ISSN 2039-1676


09 dicembre 2010 |

Quale sorte per le sentenze che hanno applicato l'aggravante di clandestinità ?

L'efficacia retroattiva delle sentenze di incostituzionalità  di fronte al giudicato penale

 
La recente declaratoria di illegittimità costituzionale della cd. aggravante di clandestinità (Corte Cost. n. 249/2010, che ha rimosso dall'art. 61 c.p. l'ipotesi di cui al n. 11-bis), ha sollevato il problema della sorte delle sentenze pronunciate tenendo conto di quella circostanza: si tratta di un quesito inedito, dal momento che non risultano precedenti interventi demolitori della Consulta aventi ad oggetto le aggravanti (nè quelle comuni, nè quelle speciali).
 
La risposta è semplice con riferimento alle sentenze non ancora passate in giudicato, siano esse di condanna o di applicazione della pena su richiesta delle parti ex art. 444 c.p.p. Le prime potranno essere riformate in sede d'appello, oppure annullate con rinvio dalla Cassazione per (sopravvenuta) violazione di legge. Quanto alle seconde, pare utile soffermare l'attenzione su una recentissima pronuncia della Cassazione (sez. VI, sent. n. 40836 del 17 novembre 2010).
 
Il caso riguardava un cittadino extracomunitario irregolare che, accusato di lesioni personali e resistenza a pubblico ufficiale, aveva patteggiato una pena di otto mesi e venti giorni di reclusione, sulla base di un accordo sanzionatorio in cui l'aggravante di clandestinità – all'epoca ancora vigente – era stata ritenuta equivalente alle attenuanti generiche.
 
Ad avviso della Sesta sezione, l'intervenuta declaratoria di illegittimità costituzionale della citata aggravante determina l'invalidità sopravvenuta dell'accordo sanzionatorio che ha condotto alla pronuncia di patteggiamento, e ciò in quanto lo priva, in forza del principio di retroattività favorevole (art. 2, comma 4 c.p.), di una delle disposizioni alla luce delle quali era maturato (per l'appunto, l'art. 61 n. 11-bis).
 
Da ciò discende, come logica conseguenza, la nullità della sentenza che tale accordo aveva ratificato, la quale deve essere annullata senza rinvio, con semplice trasmissione degli atti al giudice di prime cure: in quella sede, chiariscono i giudici di legittimità, sarà possibile o ridefinire l'accordo sanzionatorio in conformità alla legge, oppure rinunciare al patteggiamento, optando per il rito abbreviato o per quello ordinario.
 
La soluzione adottata dalla Sesta sezione è senz'altro convincente in relazione al risultato ottenuto, ossia la rimozione degli effetti che l'ormai abolita aggravante aveva prodotto sul trattamento sanzionatorio patteggiato. Qualche perplessità, tuttavia, suscita lo strumento utilizzato dalla Corte per raggiungere tale risultato, ossia il principio di retroattività favorevole sancito dall'art. 2, comma 4 c.p.
 
Gli effetti della dichiarazione di incostituzionalità, quand'anche relativa ad una norma penale, paiono infatti più propriamente ricadere nella disciplina derivante dal combinato disposto degli artt. 136 Cost. e 30, comma 3 e 4, della l. n. 87 del 1953 (“Norme sulla Costituzione e sul funzionamento della Corte Costituzionale”). Infatti, mentre l'art. 2, comma 4 c.p. disciplina i rapporti tra diverse norme penali che si succedono nel tempo, le disposizioni da ultimo citate si riferiscono specificamente alla declaratoria di illegittimità costituzionale: l'art. 136 stabilisce, a livello di principio, che, “quando la Corte dichiara la illegittimità costituzionale di una legge o di un atto avente forza di legge, la norma cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione”; l'art. 30 completa il precetto dettando due regole rivolte direttamente al giudice: “le norme dichiarate incostituzionali non possono avere applicazione dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione” (comma 3); “quando in applicazione della norma dichiarata incostituzionale è stata pronunciata sentenza irrevocabile di condanna, ne cessano la esecuzione e tutti gli effetti penali” (comma 4).
 
L'opzione a favore della disciplina dettata dagli artt. 136 Cost. e 30 della l. 87/1953 – invece di quella successoria contenuta dal codice penale – non presenta peraltro risvolti pratici quando si ha a che fare, come nel caso all'attenzione della Sesta sezione, con sentenze non ancora passate in giudicato (siano esse di condanna o patteggiamento): entrambe le strade, infatti, conducono alla rimozione degli effetti prodotti dall'aggravante.
 
La scelta tra le due prospettate alternative, invece, potrebbe acquistare grande rilevanza pratica allorché si abbia a che fare con quelle sentenze (di condanna o patteggiamento) che, al momento della declaratoria di illegittimità costituzionale, erano già divenute irrevocabili. Su questa categoria di pronunce occorre ora spostare il fuoco dell'attenzione.
 
Al riguardo, giova invero premettere che – secondo l’orientamento consolidato della giurisprudenza«le pronunce di accoglimento della Corte Costituzionale hanno bensì effetto retroattivo, in quanto discendono da una dichiarazione di illegittimità che inficia sin dall'origine la disposizione colpita, tuttavia detta efficacia trova un limite nelle situazioni giuridiche già consolidate, attraverso quegli eventi che l'ordinamento giuridico riconosce idonei a produrre tale effetto, tra i quali si fanno rientrare la sentenza passata in giudicato e l'atto amministrativo non più impugnabile, nonché altri fatti rilevanti sul piano sostanziale o processuale, quali la prescrizione e la decadenza (Cass. 19 febbraio 1987 n. 1814; 12 febbraio 1990 n. 986; 15 gennaio 1993 n. 414; 27 gennaio 1993 n. 986)» (Cass. civ., sez. lav., 1.2.1996, n. 891, grassetto aggiunto; da ultimo, Cass. civ., sez. III, 6.5.2010, n. 10958; nella giurisprudenza penale, Sez. Un., 29.3.2007, n. 27614). La medesima giurisprudenza riconosce, quale unica eccezione al principio appena enucleato, il caso espressamente preso in considerazione dal comma 4 dell'art. 30: quello cioè in cui la pronuncia di incostituzionalità colpisce una norma incriminatrice.
 
Sulla base di tale orientamento, le sentenze che hanno applicato l’aggravante di clandestinità, una volta passate in giudicato, dovrebbero dunque rimanere intangibili, dal momento che la dichiarazione di illegittimità costituzionale colpisce in quelle ipotesi una norma che incide non già sull’an ma unicamente sul quantum della pena. Una conclusione del tutto coincidente, dunque, con quella cui si perverrebbe applicando l’art. 2 co. 4 c.p., che parimenti condiziona la retroattività delle modifiche normative più favorevoli in materia penale al mancato intervento del giudicato.
 
L’irresistibilità di tale conclusione meriterebbe però di essere ripensata funditus, rimettendo in discussione la capacità del giudicato di arginare la forza retroattiva della dichiarazione di incostituzionalità in tutti i casi diversi dalla abolitio criminis.
 
A tal fine, il primo passo da compiere consiste nel domandarsi quali siano gli argomenti invocati dalla giurisprudenza a sostegno del suo consolidato orientamento. Ebbene, se si passano in rassegna le sentenze civili e penali degli ultimi quarant'anni sul punto, non si può che rimanere delusi: ci si trova infatti di fronte ad un principio dal sapore tralatizio, che viene costantemente riproposto senza alcuna giustificazione espressa, come se si trattasse di un postulato indiscutibile. Invero, l'unico cenno di argomentazione si ritrova in quelle (poche) pronunce secondo le quali gli artt. 136 e 30 devono essere coordinati con le regole che disciplinano il definitivo consolidamento dei rapporti giuridici (ad es. Cass. civ., sez. I, 9.1.2004, n. 113).
 
Ben più convincenti, ad avviso di chi scrive, sono gli argomenti che potrebbero condurre ad approdi diversi da quelli raggiunti in giurisprudenza.
 
Vi è in primo luogo – qui sì – un punto fermo dal quale prendere le mosse: l'art. 136 Cost. non pone alcun limite espresso all'effetto retroattivo delle pronunce di incostituzionalità. Da un lato, infatti, si limita a stabilire che “la norma cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione”: ciò significa che la norma dichiarata incostituzionale non è più in grado di legittimare le posizioni giuridiche formatesi in base ad essa. Dall'altro, e soprattutto, non contiene alcun richiamo agli eventi di consolidamento (prescrizione, decadenza o giudicato) che, ad avviso della giurisprudenza, sarebbero in grado di perpetuare l'efficacia della norma caducata.
 
Tale considerazione non fa certo venir meno la necessità di coordinare le esigenze di giustizia che stanno alla base del principio di retroattività con quelle di certezza del diritto ed economia processuale sottese al consolidamento delle posizioni giuridiche: piuttosto, si tratta di mettere in luce come l'interpretazione degli artt. 136 Cost. e 30 l. 87/1953 tradizionalmente abbracciata dalla giurisprudenza non sia, in realtà, l'unica compatibile col dettato costituzionale.
 
Se ciò è corretto, ne discende a nostro avviso l’opportunità che voci ben più autorevole di quella di chi scrive procedano, magari prendendo spunto dalla questione qui all’esame, ad una complessiva rivisitazione dei rapporti tra la dichiarazione di incostituzionalità e le diverse cd. posizioni consolidate (giudicato, prescrizione, decadenza), al fine di rideterminare ipotesi per ipotesi – tenendo conto sia del tipo di norma caducata che del tipo di posizione consolidata che si andrebbe a sacrificare – quando le esigenze di certezza ed economia processuale debbano prevalere su quelle di giustizia e viceversa.
 
Nell'ambito di tale opera di rivisitazione, uno dei casi che dovrebbero essere presi in attenta considerazione – al quale soltanto limiteremo le nostre considerazioni – è proprio quello in cui la dichiarazione di incostituzionalità colpisca una norma che incida sul quantum, e non solo sull’an, della pena in concreto inflitta al condannato. Ebbene, pare a chi scrive che in questo caso vi siano solide ragioni per ritenere che le esigenze di giustizia sottese all’eliminazione degli effetti, pregiudizievoli per l’individuo, di una norma dichiarata incostituzionale debbano senz’altro prevalere su quelle di certezza dei rapporti giuridici.
 
L'argomento forte a sostegno di tale conclusione va rinvenuto negli artt. 30, comma 4 della l. 87/1953 e 673, comma 1 c.p.p. Tali disposizioni, come è noto, sono tra loro intimamente collegate: la prima, come visto, stabilisce che la dichiarazione di incostituzionalità di una norma incriminatrice travolge anche il giudicato; la seconda attribuisce al giudice dell'esecuzione il rimedio che permette di dare concreta attuazione alla prima, vale a dire il potere di revoca della sentenza passata in giudicato adottata sulla base della norma incriminatrice caducata. Ebbene, benché queste disposizioni prendano in considerazione soltanto il caso dell'abolitio criminis, ci pare che sussistano tutti i requisiti per procedere ad una loro applicazione in via analogica anche ai casi in cui venga rimossa dall'ordinamento una circostanza aggravante.
 
Infatti, la ratio sottesa agli artt. 30, comma 4 l. 87/1953 e 673, comma 1 c.p.p. è di impedire che una sanzione penale, per quanto inflitta attraverso una sentenza divenuta irrevocabile, venga ingiustamente sofferta sulla base di una norma dichiarata illegittima dalla Corte costituzionale. Una tale ratio sembra potersi agevolmente estendere anche alla situazione in cui la dichiarazione di illegittimità investa una norma dalla quale dipenda la misura (o, se del caso, la stessa specie) della pena inflitta: la rimozione di quella norma dall’ordinamento comporta il venir meno della giustificazione, se non dell’intera pena, quanto meno di una parte di essa. La situazione è, dunque, in entrambi i casi simile, trattandosi pur sempre di evitare che una norma che il legislatore non aveva sin dall’inizio il potere di emanare, perché in contrasto con la Costituzione, possa continuare a produrre effetti pregiudizievoli per i diritti fondamentali (in primis la libertà personale) dell’individuo.
 
Si tratta, per altro verso, di una situazione ben diversa da quella – disciplinata dall’art. 2 co. 4 c.p. – di mera successione tra norme, tutte costituzionalmente legittime, che influiscono sul quantum della pena irrogabile. Per quanto ci si possa fondatamente chiedere, oggi, se il limite del giudicato possa legittimare la stessa deroga posta dall’art. 2 co. 4 c.p. al principio di retroattività in mitius della norma incriminatrice – al quale la Corte costituzionale conferisce oggi una tutela rafforzata nel quadro dell’art. 3 Cost. alla luce del suo vasto riconoscimento in sede internazionale come vero e proprio diritto fondamentale dell’individuo (cfr. sent. 393/2006) –, non v’è dubbio che altro è impedire, in presenza di un giudicato, l’applicazione retroattiva di una nuova norma che corregge in senso più favorevole al reo la precedente valutazione legislativa – in sé del tutto legittima – relativa al disvalore del fatto; altro è mantenere fermi, in conseguenza dell’intervenuto giudicato, gli effetti sfavorevoli al condannato di una norma illegittima, che come tale mai il legislatore avrebbe dovuto porre in essere.
 
Né, ci pare, gli interessi sottesi all’intangibilità del giudicato in materia penale appaiono di tale rilevanza da giustificare una simile compressione dei diritti fondamentali del condannato. A differenza di quanto accade in particolare nel diritto civile, dove la sentenza produce normalmente effetti in relazione alla situazione giuridica di due diversi soggetti, l’ipotetico controinteressato è qui esclusivamente lo Stato, titolare della pretesa punitiva e dell’interesse collettivo alla “economia processuale”, posto in causa ogniqualvolta si introduca un nuovo rimedio che possa determinare un dispendio di risorse per la macchina della giustizia. Un controinteresse rispettabile, certo; ma il cui rango appare già ictu oculi non comparabile con quello del diritto fondamentale del condannato a non subire lesioni ai propri diritti fondamentali ulteriori a quelle consentite dalla Costituzione.
 
Ne consegue, a nostro avviso, che il potere del giudice dell'esecuzione di intervenire sul giudicato, espressamente previsto per la dichiarazione di illegittimità della norma incriminatrice, dovrebbe essere esteso – per analogia – anche all’ipotesi in cui venga dichiarata l’illegittimità della norma che preveda una circostanza aggravante o, comunque, la cui applicazione abbia in concreto inciso sulla determinazione della pena inflitta all’imputato (in senso favorevole alla possibilità di applicare l'art. 673 al caso qui in discussione, v. Degli Innocenti L. – Tovani S., La Corte Costituzionale dichiara illegittima la cd. aggravante di clandestinità, in Dir. pen. proc. 2010, n. 10, 1184; in senso contrario, cfr. invece Corbetta S., "Patteggiamento" e aggravante della clandestinità: tutto da rifare, in Quotidiano giuridico Ipsoa del 10.12.2010, il quale fa leva sull'inequivoco tenore letterale dell'art. 673, comma 1 c.p.p., che fa riferimento al solo caso di abolitio criminis).
 
Si potrebbe invero obiettare, alla luce del tenore letterale degli artt. 30, co. 4 l. 87/1953 e 673 c.p.p. (i quali, lo si ricorda, fanno riferimento alla dichiarazione di illegittimità della norma incriminatriceed alla conseguente revoca della sentenza), che il mancato riferimento alle circostanze aggravanti rappresenti una lacuna intenzionale da parte del legislatore, come tale ostativa all'analogia legis. Tuttavia, a fare da contrappeso a questa obiezione, vi è la necessità di procedere ad una interpretazione delle stesse orientata al principio costituzionale di uguaglianza-ragionevolezza: infatti la delimitazione del loro ambito di applicabilità alle sole ipotesi di dichiarazione di illegittimità della norma incriminatricenon pare rispondere ad alcuna ragionevole giustificazione, alla luce delle considerazioni sopra svolte; correlativamente, risulta conforme al principio di uguaglianza estenderne l'operatività all'abolizione delle aggravanti.
 
Si potrebbe, altresì, obiettare che gli artt. 30, comma 4 l. 87/1953 e 673 c.p.p. non sarebbero in radice suscettibili di applicazione analogica, trattandosi di norme eccezionali rispetto al principio generale di intangibilità del giudicato di cui all'art. 648 c.p.p.; onde l’unica soluzione per ovviare alla lacuna legislativa sarebbe, in quest’ottica, quella di formulare una questione di illegittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 30, comma 4 l. 87/1953 e 673 c.p.p. per contrasto con l’art. 3 Cost., nella parte in cui tali norme non prevedono l’obbligo per il giudice, in sede di incidente di esecuzione, di rideterminare la pena nel caso in cui sia stata dichiarata l’illegittimità costituzionale di una norma incidente sulla specie o sulla misura della pena.
 
Al riguardo, occorre tuttavia considerare che il divieto di dare applicazione – anche nella fase di esecuzione della pena – ad una norma dichiarata illegittima dalla Corte costituzionale è esso stesso principio generale di rango costituzionale, fondato sul disposto del citato art. 136 Cost.; ed è principio, anzi, di rango certamente sovraordinato – dal punto di vista della gerarchia delle fonti – rispetto al fascio di interessi sottesi all'intangibilità del giudicato (certezza dei rapporti giuridici, economia processuale, etc.), la cui copertura costituzionale è assai meno evidente. Attraverso l'applicazione analogica degli artt. 30, comma 4 l. 87/1953 e 673 c.p.p., pertanto, l'interprete apporrebbe sì una ulteriore deroga (tra le molte già previste dall'ordinamento) al principio dell'intangibilità del giudicato, in omaggio però ad un altro principio di carattere generale e di inequivoco rango costituzionale, quale quello che impone la rimozione ex tunc, ogniqualvolta ciò sia possibile, degli effetti di una norma di legge emanata in contrasto con la Costituzione. Non a caso, del resto, la Cassazione ha recentemente fatto ricorso all'applicazione analogica del ricorso straordinario previsto dalla disposizione (pure usualmente riconosciuta come eccezionale) dell'art. 625-bis c.p.p. contro sentenze già passate in giudicato, al fine di assicurare tutela a diritti fondamentali del condannato (così come riconosciuti dagli artt. 6 e 7 CEDU), violati secondo l'apprezzamento della Corte europea dei diritti dell'uomo nei rispettivi processi penali, già conclusisi con sentenza di condanna definitiva (cfr. Cass. pen., sez. VI, 12 novembre 2008, n. 45807, Drassich, in Cass. pen., 2009, p. 1457 ss; sez. V, 11 febbraio 2010, n. 16507, Scoppola): sul principio di intangibilità del giudicato la Cassazione ha in questi casi giustamente fatto prevalere la necessità prioritaria di tutelare diritti individuali riconosciuti dalla CEDU, e mediatamente (ex art. 117 co. 1 Cost.) dalla nostra stessa Costituzione, che sarebbero stati irreparabilmente lesi dall'esecuzione di quelle sentenze irrevocabili di condanna.
 
Se, dunque, nulla osta a nostro avviso ad un'applicazione analogica delle citate norme, va da sé che il tipo di rimedio a disposizione del giudice dell'esecuzione dovrà a questo punto essere adattato al tipo di vizio da sanare. Pertanto il giudice non dovrà evidentemente procedere alla revoca della sentenza, come letteralmente prevede l'art. 673; bensì soltanto alla rideterminazione della pena “al netto” della aggravante di clandestinità (con tutte le conseguenze sul trattamento sanzionatorio complessivo: ad esempio, la concessione della sospensione condizionale), beninteso se e in quanto l’aggravante abbia in concreto inciso sulla determinazione della pena da parte del giudice di cognizione (e dunque quando l’aggravante non concorra con circostanze attenuanti ovvero sia stata dichiarata prevalente o, almeno, equivalente, a siffatte circostanze).