ISSN 2039-1676


17 settembre 2013 |

La Corte europea torna sul principio di legalità  della pena e chiarisce la portata della c.d. formula di Radbruch

C. eur. dir. uomo, Grande Camera, sent. 18 luglio 2013, Maktouf e Damjanovic c. Bosnia Erzegovina

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1. Con la pronuncia Matkouf e Damjanovic c. Bosnia Erzegovina, la Grande Camera della Corte europea dei diritti dell'uomo rileva una nuova violazione del principio di legalità sancito dall'art. 7 della Convenzione. La sentenza è significativa, anzitutto, per le precisazioni che offre in tema di legalità della pena (nulla poena sine lege), con particolare riferimento al problema della determinazione della disciplina più favorevole nei casi di successione di leggi. Ma, soprattutto, la pronuncia si caratterizza per l'importante presa di posizione della Grande Camera in merito all'estensione applicativa dell'art. 7, § 2, Cedu il quale, recependo la c.d. formula di Radbruch, sancisce che il principio di legalità «non ostacolerà il giudizio e la condanna di una persona colpevole di una azione o di una omissione che, al momento in cui è stata commessa, costituiva un crimine secondo i principi generali di diritto riconosciuti dalle nazioni civili».

 

2. Il ricorso trae origine dalle vicende di due soggetti condannati per fatti commessi durante la guerra seguita alla disgregazione della Jugoslavia. In particolare, nell'aprile 2006, il primo ricorrente veniva condannato definitivamente dalla Corte di Stato bosniaca (giurisdizione speciale competente in materia di crimini di guerra) a cinque anni di reclusione per il reato di "presa di ostaggi", avendo concorso nel sequestro di due civili da "scambiare" con altri prigionieri di guerra. Il secondo ricorrente, invece, era condannato nel novembre del 2007 ad undici anni di reclusione per il reato di tortura in relazione alle violenze commesse ai danni di prigionieri bosniaci.

L'entità delle pene era determinata sulla base del nuovo codice penale bosniaco del 2003 che, pur tipizzando i suddetti crimini in maniera identica al codice penale jugoslavo del 1976, ha introdotto per gli stessi un diverso trattamento sanzionatorio. In particolare, per entrambi i reati, la cornice di pena è ora compresa tra dieci e venti anni di reclusione (tra venti e quarantacinque anni nei casi più gravi), diminuibile sino a cinque anni nelle ipotesi di agevolazione (ossia di «aiuto intenzionale a colui che commette l'atto criminale»). I precedenti limiti edittali, invece, si attestavano su di un minimo di cinque anni di reclusione ed un massimo di quindici, con pena riducibile sino ad un anno nelle ipotesi di agevolazione ma, per altro verso, con la previsione della pena di morte nei casi più gravi.

Nel caso del primo ricorrente, quindi, i cinque anni di reclusione erano stabiliti proprio sulla base della specifica attenuante prevista per le condotte di agevolazione, mentre gli undici anni di reclusione cui era condannato il secondo ricorrente erano determinati dalla Corte di Stato in modo da attestarsi in misura leggermente superiore al minimo edittale.

 

3. Nel ricorso presentato alla Corte di Strasburgo, entrambi i ricorrenti lamentano una violazione del principio di legalità della pena sancito dall'art. 7 Cedu che sarebbe derivata dall'applicazione di sanzioni penali introdotte successivamente alla commissione dei reati presupposto e più rigorose rispetto a quelle previgenti.

Il governo bosniaco replica osservando che la legge posteriore è stata applicata poiché sarebbe, al contrario, più favorevole. Inoltre, i fatti sanzionati rileverebbe comunque ai sensi della clausola di eccezione stabilita dal § 2 dell'art. 7 Cedu, considerando anche che diverse fonti sovranazionali - così come le "esigenze di giustizia" di cui avrebbe tenuto conto la stessa Corte di Strasburgo nei casi S.W. c. Regno Unito e Streletz, Kessler e Krenz c. Germania - impongono una punizione adeguata dei crimini di guerra commessi dai ricorrenti.

 

4. Superate alcune questioni preliminari di ammissibilità, la Corte rileva anzitutto che le condotte punite sono descritte in maniera identica nel codice del 2003 ed in quello del 1976 e, pertanto, come ammesso dagli stessi ricorrenti, non sorgono problemi di "riconoscibilità" della natura criminosa delle condotte all'epoca della loro commissione. Più complessa, invece, si rivela la questione inerente la misura della pena.

In effetti, come osserva la Corte nella ricostruzione del diritto domestico, la vicenda si iscrive in un contesto giurisprudenziale nel quale entrambi i codici continuano a trovare applicazione. In particolare, se si può individuare una tendenza della Corte di Stato a riferirsi alla legge previgente nei casi meno gravi ed a quella attualmente in vigore nelle ipotesi di maggior disvalore (non essendo più prevista la pena di morte), vi sono situazioni intermedie nelle quali regna tuttora incertezza circa l'individuazione della disciplina in concreto più favorevole (situazione che è stata denunciata nei rapporti dell'Ocse e del Comitato dei diritti dell'uomo delle Nazioni Unite e in parte riconosciuta dallo stesso governo bosniaco).

Quanto al caso in esame, la Corte non ritiene evidentemente pertinente l'argomento del governo resistente della natura più favorevole della lex posterior nella misura in cui non è più prevista la pena di morte nelle ipotesi più gravi, non essendo state giudicate come tali le condotte commesse dai due ricorrenti. Viene quindi riconosciuto che, sebbene i ricorrenti siano stati condannati a pene astrattamente determinabili anche sulla base delle cornici edittali previste dal codice penale del 1976, tale legge, alla luce dei parametri di commisurazione cui si è riferita la Corte di Stato nelle sentenze di condanna, si sarebbe probabilmente rivelata in concreto più favorevole. In altri termini, pur non essendovi certezza su quale sarebbe stato l'esito dei procedimenti sulla base dell'applicazione della disciplina previgente, vi è la "possibilità reale" che la nuova si sia rilevata più sfavorevole per gli imputati. Infatti, sulla base del codice del 1976, l'attenuante speciale prevista per i casi di agevolazione avrebbe potuto consentire l'applicazione al ricorrente Matkouf di una pena ridotta sino ad un anno di reclusione, mentre, per ciò che concerne il ricorrente Damjanovic, la pena sarebbe stata determinata in misura lievemente superiore a cinque anni (in quest'ultimo caso, peraltro, sono proprio alcuni precedenti sentenze della Corte di Stato su casi analoghi a riconoscere la portata più favorevole delle vecchie disposizioni).

 

5. Dopo aver raggiunto tale conclusione, la Corte si confronta quindi con l'eccezione formulata "in subordine" dal governo bosniaco - sostenuta anche dal Bureau du Haut-Représentant in Bosnia ed ampiamente sviluppata dalla Corte costituzionale nazionale pronunciatasi sul ricorso sollevato dal ricorrente Matkouf - secondo la quale l'applicazione della nuova disciplina (qualora ritenuta più sfavorevole) sarebbe comunque giustificata dall'art. 7, § 2, Cedu.

In merito, la Corte afferma in modo perentorio che tale disposizione, sulla base di un'interpretazione storica basata sui lavori preparatori della Convenzione, deve essere riferita esclusivamente ai fatti commessi durante la Seconda Guerra mondiale. Viene così ribadito con maggiore fermezza un orientamento già emerso di recente (cfr. Grande Camera, Kononov c. Lettonia, § 186) in una giurisprudenza nella quale, tuttavia, sulla base delle sollecitazioni provenienti da diversi settori dottrinali, era stata più volte accolta anche la tesi contraria (ad es., nelle decisioni Kolk e Kislyiy e Penart c. Estonia e, indirettamente, nella sentenza Linkov c. Repubblica Ceca; ma, soprattutto, nella decisione Naletilic c. Croazia, § 2, specificamente riferita alla guerra nella ex-Jugoslavia e puntualmente richiamata dal governo bosniaco).

Ciò precisato, la Corte esclude altresì la rilevanza del riferimento alle fonti internazionali che impongono di punire in maniera adeguata i crimini di guerra, posto che lo stesso codice del 1976 avrebbe comunque consentito l'applicazione di sanzioni della medesima entità. Infine, viene rigettato ogni possibile paragone con i casi S.W. c. Regno Unito e Streletz, Kessler e Krenz c. Germania, dato che nel primo vi era stata un'evoluzione giurisprudenziale che aveva in qualche modo reso "prevedibile" l'overruling sfavorevole mentre, nel secondo, si presentava una diversa situazione nella quale leggi idonee a reprimere adeguatamente i crimini di guerra erano previste nell'ordinamento nazionale ma sistematicamente disapplicate.

 

6. Per tali ragioni, la Grande Camera riconosce all'unanimità una violazione dell'art. 7 Cedu, mentre dichiara manifestamente infondata la doglianza del ricorrente Matkouf relativa al difetto di indipendenza della Corte di Stato in ragione delle modalità di nomina dei componenti stranieri.

In calce alla sentenza sono riportate tre concurring opinion tra le quali si segnala soprattutto quella dei giudici Pinto de Albuquerque e Vucinic, in cui si sostiene la riferibilità del § 2 dell'art. 7 Cedu anche a vicende successive alla Seconda Guerra mondiale, purché i "principi generali" richiamati dalla disposizione siano sufficientemente "accessibili" e "prevedibili" sulla base dell'evoluzione giurisprudenziale e legislativa degli Stati membri (con un ragionamento che, in effetti, tende a recepire quell'impostazione dottrinale che inquadra il § 2 dell'art. 7 Cedu non come deroga, bensì come sorta di specificazione rispetto a quanto stabilito dal § 1).

 

7. A commento della sentenza, si può osservare come certamente sia apprezzabile l'attenzione mostrata dalla Corte al profilo della legalità della pena, in sostanziale continuità con una tendenza emersa soprattutto negli ultimi anni (alcuni riferimenti giurisprudenziali erano già stati segnalati in F. Mazzacuva, La Corte europea sul principio di legalità della pena, in questa Rivista). Nello specifico, risulta alquanto significativo che, per la prima volta, la Corte decida di confrontarsi con una problematica di diritto intertemporale nota anche alla manualistica italiana (e che, talvolta, può rivelare profili di notevole complessità) accogliendo la soluzione maggiormente garantistica.

Quanto all'affermazione relativa alla portata dell'art. 7, § 2 Cedu, può essere anche in questo caso salutata con favore la decisione della Corte di chiarire, nella sua composizione più autorevole, un profilo sul quale si registrava una giurisprudenza poco lineare. D'altra parte, tale problematica era già stata in qualche modo "aggirata" in epoca recente facendo riferimento, a proposito dei crimini internazionali commessi successivamente alla Seconda Guerra mondiale, al rinvio al "diritto internazionale" operato dal § 1 dell'art. 7 Cedu (da ultimo, cfr. la già citata sentenza della Grande Camera, Kononov c. Lettonia), così evitando di sbilanciarsi sull'applicabilità del § 2 e sulla sua natura derogatoria o esemplificativa rispetto al paragrafo precedente. In merito, la sentenza non fornisce nuove indicazioni sul problema della reale "prevedibilità" delle condanne per crimini previsti nel diritto internazionale e, tuttavia, non sanzionati negli ordinamenti nazionali (anche per sistematiche disapplicazioni delle disposizioni vigenti, come nel citato caso Streletz, Kessler e Krenz c. Germania) dato che il caso in esame, come chiarito puntualmente dalla Corte, non presentava evidentemente una situazione del genere.

D'altra parte, sul terreno limitrofo della tensione tra principio di legalità della pena ed obblighi sovranazionali di punizione adeguata, la Corte sembra rifugiarsi in modo poco coerente nell'argomento dell'irrilevanza dell'obiezione del governo. L'affermazione secondo la quale il codice del 1976 avrebbe consentito di applicare pene di entità analoga a quelle determinate sulla base del testo del 2003, infatti, pare stridere con il precedente riconoscimento della "possibilità reale" che la lex posterior si sia rivelata sensibilmente più sfavorevole. Tale incertezza, peraltro, si riflette sulla decisione finale di accordare ai ricorrenti esclusivamente una (modesta) somma pecuniaria a titolo di equa riparazione, piuttosto che chiedere allo Stato di rideterminare la pena ai sensi dell'art. 46 Cedu. Di fatto, la Corte consente così l'esecuzione di pene detentive (nel caso del ricorrente Damjanovic, ancora in corso) la cui applicazione è stata ritenuta contraria all'art. 7 Cedu, sulla base della lapidaria constatazione che «non è certo che i ricorrenti sarebbero stati condannati a pene inferiore se fosse stato applicato il codice del 1976».