioni ormai ampiamente consolidatesi in sede di legittimità, a seguito delle numerose pronunce a Sezioni Unite che hanno interessato negli ultimi vent'anni la fattispecie in parola.

In piena assonanza con i più recenti approdi giurisprudenziali, il concorrente esterno viene quindi descritto come il "soggetto che, non inserito stabilmente nella struttura organizzativa dell'associazione e privo dell'affectio societatis, fornisce un concreto, specifico, consapevole e volontario contributo che esplichi un'effettiva rilevanza causale e, quindi, si configuri come condizione necessaria per la conservazione e il rafforzamento delle capacità operative dell'associazione o, quanto meno, di un suo particolare settore, ramo di attività o articolazione territoriale e sia diretto alla realizzazione, anche parziale, del programma criminoso della medesima" (pag. 58).

I giudici di legittimità ribadiscono, inoltre, che deve considerarsi ormai definitivamente superato quell'orientamento giurisprudenziale - evocato dal ricorrente - che richiedeva che il contributo del concorrente esterno intervenisse in un momento di "fibrillazione" nella vita del sodalizio criminale; come già chiarito dalla Sezioni Unite Mannino del 2005, infatti, la fattispecie di concorso esterno ricorre ogniqualvolta l'extraneus fornisca il proprio aiuto al rafforzamento ovvero al consolidamento del potere di un'organizzazione mafiosa, indipendentemente dallo "stato di salute" in cui in quel momento versi l'associazione.

Qualche profilo di novità pare invece scorgersi in punto di elemento soggettivo.

A tal proposito, occorre anzitutto ricordare che la giurisprudenza di legittimità, con un percorso argomentativo iniziato con le sentenze a sezioni unite Carnevale (2002) e Mannino (2005), e di recente completato con la prima sentenza Dell'Utri (2012), è ormai costante nel richiedere che il concorrente esterno agisca con la consapevolezza e volontà, non soltanto di contribuire al rafforzamento ovvero alla conservazione dell'organizzazione mafiosa, ma anche che il suo apporto risulti "diretto alla realizzazione del programma criminoso", espressione, quest'ultima, che la sentenza Dell'Utri del 2012 aveva interpretato nel senso di richiedere, in capo all'extraneus, una vera e propria condivisione, anche a livello per così dire emotivo, delle finalità perseguite dal sodalizio criminale (tant'è che, nel censurare la sentenza d'appello per il periodo 1983-1992, i giudici di legittimità avevano affermato che l'atteggiamento riottoso e polemico di Dell'Utri nei confronti dei nuovi vertici di Cosa Nostra non pareva compatibile con il tipo di dolo diretto richiesto in capo al concorrente esterno).

Tenendo a mente quest'ultima osservazione, vediamo a questo punto come la sentenza in commento ricostruisce il dolo del concorrente esterno.

Sul punto, i giudici di legittimità osservano in primo luogo che "la particolare struttura della fattispecie concorsuale comporta [...], quale essenziale requisito, che il dolo del concorrente esterno investa, nei momenti della rappresentazione e della volizione, sia tutti gli elementi essenziali della figura criminosa tipica sia il contributo causale recato dal proprio comportamento alla realizzazione del fatto concreto, con la consapevolezza e la volontà di interagire, sinergicamente, con le condotte altrui nella produzione dell'evento lesivo del 'medesimo reato'" (pag. 58-59).

"Pertanto", scrive quindi la Cassazione, "il concorrente esterno, pur sprovvisto dell'affectio societatis e, cioè, della volontà di far parte dell'associazione, deve essere consapevole dei metodi e dei fini della stessa (a prescindere dalla condivisione, avversione, disinteresse o indifferenza per siffatti metodi e fini, che lo muovono nel foro interno) e si renda compiutamente conto dell'efficacia causale della sua attività di sostegno, vantaggiosa per la conservazione o il rafforzamento dell'associazione" (pag. 59).

Ebbene, chi abbia un minimo di dimestichezza con la giurisprudenza dell'ultimo decennio in tema di concorso esterno non potrà non cogliere i significativi elementi di novità che caratterizzano la ricostruzione del dolo dell'extraneus proposta dalla sentenza in parola, a partire dalla scelta dell'estensore, certo non casuale, di non fare alcun riferimento alla "volontà" di contribuire alla realizzazione del programma criminoso perseguito dall'associazione criminale, e di insistere, viceversa, sulla necessità che il concorrente sia "consapevole" degli scopi e dei metodi dell'organizzazione e che "si renda compiutamente conto" dell'efficacia causale del suo contributo.

Ma, soprattutto, a venire in rilievo è la precisazione dell'assoluta irrilevanza dell'atteggiamento del concorrente esterno nei confronti dei metodi e dei fini perseguiti dal sodalizio criminale: la Corte, infatti, non solo non pretende, da parte del concorrente, alcuna condivisione "interna" del programma criminoso che l'organizzazione criminale intende realizzare, ma afferma espressamente che l'extraneus, nel proprio foro interno, potrà anche provare una vera e propria avversione nei confronti degli obiettivi dell'associazione mafiosa, senza che ciò precluda in alcun modo la possibilità di configurare il dolo del concorso esterno.

Sotto questo profilo, dunque, la sentenza in commento pare muoversi in una direzione significativamente diversa rispetto a quella seguita dalla più recente giurisprudenza di legittimità, nell'ottica di un progressivo smarcamento da quelle ricostruzioni ermeneutiche che, negli ultimi anni, hanno inteso attribuire all'extraneus un atteggiamento psicologico sostanzialmente sovrapponibile al dolo specifico richiesto in capo al partecipante

 

 

b) Le statuizioni della Corte di Cassazione sulla vicenda Dell'Utri

Una volta ricostruite le coordinate ermeneutiche fissate dalla Cassazione in tema di concorso esterno, non resta che spostare lo sguardo sulle osservazioni espresse dai giudici di legittimità in ordine alla rilettura del materiale probatorio contenuta nella sentenza d'appello per i due periodi devoluti alla nuova valutazione del giudice di seconde cure palermitano.  

Per ciò che concerne il periodo di allontanamento di Dell'Utri dalla sfera imprenditoriale dell'amico Berlusconi, la Cassazione anzitutto conferma la sentenza d'appello nella parte in cui essa precisa che detto allontanamento "non coincideva con il quadriennio 1978-1982", come invece indicato nella sentenza di annullamento, "ma era molto più breve, essendosi protratto soltanto tra il 1978 e il 1979" (pag. 48). A sostegno di tale assunto, infatti, la Corte d'appello ha correttamente evidenziato le seguenti risultanze:

- le dichiarazioni rese dallo stesso imputato, il quale, nel corso del dibattimento di primo grado, ha affermato "di essere stato amministratore delegato della s.p.a. Bresciano" (società riconducibile a Rapisarda) dal gennaio 1978 alla fine del 1979, allorché la società era fallita", e "di non avere, da allora, avuto più niente a che fare con aziende e società del gruppo Rapisarda e di essere tornato a lavorare per Silvio Berlusconi sin dal 1980, pur se l'assunzione formale era avvenuta l'1 marzo 1982" (pag. 49);

- le dichiarazioni rese da Rapisarda, "che ammetteva di essere scappato, sin dal febbraio 1979, dapprima in Venezuela e, quindi, in Francia" (pag. 49).

In secondo luogo, la Cassazione condivide il giudizio della Corte d'appello circa l'inidoneità del periodo di allontanamento "a incidere sul ruolo d'intermediario svolto dall'imputato tra 'cosa nostra' palermitana e Silvio Berlusconi ai fini della protezione di quest'ultimo", in quanto, dice, tale giudizio risulta fondato su un complesso di elementi "in ordine ai quali la Corte d'Appello forniva una giustificazione razionale, sorretta dal puntuale esame delle emergenze probatorie acquisite" (pag. 49).

In particolare, ricordano i giudici di legittimità, gli elementi dai quali la sentenza d'appello ha desunto, con motivazione immune da vizi logici, il perdurare dei rapporti tra l'imputato e Cosa nostra anche in questo breve lasso di tempo sono i seguenti:

- l'incontro, avvenuto a Parigi nei primi mesi del 1980, tra l'imputato e i boss Bontade e Teresi, nel corso del quale "Dell'Utri chiedeva ai due esponenti mafiosi venti miliardi di lire per l'acquisto di film per 'Canale 5'" (pag. 50);

- le dichiarazioni del collaboratore di giustizia Antonino Calderone, "che collocava un incontro a Milano tra Stefano Bontade (da lui accompagnato in auto in questa come in altre occasioni) e Dell'Utri nel periodo in cui quest'ultimo già lavorava per Rapisarda" (pag. 51);

- la partecipazione, nel corso del 1979, "ossia nel periodo di tempo in cui l'imputato non lavorava più alle dipendenze di Silvio Berlusconi) a una cena tenutasi nella villa di Stefano Bontade, cui aveva preso parte una ventina di persone, tra cui Di Carlo, Bontade, Teresi" (pag. 51);

- la richiesta, rivolta da Dell'Utri a Cinà, di occuparsi della 'messa a posto, per l'installazione delle antenne televisive, questione poi effettivamente risolta da Bontade e Teresi" (pag. 51);

- la partecipazione di Dell'Utri al matrimonio di Girolamo Fauci, celebratosi a Londra il 19 aprile 1980, "che aveva visto tra gli invitati anche Cinà, Girolamo Teresi (testimone della sposa), Di Carlo".

La Cassazione rileva altresì che "il contesto giustificativo della decisione circa la responsabilità di Dell'Utri in ordine al delitto a lui ascritto nel periodo 1978-1982 era ulteriormente arricchito dall'approfondita analisi delle dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia (Calogero Ganci, Francesco Paolo Anzelmo, entrambi 'uomini d'onore', della famiglia della Noce, e Antonino Galliano, 'uomo d'onore riservato' della famiglia della Noce) in merito alla prosecuzione dei pagamenti effettuati, in attuazione dell'accordo concluso nel 1974 a Milano tra gli esponenti di 'cosa nostra' palermitana e Silvio Berlusconi, grazie all'opera di intermediazione dell'imputato, anche nel lasso di tempo in cui Dell'Utri non lavorava formalmente alle dipendenze di Berlusconi" (pag. 52).

In particolare, scrivono i giudici di legittimità, dalla ricostruzione delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, la Corte d'appello ha correttamente desunto che "i pagamenti di Berlusconi in favore di 'cosa nostra' palermitana - quale corrispettivo per la complessiva protezione a lui accordata e in attuazione dell'accordo raggiunto nel 1974 con la mediazione di Dell'Utri - erano proseguiti senza soluzione di continuità e che, dopo la scomparsa di Stefano Bontade e di Girolamo Teresi (avvenute entrambe nel 1981), erano stati effettuati ai fratelli Giovan Battista e Ignazio Pullarà, divenuti reggenti del mandamento di S. Maria del Gesù e subentrati nei rapporti da essi intrattenuti. I soldi venivano materialmente riscossi a Milano presso Dell'Utri da Gaetano Cinà che provvedeva a recapitarli a Stefano Bontade e, dopo la morte di quest'ultimo, li faceva pervenire ai Pullarà tramite Pippo Di Napoli e Pippo Contorno, 'uomo d'onore' della stessa 'famiglia' mafiosa" (pag. 53).

Sulla base di queste considerazioni, la Cassazione conferma il giudizio della Corte d'appello in ordine alla sussistenza, in capo a Dell'Utri, per l'intero quadriennio 1978-1982, degli elementi obiettivi e subiettivi del delitto di concorso esterno in associazione mafiosa.

La Cassazione passa quindi a esaminare la parte della sentenza d'appello dedicata alla rilettura degli avvenimenti "ritenuti dalla sentenza rescindente apparentemente distonici con il riconoscimento dell'elemento soggettivo del delitto di concorso esterno in associazione mafiosa nel periodo 1983-1992" (pag. 64), osservando in particolare che:

- bene hanno fatto i giudici palermitani a rilevare che l'attentato di via Rovani del 1986, in quanto riconducibile all'organizzazione catanese capeggiata dal boss Santapaola, deve ritenersi "del tutto estraneo alla trama dei rapporti tra Berlusconi, Dell'Utri e il sodalizio mafioso in precedenza delineata" e, conseguentemente, "inidoneo a incidere sulla sussistenza dell'elemento soggettivo del delitto di cui agli artt. 110, 416 bis c.p.";

- altrettanto corretta è anche la lettura della Corte d'appello dell'episodio relativo alla scelta del boss Riina, nel 1986, di raddoppiare le somme richieste a Berlusconi, episodio che, secondo i giudici palermitani, "non ha in alcun modo inciso sulla natura dell'accordo di protezione concluso nel 1974, sulle sue modalità attuative, proseguite con il ritiro delle somme di denaro presso l'ufficio di Dell'Utri da parte di Cinà, sull'affidamento reciproco tra l'imputato e Cinà, comprovato dalle conversazioni intercorse tra il novembre e il dicembre 1986 tra Cinà e Marcello, Alberto Dell'Utri e la loro madre, tutte improntate alla massima familiarità" (pag. 65);

- del pari, anche la "non attribuibilità degli attentati ai magazzini 'Standa' di Catania, appartenenti alla 'Fininvest', all'azione di 'cosa nostra' palermitana veniva plausibilmente motivato dalla Corte d'appello di Palermo mediante il richiamo al contenuto della sentenza emessa dalla Corte d'assise d'appello di Catania nel c.d. processo 'Orsa maggiore' (irrevocabile il 10 luglio 2001), acquisita ai sensi dell'art. 238 bis c.p.p., che aveva accertato, con autorità di cosa giudicata, che detti attentati erano stati commessi dalla 'famiglia' mafiosa facente capo a Benedetto (Nitto) Santapaola e al nipote Aldo Ercolano, condannati quali mandanti degli incendi e della connessa tentata estorsione" (pag. 66).

In conclusione, i giudici di legittimità ritengono che la Corte d'appello di Palermo abbia dimostrato, "con motivazione esente da vizi logici e giuridici", che "anche nel periodo compreso tra il 1983 e il 1992, l'imputato, assicurando un costante canale di collegamento tra i partecipi del patto di protezione stipulato nel 1974, protrattosi da allora senza interruzioni, e garantendo la continuità dei pagamenti di Silvio Berslusconi in favore degli esponenti dell'associazione mafiosa in cambio della complessiva protezione da questa accordata all'imprenditore, ha consapevolmente e volontariamente fornito un contributo causale determinante, che senza il suo apporto non si sarebbe verificato, alla conservazione del sodalizio mafioso e alla realizzazione, almeno parziale, del suo programma criminoso, volto alla sistematica acquisizione di proventi economici ai fini della sua stessa operatività, del suo rafforzamento e della sua espansione" (pag. 69).

Di talché, la sentenza d'appello viene confermata anche nella parte in cui afferma la sussistenza degli estremi del dolo del delitto di concorso esterno in associazione mafiosa per il decennio 1983-1992.