ISSN 2039-1676


30 maggio 2013 |

Omicidio preterintenzionale e principio di colpevolezza

Nota a C. Ass. App. Milano, ud. 19 dicembre 2012 (dep. 5 marzo 2013), Pres. Silocchi, Est. Bellerio, Imp. Desogus

 

1. Con la sentenza in commento, la Corte di Assise d'Appello di Milano ha integralmente confermato la condanna a quattro anni e sei mesi di reclusione per il delitto di omicidio preterintenzionale (art. 584 c.p.), inflitta in primo grado, ad esito del giudizio abbreviato, nei confronti di due soggetti - il Ferruggio e il Desogus - che avevano cagionato lesioni gravissime ad un proprio vicino di casa - il Battaglia -, il quale tuttavia, già affetto da gravi patologie pregresse, una volta ricoverato in ospedale e sottoposto ad intervento chirurgico, si rifiutava di seguire le terapie consigliate, fumava, assumeva cocaina, e, infine, decedeva, a più di due settimane dal pestaggio, per un'acuta insufficienza respiratoria.

 

2. In sintesi, di seguito i fatti di causa, per come ricostruiti dai giudici d'appello.

In data 24 febbraio 2010, rientrando a casa, la vittima trovava infranto il parabrezza della sua auto e individuava il responsabile del danneggiamento nel Ferruggio, un suo vicino di casa, con il quale i rapporti erano già tesi per passati dissidi. Così, la sera stessa, la convivente della vittima, avendo scoperto che il Ferruggio era ospite nell'appartamento del proprio dirimpettaio - il Desogus - si presentava presso questi per chiedere spiegazioni; il Ferruggio, tuttavia, pur ammettendo il fatto, minacciava la donna con un mazza da baseball. Il Battaglia, allora, accorso per difendere la propria compagna, veniva violentemente aggredito con due mazze dal Ferruggio e dal suo ospite, che gli cagionavano numerose lesioni, consistenti, tra l'altro, in un trauma cranico e nella frattura del gomito sinistro.

Proprio quest'ultima frattura imponeva un intervento chirurgico urgente di osteosintesi, che veniva eseguito il giorno seguente. Nel corso dei controlli di routine si accertava, altresì, che le condizioni salute generale della vittima erano assai precarie: il Battaglia era infatti un tossicodipendente sieropositivo sotto terapia metadonica e soffriva di epatopatia cronica e ipertensione polmonare. Dopo l'intervento insorgevano complicazioni respiratorie, dovute anche all'anestesia generale a cui il Battaglia era stato sottoposto, e pertanto il paziente veniva trasferito in terapia intensiva dove, tuttavia, «veniva trovato in bagno con le flebo staccate, i deflussori pieni di sangue e l'ago sul braccio otturato; [...] era sorpreso a fumare» o a «maneggiare succo di limone, nonostante nausea ed enemesi e la grave insufficienza respiratoria» [...] «rifiutava le cure e l'ossigenoterapia» e «si allontanava non autorizzato».

In data 9 marzo 2010 il Battaglia decedeva per una grave insufficienza respiratoria. Nella tasca della sua felpa veniva rinvenuta della cocaina e, dagli esami tossicologici, emergeva come il soggetto ne avesse assunta anche «in tempi relativamente prossimi al decesso».

 

3. In data 24 ottobre 2011, ad esito del giudizio abbreviato, il G.u.p. presso il Tribunale di Milano condannava il Ferruggio e il Desogus per il delitto di omicidio di concorso in omicidio preterintenzionale (art. 584 c.p.) alla pena di quattro anni e mezzo di reclusione.

Il giudice di prime cure disattendeva, in primo luogo, la tesi difensiva dell'operatività, nel caso di specie, della scriminante della legittima difesa, sottolineando, anzi, come, anche ad accogliere la ricostruzione dei fatti operata dagli imputati, secondo la quale il Battaglia si sarebbe «precipitato in casa del Desogus impugnando un piccone da muratore [...] la condotta degli imputati abbia superato per intensità e durata i limiti dell'invocata causa di giustificazione», nonché la tesi dell'applicabilità della disciplina dell'eccesso colposo nella medesima scriminante, «per l'evidente coscienza e volontà dimostrata nel superare la propria difesa e nel cagionare lesioni all'avversario».

Infine, il G.u.p. rilevava come, nonostante che «il comportamento volontario del paziente» - segnatamente, l'assunzione di cocaina - si fosse «inserito nella seriazione causale del decesso, dopo il peggioramento» dovuto all'intervento chirurgico in anestesia totale «e prima del decesso», non fosse possibile individuare «un intervento predominante delle sequele del reato in oggetto, sia per la naturale evoluzione che hanno patologie consimili (grave fibrosi interstiziale e ipertensione polmonare in soggetto affetto da epatopatia cronica HIV correlata, nonché infezione da HIV), sia per l'impossibilità di delimitare con certezza l'entità del peggioramento esclusivamente riconducibile alle lesioni patite, sia per l'intervento dell'assunzione di cocaina», concludendo dunque nel senso che «le cause sopravvenute [...] non avevano interrotto il nesso di causa tra i colpi sferrati al Battaglia e il suo decesso». Infatti, «l'esame chimico tossicologico sul materiale biologico consentiva di accertare che le concentrazioni di cocaina erano inferiori ai valori che identificano gli stati di intossicazione acuta letale».

Pertanto, concludeva il G.u.p., «dette lesioni, volontariamente causate, costituivano [...] concause necessarie della morte» e il fatto ascritto ai due imputati andava qualificato come omicidio preterintenzionale.

 

4. Respingendo il gravame delle difese degli imputati, la Corte di Assise d'Appello di Milano conferma integralmente la sentenza impugnata, facendo proprie le osservazioni del G.u.p.

In particolare, per quanto qui rileva, i giudici di seconde cure sottolineano la - a dir la verità, pacifica - antigiuridicità della condotta degli imputati, nonché la - altrettanto pacifica - sussistenza del nesso di causa tra le lesioni cagionate dal Ferruggio e dal Desogus e la morte del Battaglia, ribadendo l'incontestato principio secondo cui «perché sussista rapporto di causa basta [...] l'agente abbia posto in essere anche uno soltanto degli antecedenti necessari al verificarsi dell'evento, mentre lo stesso può essere escluso solo qualora le cause sopravvenute siano stato autonomamente sufficienti a determinarlo».

Insomma: «il comportamento del Battaglia in ospedale, ancorché sconsiderato, non può [...] essere ritenuto tale da costituire la esclusiva causa della sua morte, nemmeno se valutato insieme alle sue patologie e alla sua condizione di tossicodipendenza» e, «d'altro canto erano state proprio le lesioni provocategli dagli imputati ad imporre sia il ricovero ospedaliero, che il ricorso all'osteosintesi, da eseguirsi con urgenza e in anestesia totale».

A fronte di questa ricostruzione fattuale, ad avviso della Corte di Assise, la qualificazione giuridica del fatto come omicidio preterintenzionale non può essere opinata: «l'avere volontariamente commesso» il delitto di lesioni «assorbe la prevedibilità dell'evento più grave nell'intenzione di risultato».

 

5. I giudici d'appello hanno preso le mosse, nel qualificare il fatto, dall'orientamento dominante presso la più recente giurisprudenza di legittimità, secondo cui l'elemento soggettivo del delitto preterintenzionale è costituito «non già da dolo e responsabilità oggettiva, né da dolo misto a colpa», bensì «unicamente dalla volontà di infliggere percosse o lesioni»[1] poiché «la disposizione dell'art. 43 assorbe la prevedibilità di un evento più grave nell'intenzione di risultato, per il quale i parametri di negligenza, imprudenza o imperizia, men che d'inosservanza di norme sono assolutamente irrilevanti»[2].

In particolare, secondo tale tesi «la prevedibilità» non assurgerebbe «a carattere distinto dell'omicidio preterintenzionale» perché «il rischio di evento omogeneo più grave è insito nel danno o pericolo che si arreca alla persona fisica. E nel sistema l'interesse primario, che accomuna i beni essenziali della persona, è complessivamente tutelato in ragione dell'idea (categoria) di inevitabilità dell'evento più grave, conseguente al processo naturale attivato con la condotta umana»[3]. «La prevedibilità dell'evento più grave», insomma, «è in caso di delitto preterintenzionale categoria irrilevante per la struttura dell'elemento psicologico, assorbita nel dolo di percosse o lesioni»[4].

 

6. Appare del tutto evidente, tuttavia, che l'impostazione fatta propria dalla Suprema Corte e adottata dal giudice di seconde cure non rappresenta nient'altro che l'ennesima riproposizione mascherata della tesi che reputa la preterintenzione una combinazione di dolo rispetto all'evento di percosse o lesioni e di responsabilità oggettiva rispetto all'evento morte.

Affermare, infatti, che l'elemento soggettivo del delitto del delitto di cui all'art. 584 c.p. consiste «unicamente» nella volontà di infliggere percosse o lesioni e che, per l'imputazione dell'evento più grave, «i parametri di negligenza, imprudenza o imperizia, men che d'inosservanza di norme sono assolutamente irrilevanti»[5] altro non sembra poter significare che l'evento morte debba essere imputato sulla sola base del nesso di causa tra le lesioni inferte e il decesso cagionato e, cioè, a titolo di mera responsabilità oggettiva.

Rispetto al problema dell'imputazione dell'evento non voluto, insomma, tertium non datur: o l'evento morte deve essere imputato per colpa, concepita ed accertata nei suoi requisiti ordinari - nel senso di prevedibilità in concreto dell'evento più grave al momento della posizione in essere della condotta, «seguendo il medesimo procedimento (valutazione di prevedibilità ed evitabilità dal punto di vista di un agente modello; accertamento del duplice nesso colpa-evento) della colpa presente nei "normali" reati colposi d'evento»[6] -; oppure l'evento rischierà inevitabilmente di essere ascritto all'agente sine culpa; a titolo, cioè, - lo si ribadisce - di mera responsabilità oggettiva.

Sennonché, tale ultima opzione ermeneutica non sembra davvero più percorribile, alla luce - a tacer d'altro - delle espresse indicazioni derivanti dalla giurisprudenza costituzionale, che ha esplicitamente precisato che «il fatto imputato, perché sia legittimamente punibile, deve necessariamente includere almeno la colpa dell'agente in relazione agli elementi più significativi della fattispecie tipica»[7] che il principio qui in re illicita versatur respondit etiam pro casu «contrasta con l'art. 27, primo comma, Cost.»[8]. Ora, come si è notato in dottrina, «l'evento morte non voluto non può non essere ricompreso tra gli "elementi più significativi" della fattispecie di cui all'art. 584, essendo esso significativo sia rispetto all'offesa (in quanto offensivo, in via autonoma, del bene primario della vita), sia rispetto alla pena (in quanto determina l'inflizione di una pena ulteriore rispetto a quella prevista per il reato-base doloso di percosse o lesioni)»[9]; e non v'è dubbio che proprio il principio qui in re illicita versatur respondit etiam pro casu - privo di cittadinanza nell'ordinamento penale italiano secondo la Corte costituzionale - stia alla base dell'interpretazione tradizionale dell'art. 584[10], cui si riconduce in definitiva anche il filone di sentenze della S.C. cui si è appena fatto cenno.

 

7. Come superare, allora, l'incompatibilità ora segnalata tra l'art. 584 c.p. (nella sua corrente lettura giurisprudenziale) e principio costituzionale di colpevolezza?

Com'è noto, secondo il Giudice delle Leggi, «il principio di colpevolezza - quale delineato dalle sentenze n. 364 e n. 1085 del 1988 [...] - si pone non soltanto quale vincolo per il legislatore, nella conformazione degli istituti penalistici e delle singole norme incriminatici; ma anche come canone ermeneutico per il giudice, nella lettura e nell'applicazione delle disposizioni vigenti»[11].

E quella dell'interpretazione adeguatrice secundum constitutionem è stata, del resto, la via prescelta dalla Corte di Cassazione con riferimento alla fattispecie di cui all'art. 586 c.p., che con l'art. 584 c.p. condivide il fondamentale problema dell'imputazione soggettiva dell'evento più grave causalmente connesso alla condotta illecita dell'agente[12]. Con la notissima sentenza Ronci, infatti, la Suprema Corte, riunita nella sua composizione più autorevole, ha chiarito che «l'unica interpretazione conforme al principio costituzionale di colpevolezza è quella che richiede, anche nella fattispecie di cui all'art. 586 c.p., una responsabilità per colpa in concreto, ossia ancorata ad una violazione di regole cautelari di condotta ed a un coefficiente di prevedibilità ed evitabilità, in concreto e non in astratto, del rischio connesso alla carica di pericolosità per i beni della vita e dell'incolumità personale, intrinseca alla consumazione del reato doloso di base»[13].

All'estensione del criterio d'imputazione soggettiva enunciato nella sentenza Ronci  all'imputazione dell'evento nel caso dell'art. 584 c.p. la Corte di Cassazione oppone, tuttavia, le «notevoli differenze» asseritamente intercorrenti tra le due ipotesi, «perché nella ipotesi dell'omicidio preterintenzionale l'agente intende conseguire un evento - lesioni o percosse - del tutto omogeneo a quello più grave in concreto verificatosi»[14] e, dunque, solo in quest'ultimo caso «il rischio di evento omogeneo più grave è insito nel danno o pericolo che si arreca alla persona fisica»[15], «essendo assolutamente probabile [...] che da una azione violenta contro una persona possa derivare la morte della stessa»[16].

 

8. In realtà, proprio il caso di specie dimostra come quella sorta di "presunzione di prevedibilità" dell'evento-morte che, secondo la Suprema Corte, il legislatore avrebbe cristallizzato nell'art. 584 c.p., finisce per far rispondere l'agente anche di eventi che, seppur causalmente connessi alle lesioni o percosse dolosamente inferte, non potrebbero essere a lui ascritti secondo un ordinario giudizio di responsabilità per colpa in concreto.

Un fattore di confondimento nel caso di specie è rappresentato dall'eterogeneità delle lesioni cagionate alla vittima dalla condotta degli imputati: lesioni al capo e frattura del gomito. Rispetto alle prime, va tuttavia rilevato che la loro conseguenza immediata (il trauma cranico) non ha giocato alcun ruolo nel determinismo causale che ha condotto al concreto evento letale, che si è invece verificato in seguito alla situazione di acuta insufficienza respiratoria eziologicamente riconducibile - pur nel concorso di altri fattori, su cui si tornerà a breve - all'operazione chirurgica al gomito fratturato. La condotta causalmente rilevante rispetto all'evento morte (e, dunque, la condotta 'tipica' ai sensi dell'art. 584 c.p.) è unicamente la lesione al gomito, non quella al capo.

Il quesito corretto, dal punto di vista di una possibile imputazione per colpa dell'evento concretamente verificatosi, non è dunque se fosse prevedibile che dei colpi di mazza sul capo di una persona possano determinarne la morte; bensì se fosse prevedibile, secondo le circostanze conoscibili da un osservatore medio (integrate dalle eventuali conoscenze supplementari dell'agente concreto) che la condotta causale rispetto alla morte - e cioè le lesioni al gomito provocate alla vittima - potessero innescare un decorso causale idoneo a sfociare nella morte della vittima stessa.

Così impostato il quesito, la risposta - ad avviso di chi scrive - avrebbe dovuto suonare senz'altro negativa. Una frattura al gomito non crea normalmente alcun rischio riconoscibile di morte a carico della vittima; tant'è vero che, nel caso concreto, la morte si verificò per effetto di un decorso causale del tutto anomalo e, pertanto, non prevedibile, nel quale giocarono un ruolo determinante patologie  pregresse della vittima (verosimilmente ignote agli imputati) e suoi comportamenti sconsiderati successivi (anch'essi non ragionevolmente prevedibili da parte degli imputati).

Ergo, la condotta concretamente causale rispetto all'evento letale (la frattura del gomito della vittima) integra, sì, un'ipotesi di lesioni personali dolose; ma non può essere qualificata, al tempo stesso, come condotta colposa rispetto all'evento morte concretamente verificatosi, che era - al momento della condotta - imprevedibile per gli imputati, e per qualsiasi osservatore medio che fosse stato ipoteticamente presente al momento del fatto. La responsabilità per omicidio pretenzionale avrebbe, pertanto, dovuto essere esclusa, qualora si fosse adottata un'interpretazione dell'art. 584 davvero conforme al principio costituzionale di colpevolezza.

 


[1] Così, C. Cass., Sez. V, 14 aprile 2006, n. 13673, Haile, in C.E.D. Cassazione. In questo senso, sostanzialmente, la maggioritaria giurisprudenza di legittimità, v., da ultimo: C. Cass., Sez. V, 8 marzo 2013, n. 791, Palazzolo, in C.E.D. Cassazione; C. Cass., Sez. V, 19 ottobre 2012, n. 41017, S., in C.E.D. Cassazione; C. Cass., Sez. V, 15 ottobre 2012, n. 40389, Perini, in C.E.D. Cassazione; C. Cass., Sez. V, 5 ottobre 2012, n. 39389, Martena, in C.E.D. Cassazione; C. Cass., Sez. V, 17 settembre 2012, n. 35582, Tarantino, in C.E.D. Cassazione; C. Cass., Sez. V, 26 aprile 2010, n. 16285, Baldissin, in C.E.D. Cassazione; C. Cass., 1 dicembre 2008, n. 44751, Sorrentino, in C.E.D. Cassazione.

[2] Ibidem.

[3] Ibidem.

[4] Ibidem.

[5] Ibidem.

[6] Basile, sub art. 584 c.p., in Dolcini-Marinucci (a cura di), Codice penale commentato, 3a ed., Milano, 2011, 5368. Sul punto, com'è noto, preponderante la dottrina che richiede, per la condanna a titolo di omicidio preterintenzionale, l'accertamento della prevedibilità ed evitabilità in concreto dell'evento mortale. Così, ad esempio, Pulitanò, Diritto penale, 4a ed., Torino, 2011, 363; Marinucci-Dolcini, Manuale di diritto penale. Parte generale, 4a ed., Milano, 2012, 338 s.; Mantovani, Diritto penale, 6a ed., Padova, 2009, 354 s.

[7] C cost. 364/1988, in Corte Costituzionale.it. Afferma che «è indispensabile che tutti e ciascuno degli elementi che concorrono a contrassegnare il disvalore della fattispecie siano soggettivamente collegati all'agente (siano, cioè, investiti dal dolo o dalla colpa) ed è altresì indispensabile che tutti e ciascuno dei predetti elementi siano allo stesso agente rimproverabili e cioè anche soggettivamente disapprovati» anche C. Cost. n. 1085/1988.

[8] C. Cost. n. 1085/1988 in Corte Costituzionale.it.

[9] F. Basile, op. ult. cit., 5365.

[10] Ibidem.

[11] Ibidem.

[12] C. Cass., Sez. un., 29 maggio 2009, n. 22676, Ronci, in C.E.D. Cassazione.

[13] Ibidem.

[14] C. Cass., Sez. V, 8 marzo 2013, n. 791, Palazzolo, cit.

[15] C. Cass., Sez. V, 14 aprile 2006, n. 13673, Haile, cit.

[16] C. Cass., Sez. V, 8 marzo 2013, n. 791, Palazzolo, cit.