ISSN 2039-1676


14 novembre 2013 |

Sulla riconoscibilità  nell'ordinamento italiano della sentenza straniera priva di motivazione

Nota a Cass. pen., Sez. II, 19.12.2012 (dep. 27.3.2013), n. 14440, Pres. Petti, Rel. Ariolli, imp. Camerin

 

1. Con la sentenza che può leggersi in allegato, la Corte di Cassazione è stata chiamata a pronunciarsi sulla riconoscibilità nell'ordinamento interno - in forza del combinato disposto degli artt. 12 c.p. e 730 ss. c.p.p. - di una sentenza straniera priva di motivazione.

Il ricorso era stato presentato dal Procuratore Generale presso la Corte d'Appello di Trieste avverso la sentenza con cui si respingeva la domanda di riconoscimento di un provvedimento di condanna emesso dalla Corte di Assise correzionale di Lugano. Il rigetto della richiesta era motivato dal fatto che la sentenza straniera era priva di motivazione; circostanza che, secondo il giudice di merito, confliggerebbe con i principi fondamentali dell'ordinamento giuridico italiano, integrando pertanto la condizione ostativa al riconoscimento di cui all'art. 733 comma 1 lett. b) c.p.p.

Nel ricorso, il Procuratore Generale evidenziava, al contrario, che l'assenza di motivazione non era determinata da una lacuna dell'ordinamento processuale straniero, bensì da una libera ed espressa rinunzia formulata dalle parti. Il processo penale elvetico, infatti, riconosce come diritto fondamentale dell'imputato la possibilità di ottenere l'esposizione scritta delle ragioni della pronunzia, salva la facoltà di rinunciarvi. Ed è proprio la disponibilità della motivazione in capo alle parti a costituire l'elemento centrale delle argomentazioni del ricorrente, preoccupato di evitare che una scelta dell'imputato possa precludere tout court l'esercizio di una tipica manifestazione della sovranità nazionale, qual è la potestà di riconoscere nell'ordinamento interno sentenze emesse da autorità giudiziarie straniere. Peraltro, sottolinea ancora il Procuratore Generale, nel testo della sentenza erano enunciati in forma dettagliata i capi d'accusa e le tesi svolte dal pubblico ministero e dal difensore e, pertanto, doveva ritenersi sufficientemente documentata la piena esplicazione del contraddittorio processuale.

La problematica si inserisce all'interno di un dibattito che, sotto la vigenza del vecchio codice, aveva animato dottrina e giurisprudenza. Secondo un orientamento, infatti, la mancanza di motivazione del provvedimento straniero era irrilevante ai fini del riconoscimento in Italia[1]. Per contro, altra parte della giurisprudenza[2] ed esponenti della dottrina[3] rimarcavano come, proprio alla luce del disposto dell'allora comma 1 (oggi comma 6) dell'art. 111 Cost., l'obbligo di motivazione di tutti i provvedimenti giudiziari costituisse principio fondamentale, il cui mancato rispetto si sarebbe posto come causa ostativa del riconoscimento.  

 

2. La Suprema Corte censura il percorso argomentativo della Corte d'Appello, disponendo l'annullamento con rinvio della sentenza impugnata, per un nuovo esame nel merito. Il ragionamento della Cassazione muove dal presupposto che in tema di rapporti giurisdizionali tra ordinamenti, a fronte di diritti fondamentali comuni e condivisi, difficilmente potrà riscontrarsi identità di meccanismi procedurali finalizzati a tutelarli. Pertanto, in una logica di armonizzazione, fiducia e mutuo riconoscimento, il filtro valutativo deve essere solo quello della idoneità del procedimento penale straniero a garantire il rispetto dei diritti fondamentali in tema di giusto processo[4]. Da tale premessa, il sindacato del giudice penale italiano sulla verifica dei presupposti di cui all'art. 733 c.p.p. subisce un significativo ridimensionamento rispetto al dettato codicistico. Dal punto di vista astratto, la Suprema Corte continua ad evocare un duplice parametro valutativo: di conformità ai principi costituzionali (in particolare, per quanto concerne l'obbligo motivazionale dei provvedimenti giudiziari, all'art. 111 comma 6 Cost.); di conformità ai principi convenzionali (in particolare, all'art. 6 della Cedu). Nella sua applicazione pratica, però, la Corte di Cassazione "si accontenta" di una verifica di compatibilità del processo penale straniero con i soli principi fondamentali di natura procedimentale.

 

3. La lettura interpretativa espressa nella sentenza in commento non pare convincente e richiede un preventivo esame dei principi fondamentali interni e sovranazionali.

Nella prima prospettiva, la fonte normativa primaria dell'obbligo di motivazione è l'art. 111 Cost., che, al comma 6, prevede espressamente che «tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati». Nel processo penale, la trasposizione del principio generale viene realizzata dal legislatore per il tramite dell'art. 125 c.p.p., che sancisce l'obbligo di motivazione delle sentenze e delle ordinanze, a pena di nullità[5]. A contrario, i requisiti di validità della motivazione sono ricavabili dall'art. 606 comma 1 lett. e) c.p.p., che, tra i motivi di ricorso per cassazione, ne individua uno specifico finalizzato alla censura della mancanza, contraddittorietà ovvero manifesta illogicità. La giurisprudenza, sul punto, a più riprese, ha ribadito che perché sia soddisfatto l'obbligo di cui all'art. 125 comma 3 c.p.p., la motivazione non deve soltanto essere materialmente esistente, ma deve altresì rispondere a requisiti minimi di completezza e logicità del discorso argomentativo su cui è fondata la decisione[6]. L'obbligo di motivazione è oggetto poi di una sostanziale semplificazione in rapporto ad alcuni istituti processuali: l'applicazione pena su richiesta delle parti[7] o il decreto penale di condanna[8].

D'altro canto, è senz'altro condivisibile l'assunto della Suprema Corte secondo cui l'obbligo di motivazione assume aspetti contenutistici del tutto peculiari, se calato nelle tradizioni giuridiche e processuali dei diversi ordinamenti. L'ampiezza dell'obbligo di motivazione può variare a seconda della natura della decisione e deve essere esaminata alla luce delle circostanze particolari di ogni fattispecie concreta. Tanto che l'assenza di motivazione non necessariamente determina una violazione dell'art. 6 Cedu: la giurisprudenza di Strasburgo ammette la compatibilità convenzionale di ordinamenti processuali nei quali il verdetto emesso dalla giuria risulta sprovvisto di motivazione, purché l'imputato abbia avuto modo di comprendere le ragioni della pronuncia[9].

Evidente è pertanto la diversa prospettiva interna e sovranazionale. La fonte interna esige non soltanto la materiale esistenza della motivazione ma anche la sua coerenza logico-giuridica, perché possa verificarsi la compatibilità costituzionale tanto della procedura quanto della singola decisione che ne sia il risultato. La disciplina convenzionale, al contrario, si accontenta di verificare che alle parti sia stato garantito il diritto al contraddittorio in sede processuale, che il giudice abbia fondato il proprio ragionamento su argomenti oggettivi e che pubblico ed imputato siano stati posti in condizione di comprendere il verdetto reso.

 

4. Non ultimo, nel prospettare la soluzione del caso concreto sulla base di un giudizio di equivalenza tra garanzie, la Suprema Corte trascura di analizzare la distinzione tra totale contrarietà ai principi dell'ordinamento giuridico dello Stato e diversità di disciplina. Se, infatti, partendo dal comune proposito di dare tutela ad un diritto fondamentale condiviso, la discrasia tra sistemi processuali lascia spazio ad una valutazione comparativa e "di risultato", non altrettanto può affermarsi nel caso in cui non vi sia identità ab origine nel riconoscimento del principio fondamentale. Pare proprio il caso di specie, nel quale sembra evidente la natura radicale del contrasto: la disciplina interna individua come inderogabile l'obbligo di motivazione; la procedura straniera, per contro, configura la possibilità di una motivazione disponibile e rinunciabile ad opera delle parti. La partita, dunque, si gioca sulla valutazione di contrarietà, proprio perché il contrasto deve riguardare il contenuto della sentenza, ossia le statuizioni emesse nei confronti dell'imputato e non l'eventuale differente disciplina di istituti processuali analoghi[10]. Il sindacato deve essere globale e fondarsi su una conoscenza ampia in capo al giudice, il quale viene chiamato a vagliare la compatibilità della decisione straniera con i canoni del giusto processo attraverso l'analisi del dispositivo, della motivazione e dello stesso procedimento[11]. Proprio in relazione all'esercizio della valutazione giudiziale si profila evidente una criticità di metodo: appare dubbia la possibilità di valutare il rispetto dei principi fondamentali se, mancando la motivazione, non si ha modo di conoscere il percorso logico che ha portato il giudice straniero ad assumere quella decisione. Detto altrimenti: si dubita che possa ritenersi sufficiente il controllo sul dispositivo e sulle procedure applicate nello Stato estero per verificare il rispetto dei principi fondamentali dell'ordinamento interno.

 

5. Altra critica al ragionamento della Suprema Corte viene suggerita dall'aver voluto condizionare il riconoscimento al solo rispetto dei principi di rango sovranazionale, quasi che il richiamo di cui alla lett. b) dell'art. 733 c.p.p. ai «principi fondamentali dell'ordinamento giuridico dello Stato» fosse limitato entro i confini di una condivisibilità sovranazionale degli stessi. Tale lettura interpretativa supera il dettato normativo della disciplina codicistica e pone in discussione la natura stessa della garanzia di cui all'art. 111 comma 6 Cost. Il fatto che la mancanza di motivazione della sentenza straniera sia determinata dalla espressa rinuncia formulata dall'imputato nel procedimento estero, poco rileva in tema di rispetto del fondamentale principio in Italia. Infatti, il sistema di garanzie processuali interne prevede, a livello costituzionale, la disponibilità di alcuni diritti a fronte dell'indisponibilità di altri. L'obbligo motivazionale, nel nostro ordinamento, si configura (a parere di chi scrive) come principio indisponibile per le parti, anche in una logica di garanzia non già o non solo soggettiva (predisposta in favore delle parti e funzionale allo svolgimento dei diritti di difesa), quanto oggettiva, a tutela del corretto esercizio della giurisdizione.

Pare, dalla lettura dell'art. 733 c.p.p., che l'impianto codicistico in tema di riconoscimento delle sentenze straniere in Italia devolva al giudice interno un ruolo più pregnante di quello che la Suprema Corte delinea nella sentenza in commento. Non convince del tutto proprio la limitazione del controllo giurisdizionale al solo soddisfacimento di un corredo minimo di diritti che (in misura forse troppo arbitraria) la Corte di cassazione individua nel «diritto al giusto processo e alla comprensione delle ragioni della condanna». Sebbene sia vero che tra i principi generali dell'ordinamento rientrano, per il tramite dell'art. 117 Cost., i diritti fondamentali enunciati dalla Convenzione Europea, così come interpretati dalla giurisprudenza di Strasburgo, non ci si può fermare a tanto: soprattutto a fronte di un sistema delle fonti che, allo stato attuale ed in attesa del recepimento della Convenzione Europea da parte dell'Unione Europea, vede i principi costituzionali in posizione sovraordinata rispetto ai dettami convenzionali.

 

6. Infine, la lettura interpretativa fornita dalla Cassazione nella sentenza in commento genera dubbi circa l'ambito di operatività della lett. c) dell'art. 733 c.p.p., che richiama espressamente alcune componenti di quel "giusto processo" che risulta riconosciuto come fondamentale a livello convenzionale e costituzionale. Può essere utile, a questo punto, cercare di definire gli esatti confini dei due distinti presupposti del riconoscimento, individuati nelle lettere b) e c) dell'art. 733 c.p.p.

La lett. b) è formulata in chiave negativa e richiede un attento esame della decisione straniera sotto il profilo (strettamente giuridico) della compatibilità di ogni disposizione in essa contenuta con il nostro ordinamento. La ratio sottesa vuole evitare che possano essere oggetto di riconoscimento in Italia sentenze straniere aventi contenuti non contemplati (o peggio, esclusi) dai paradigmi delle decisioni adottabili dai nostri giudici[12].

La lett. c), invece, è formulata in chiave positiva e concerne la valutazione del rispetto di alcune garanzie procedurali minime, riconosciute sia dalla fonte convenzionale (art. 6 Cedu), sia dall'ordinamento interno (art. 111 Cost.).

Proprio il diverso ambito di operatività dei presupposti di cui alle lettere b) e c) individua due distinti oneri valutativi in capo al giudice locale: l'uno (ex lett. c) finalizzato a vagliare il rispetto di alcune garanzie procedurali minime in tema di giusto processo; l'altro (ai sensi della lett. b) volto a sindacare la compatibilità del contenuto della decisione straniera con i principi fondamentali dell'ordinamento giuridico dello Stato italiano. Ed è con riguardo a quest'ultimo che l'obbligo di motivazione ritorna a svolgere un ruolo indispensabile. Non già, come assunto dalla Suprema Corte, quale garanzia procedurale di una decisione che sia "giusta" secondo i parametri dell'equo processo, quanto piuttosto come oggetto diretto del sindacato del giudice, che, ai sensi dell'art. 733 lett. b) c.p.p., risulta chiamato a valutare se «la sentenza contiene disposizioni contrarie ai principi fondamentali dell'ordinamento giuridico dello Stato».

Da ultimo, non convince l'allocazione dell'onere probatorio sulla integrazione di ragioni ostative al riconoscimento in capo alla difesa. Tale lettura interpretativa, espressa nella sentenza in commento, solleva ulteriori riserve circa la compatibilità con altri principi fondamentali di rango costituzionale[13].

Concludendo, pare necessario che in sede di rinvio il giudice di merito recuperi un più forte potere di controllo sulle condizioni che impediscono il riconoscimento della sentenza straniera: se, da un lato, l'assenza della motivazione non potrà determinare in via automatica il rigetto della richiesta, d'altro canto, però, non esimerà da un sindacato sul contenuto della decisione, idoneo a verificarne - ai sensi dell'art. 733 lett. b) c.p.p. - la compatibilità con i principi fondamentali dell'ordinamento giuridico interno. 

 

 


[1] Così Cass., sez. II, 18.3.1977, Romano, in Cass. pen., 1978, p. 1026.

[2] Cass., sez. II, 7.2.1964, Patanè, in Cass. pen., 1964, p. 564.

[3] Tra gli altri, Pittaro, Commento all'art. 733, in Chiavario, Commentario, VI, p. 821. La ricostruzione del contrasto sotto la vigenza del vecchio codice di procedura penale è richiamata da Vigoni, Commento all'art. 733, in Giarda-Spangher, Codice di procedura penale commentato, Ipsoa, IV ed., p. 8358.

[4] Tale percorso motivazionale è a suo modo evocativo della giurisprudenza che, in tema di mandato d'arresto europeo, richiama il parametro della equivalenza sostanziale delle garanzie processuali. Con le dovute differenze, però: nel caso della disciplina del mandato d'arresto, la cornice è quella di una fonte comunitaria (la decisione quadro 2002/584/GAI e successive modificazioni), che in una logica di mutuo riconoscimento ed armonizzazione delle legislazioni penali a livello europeo introduce automatismi che, invece, in materia di riconoscimento di sentenze straniere (peraltro al di fuori dei vincoli comunitari) è totalmente carente di riferimenti normativi specifici.

[5] Non rientrando nelle ipotesi di nullità di ordine generale di cui all'art. 178 c.p.p., la nullità della sentenza o dell'ordinanza per mancanza di motivazione è una nullità relativa, soggetta al regime di deducibilità di cui all'art. 181 c.p.p. La giurisprudenza, sul punto, non è unanime, qualificandola alle volte come nullità relativa (Cass., sez. I, 21.12.1993, Bertini, in Ced Cass., n. 196390), alle volte come nullità assoluta (Cass., sez. I, 24.9.2008, p.m. in c. Cascarano, in Ced Cass., n. 241132), alle volte come abnormità (Cass., sez. VI, 24.3.2005, Morelli, in Ced Cass., n. 231259).

[6] Ex pluribus, Cass., 10.11.93, Di Giorgio, in Ced Cass., n. 196367.

[7] Come più volte ribadito dalla giurisprudenza, l'obbligo di motivazione, imposto al giudice dagli artt. 111 Cost. e 125 comma 3 c.p.p. per tutte le sentenze, opera anche rispetto a quelle di applicazione della pena su richiesta delle parti. Tuttavia, in tal caso, esso deve essere conformato alla particolare natura giuridica della sentenza di patteggiamento, essendo pertanto sufficiente una motivazione in forma semplificata, purché contenga anche implicitamente la verifica della mancata integrazione di cause di non punibilità (così, tra le altre, Cass., Sez. un., 27.9.1995, Serafino, in Cass. pen., 1996, p. 67).

[8] Come espressamente stabilito dall'art. 460 c.p.p., il decreto penale di condanna deve contenere, tra l'altro, «la concisa esposizione dei motivi di fatto e di diritto su cui la decisione è fondata».

[9] Sui requisiti della motivazione e sui procedimenti con giuria e verdetto non motivato si veda Corte Europea, Grande Chambre, Taxquet c. Belgio, 16.11.2010, in www.coe.int; nonché in Chenal-Tamietti, Commento all'art. 6, in Bartole-De Sena-Zagrebelsky, Commentario breve alla Convenzione Europea dei diritti dell'uomo, Cedam, 2012, p. 215.

[10] Così Cass., sez. II, 28.6.1977, Spallina, in Cass. pen., 1978, p. 1460; Cass., sez. II, 11.1.1971, Cuel, in Cass. pen., 1972, p. 364, entrambe sotto la vigenza del vecchio codice.

[11] Concorde, da tempo, la dottrina sul punto. Si rinvia per approfondimenti a Chiavario, Questioni in tema di riconoscimento di sentenze penali straniere, in Foro it., 1965, II, p. 206; nonché Rottola, Sui limiti di ordine pubblico alla riconoscibilità in Italia di sentenze penali straniere, in Riv. dir. int. priv. proc., 1981, p. 450. Conforme, in giurisprudenza, Cass., sez. VI, 4.11.2011, in Ced Cass., n. 251560, peraltro richiamata in motivazione nella sentenza in commento.

[12] Così Galli, Commento all'art. 733, in Conso-Grevi, Commentario breve al codice di procedura penale, Cedam, 2005, 2478.

[13] Oltre alla presunzione di innocenza, di cui all'art. 27 Cost., che determina quale corollario fondamentale l'allocazione dell'onus probandi in capo alla pubblica accusa, lo stesso incipit dell'art. 733 c.p.p. («La sentenza straniera non può essere riconosciuta se») pare individuare in capo a colui che richiede il riconoscimento (e non già alla difesa che vi si oppone) l'onere di provare che non sia integrata alcuna delle condizioni ostative.