ISSN 2039-1676


03 aprile 2015 |

Le Sezioni unite individuano il punto di equilibrio tra confisca ex d.lgs. 231 e vincolo imposto dal fallimento sui beni del fallito

Cass., Sez. Un., 25.09.2014 (dep. 17.3.2015), n. 11170, Pres. de Roberto, Rel. Marasca, ric. Cur. Fall U.

 

1. Il tema affrontato dalle Sezioni unite è indubbiamente complesso ed il percorso argomentativo che ne ha consentito l'esame si snoda attraverso una pluralità di ostacoli esegetici che ne rendono ancor più articolata la lettura. Il quesito su cui è stato chiamato a pronunciarsi il Supremo Collegio è stato da quest'ultimo così riassunto: "Se, per disporre il sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente a norma dell'art. 19, comma 2, d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, con riferimento a beni di pertinenza della massa attiva di un fallimento, il giudice penale possa limitarsi ad accertare la confiscabilità dei cespiti, senza prendere in considerazione le esigenze tutelate dalla procedura concorsuale, o debba invece procedere ad una valutazione comparativa tra le ragioni di questa, e segnatamente dei creditori in buona fede, e quelle afferenti alla pretesa punitiva dello Stato e, in quest'ultimo caso, se la verifica delle ragioni dei singoli creditori, al fine di accertarne la buona fede, debba essere compiuta dal giudice penale o, invece, dal giudice fallimentare, eventualmente in applicazione analogica della disciplina dei sequestri di prevenzione di cui al titolo IV del d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159 (cd. codice antimafia)".

 

2. La vicenda processuale da cui ha preso le mosse il giudizio sfociato nella sentenza che si annota è altrettanto travagliata e densa di profili d'interesse. Ai fini che ci occupano, occorre anzitutto considerare che, dopo l'applicazione, da parte del G.i.p. del Tribunale di Bologna, della misura del sequestro, ex art. 53 d.lgs. 231/2001, finalizzato alla confisca per equivalente ex art. 19, comma 2, d.lgs. 231, ed in seguito ad una serie di pronunce contrastanti che ne sono seguite da parte del Tribunale e della Corte di cassazione, le società raggiunte dal provvedimento ablativo sono state dapprima ammesse al concordato preventivo e, poi, sono state dichiarate fallite. In conseguenza di tale succedersi di eventi, il pubblico ministero ha sostituito le imputazioni ex art. 2632 e 2637 cod. civ. originariamente elevate nei confronti dei soggetti apicali con quella di cui all'art. 223 legge fall. Di qui, una prima ragione di censura sollevata da parte delle curatele fallimentari: posto che quest'ultimo reato non è annoverato nell'elenco dei reati presupposto cui è vincolata l'operatività della responsabilità ex d.lgs. 231, si è invocata la declaratoria dell'illegittimità del sequestro per violazione del fondamentale principio di riserva di legge cui è sottoposta l'intera disciplina del decreto.

L'avvento della procedura fallimentare, inoltre, ha indotto le curatele ad invocare l'illegittimità del sequestro anche a motivo della ritenuta inconciliabilità delle finalità punitive suo tramite perseguite con le ragioni del fallimento e, segnatamente, con quelle dei creditori in buona fede rispetto ai medesimi beni su cui cade il vincolo ablativo. In particolare, si è evidenziato come con la dichiarazione del fallimento la pretesa dello Stato non entrerebbe più in conflitto con l'autore del reato, ma con la garanzia patrimoniale dei creditori e, quindi, con l'interesse pubblico all'esercizio dell'impresa. Su questo presupposto, è stato quindi evidenziato come tale (nuovo) conflitto d'interessi dovrebbe essere risolto sia alla luce della clausola di salvezza riconosciuta dall'art. 19 d.lgs. 231 per i "diritti acquisiti dai terzi in buona fede", sia tenendo conto del divieto (ex artt. 51 e 168 legge fall.) di azioni individuali (cautelari ed esecutive) in pendenza della procedura fallimentare, sia, infine, della più recente legislazione antimafia (d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159), che accorda prevalenza all'aggiudicazione del bene nell'ambito della esecuzione singolare sulla misura di prevenzione.

A sostegno di quest'assunto, i ricorrenti hanno invocato l'approdo interpretativo raggiunto, su materia analoga, da Cass., Sez. un., 24.05.2004, n. 29951, Focarelli, con cui è stata sancita la prevalenza della confisca (e del precedente sequestro) nei confronti della procedura fallimentare solo allorquando la stessa riguardi beni intrinsecamente pericolosi. Diversamente, in difetto di tale requisito, la sua operatività è stata rimessa alla valutazione del giudice circa la prevalenza delle ragioni ad essa sottese "rispetto a quelle attinenti alla tutela dei legittimi interessi dei creditori" (Cass., Sez. un., 24.05.2004, cit.). Trasferendo tale insegnamento all'interrogativo in esame, le curatele, evidenziando come la disciplina di cui all'art. 19 d.lgs. 231, pur obbligatoria, non possa dirsi diretta a colpire cose intrinsecamente pericolose, hanno eccepito che, in assenza del riferito giudizio di prevalenza (da compiersi bilanciando le contrapposte esigenze dei creditori in buona fede con le pretese punitive della confisca), il provvedimento ablativo non potrebbe trovare applicazione.

 

3. Nell'affrontare il quesito in tal modo formulato, le Sezioni unite hanno, anzitutto, dichiarato di condividere l'eccezione connessa ai profili d'illegittimità dell'eventuale confisca del profitto (e del precedente sequestro) comminata in relazione ad un illecito non incluso nel catalogo dei c.d. reati presupposto, da cui la responsabilità dell'ente può derivare.

Questa conclusione (condivisibilmente ricondotta al c.d. doppio livello di legalità desumibile dall'art. 2 d.lgs. 231) è stata espressamente dichiarata applicabile anche all'ipotesi di reato complesso (di cui è un esempio l'art. 223 legge fall.) tra i cui elementi costitutivi si annoverino gli illeciti (autonomamente) inseriti nel catalogo del decreto. Nel pronunciarsi in tal senso, invero, il supremo Collegio si è collocato in linea di continuità sia con l'impostazione dottrinale unanime, sia con il consolidato orientamento giurisprudenziale di cui pure la sentenza dà conto (ricordando, tra l'altro, Cass., Sez. II, 29.09.2009, n. 41488, Rimoldi, intervenuta proprio rispetto all'ipotesi del reato complesso). La Corte, inoltre, ha evidenziato come tale indirizzo non potrebbe subire variazioni invocando il principio di autonomia della responsabilità degli enti sancito dall'art. 8 del decreto, il quale in ogni caso non consente alcuna divaricazione tra il delitto contestato alla persona fisica e quello chiamato a fungere da presupposto della responsabilità dell'ente.

 

4. Sgombrato il campo da questo tema preliminare, la cui analisi lascerebbe presagire l'inutilità di ogni ulteriore disquisizione, in quanto in essa assorbita, la Corte si è tuttavia addentrata nell'analisi del quesito su cui è stata chiamata a pronunciarsi, la cui soluzione ha condotto alla declaratoria d'inammissibilità del ricorso presentato dalle curatele.

Si tratta di una motivazione d'indubbia chiarezza, che, di per sé, merita di essere condivisa, pur con le riserve che si esporranno in chiusura.

Gli snodi in cui si articola la decisione riguardano, da un lato, i criteri alla luce dei quali condurre il bilanciamento, invocato dai ricorrenti, tra la doverosità della confisca e le ragioni dei creditori coinvolti nel fallimento; e, dall'altro, l'individuazione di chi possa dirsi terzo ed in quanto legittimato ad invocare la particolare tutela accordata dall'art. 19 d.lgs. 231 nei confronti del provvedimento ablativo.

 

5. Nell'affrontare il primo snodo problematico, le Sezioni unite ricordano, anzitutto, come il panorama giurisprudenziale formatosi in seguito alla già citata sentenza Focarelli si sia diviso in due correnti: da una parte, si colloca l'indirizzo che desume l'insensibilità assoluta o relativa della confisca rispetto al fallimento (nel senso sopra ricordato) dalla natura della res oggetto del provvedimento ablativo; dall'altra, si colloca l'orientamento, minoritario, che ricollega il giudizio di cui trattasi alla natura facoltativa o obbligatoria della confisca.

Riguardo al primo orientamento, dopo aver richiamato alcune pronunce formatesi in materie affini, ma non coincidenti con quelle oggetto d'interesse nel caso di specie (pur se accomunate dalla ritenuta possibilità di bilanciare gli interessi contrapposti allorché la res non sia intrinsecamente pericolosa, cfr. Cass., Sez. III, 2.2.2007, n. 20443; Cass., Sez. I, 1.3.2013, n. 20216; Cass., Sez. VI, 17.10.2013, n. 49821; Cass., Sez. II, 14.6.2006, n. 31990), la Corte richiama due pronunce che, analizzando la tematica della confisca per equivalente, ex art. 19, comma 2, d.lgs. 231, avevano ravvisato il fondamento del bilanciamento di cui si discute l'una nel carattere non intrinsecamente pericoloso delle cose sottoposte a confisca (in tal senso, Cass., Sez. V, 8.7.2008, n. 33425, Fazzalari), l'altra direttamente nel testo dell'art. 19, nella parte in cui fa salvi i diritti acquisiti dai terzi in buona fede (Cass., Sez. V, 9.10.2013, n. 48804, Cur. Fall. Infrastrutture).

Rispetto al secondo orientamento (a cui si riferiscono anche due pronunce formatesi in materia di prevenzione antimafia, Cass., Sez. VI, 4.3.2008, n. 31890 e Cass., Sez.I, 7.4.2010, n. 16783), merita attenzione Cass., Sez. VI, 10.1.2013, n. 19051, con cui, premessa la natura obbligatoria della confisca-sanzione ex art. 19 d.lgs. 231, ne ha dichiarato l'assoluta insensibilità al fallimento.

 

6. Così chiarito il panorama entro cui s'inserisce la decisione che si annota, le Sezioni unite prendono le distanze da ciascuna delle soluzioni ricordate.

Un perno essenziale dell'impalcatura su cui si regge l'argomentazione della Corte è la ritenuta esaustività della disciplina tracciata, in parte qua, dal d.lgs. 231, dalla cui disamina ricava sia il carattere obbligatorio confisca (tanto di quella ex art. 19, comma 1, quanto della confisca c.d. per equivalente sancita dal comma secondo dello stesso articolo), sia la clausola di salvaguardia a favore dei diritti dei terzi in buona fede (anch'essa contenuta nel medesimo articolo).

A tale ultimo riguardo, inoltre, la Corte evidenzia come l'accertamento della titolarità o meno del diritto del terzo sia necessariamente affidato al giudice penale della cognizione, ovvero di esecuzione allorquando il terzo accampi la propria pretesa restitutoria successivamente alla decisione con cui il primo ha disposto il provvedimento ablativo.

Altro perno della decisione è costituito dall'individuazione delle reciproche differenze (sul piano finalistico ed anche su quello operativo) tra sequestro preventivo ex artt. 53 e 19 d.lgs. 231 ed il vincolo apposto sui beni del fallito: mentre il primo, si osserva, è funzionale all'esecuzione della pretesa punitiva dello Stato in caso di condanna dell'ente (con ciò condividendo la ratio del sequestro conservativo), il secondo mira a spossessare il fallito o la società fallita dei beni che costituiscono la garanzia patrimoniale del ceto creditorio, onde evitare ulteriori depauperamenti del patrimonio stesso, a garantire la par condicio creditorum.

Poiché, dunque, entrambe le procedure evidenziano profili d'interesse pubblicistico, i vincoli che ciascuna impone meritano tutela e, quindi, non possono essere elusi. Né, del resto, l'imposizione dell'uno preclude l'applicazione dell'altro, posto che, come pure evidenzia la sentenza, sullo stesso bene ben possono coesistere vincoli diversi (sul punto si registra un orientamento giurisprudenziale consolidato, anch'esso ricordato dalla Corte: v. Cass., Sez. V, 24.1.2005, n. 8468; Cass., Sez. V, 30.9.2010, n. 42235; Cass., Sez. III, 2.2.2007, n. 20443).

Ad ulteriore sostegno dell'impostazione adottata, la Corte, da un lato, ricorda che la compresenza di un "doppio vincolo" sugli stessi beni è addirittura contemplata dall'art. 27 d.lgs. 231, che, accordando privilegio ai crediti dello Stato derivanti dagli illeciti amministrativi dell'ente, si riferisce "anche all'azione endo-fallimentare, che costituisce la forma prevalente di fruizione dell'azione esecutiva indirizzata agli imprenditori collettivi" (Cass., Sez. V, 26.9.2012, n. 44824, Magiste International s.a.); dall'altro, rileva come non sia d'ostacolo alla soluzione additata la possibilità, sancita dall'art. 53, comma 1-bis, d.lgs. 231, che, in caso di sequestro di società, aziende e beni, il custode amministratore giudiziario ne consente l'utilizzo e la gestione agli organi societari esclusivamente al fine di garantire la continuità e lo sviluppo aziendale. A tale ultimo riguardo, infatti, osserva che, in caso di fallimento, tale permesso verrà fornito dal custode al curatore fallimentare, il quale amministrerà i beni nel rispetto della legge fallimentare.

Ed in tal caso, allorché i tempi della procedura concorsuale siano differenti da quelli del giudizio penale, la sede in cui i creditori potranno far valere i propri diritti restitutori sarà necessariamente (come sopra già rilevato) il giudizio di esecuzione.

In ultimo, proprio la ritenuta completezza della normativa introdotta dal d.lgs. 231 per disciplinare la confisca, inducono le Sezioni unite ad escludere l'esistenza dei presupposti per l'applicazione in via analogica dei principi desumibili da altre discipline contermini, tra cui in primis (nell'ottica dei ricorrenti) la legislazione antimafia.

 

7. Lo snodo che conclude l'iter argomentativo della sentenza in esame riguarda l'individuazione dei criteri alla stregua dei quali ravvisare i requisiti di terzietà e buona fede che consentono di far salvi i diritti vantati sui beni oggetto di confisca.

Sul punto, invero, le Sezioni unite richiamano insegnamenti consolidati, in virtù dei quali si considera terzo la persona estranea al reato, ovvero la persona che non solo non abbia partecipato alla commissione del reato, ma che da esso non abbia ricavato vantaggi e utilità (Corte cost., sent. n. 2 del 1987; Cass, Sez. II, 14.10.1992, n. 11173, Tassinari); e considera in buona fede colui che versi in una situazione di "non conoscibilità, con l'uso della diligenza richiesta dalla situazione concreta, del predetto rapporto di derivazione della propria posizione soggettiva dal reato commesso dal condannato" (Cass., Sez. un., 28.04.1999, n. 9, Bacherotti).

In particolare, muovendo da quest'ultima conclusione, la Corte trae spunto per negare che il concetto di buona fede per il diritto penale sia coincidente con quello civilistico, ex art. 1147 cod. civ., dal momento che, osserva, "anche i profili di colposa inosservanza di doverose regole di cautela escludono che la posizione del soggetto acquirente o che vanti un titolo sui beni da confiscare o già confiscati sia giuridicamente da tutelare".

A tal riguardo, peraltro, la sentenza, prendendo le distanze da quelle impostazioni che ponevano in capo al terzo l'onere di provare tanto il proprio diritto quanto l'estraneità al reato, ovvero, la scusabilità dell'ignoranza o del difetto di diligenza su cui riposa il suo affidamento incolpevole (ex multis, Cass., Sez. I, 13.06.2001, n. 34019; Cass., Sez. I, 17.10.2013, n. 68), argomentando dalle regole di giudizio che pervadono il processo penale e dalla mancanza di disposizioni derogatorie di tali regole, conclude in favore di un "affievolimento" di tale onere riferendolo alla mera allegazione degli elementi che concorrono ad integrare tali requisiti.

La spiegazione di tale conclusione, invero, pare, di per sé, assai significativa: "i beni oggetto del provvedimento [ndr. di confisca] costituiscono profitto di un illecito amministrativo derivante da reato, cosicché per vincere una tale situazione è l'interessato, che si proclama estraneo al reato, che deve, soddisfacendo l'onere di allegazione, fare emergerela regolarità del suo titolo di acquisto e la buona fede che soggettivamente lo caratterizzava".

 

8. Al cospetto di una sentenza così complessa sotto il profilo interpretativo e ricostruttivo di un tessuto normativo indubbiamente articolato, riesce difficile, se non impossibile, nascondere un certo senso di smarrimento a fronte di taluni profili di (almeno apparente) disallineamento rispetto alla coerenza che, nel suo complesso, la caratterizza.

Il primo motivo di perplessità è connesso all'esito cui giunge (inammissibilità dei ricorsi delle curatele), pur a fronte dell'accertata carenza dei presupposti per l'applicabilità del sequestro finalizzato alla confisca. E tale perplessità pare vieppiù confermata se si confronta l'impostazione in tal senso adottata dalla Corte con l'aspetto maggiormente convincente della soluzione proposta, consistente nell'affermata possibilità di coesistenza dei vincoli di cui si è discusso: quello imposto dalla confisca e quello imposto dalla procedura concorsuale.

Tale coesistenza, infatti, che, in uno con la ritenuta competenza a decidere sui diritti dei terzi in capo al giudice penale (del merito o dell'esecuzione), consente di non subordinare l'operatività della confisca all'accertamento simultaneo di tali diritti, sembrerebbe implicare la necessaria riespansione delle pretese restitutorie in capo ai titolari di questi ultimi allorquando (come in questo caso) la confisca non possa in nessun modo operare, essendovi d'ostacolo, come bene rileva la sentenza, il principio di stretta legalità.

Né la soluzione adottata dalla Corte sembra imposta dalla circostanza che la pretesa restitutoria sia patrocinata dal curatore fallimentare piuttosto che dal singolo creditore, posto che il primo - tanto più in assenza di un vincolo d'altro genere imposto sui beni - è preposto, ex lege, all'amministrazione del patrimonio del fallito (non già nell'interesse di quest'ultimo, ma, come pure si afferma in sentenza, della par condicio creditorum), essendo appositamente legittimato a rivendicarne la restituzione nei confronti di chiunque li possegga.

Sotto altro profilo, desta perplessità l'assistere al perpetuarsi delle riferite conclusioni, peraltro ormai consolidate, circa l'onere (qui indicato come di mera allegazione) cui il terzo deve assolvere per far valere tanto il proprio diritto sulla res, quanto la propria buona fede.

Tali conclusioni, infatti, paiono porsi in contraddizione sia con l'affermazione, condivisa anche dalla sentenza che si annota, secondo cui "la responsabilità degli enti è in buona sostanza modellata su quella penale", sia con l'indubbia (ed altrettanto consolidata) natura penale riconosciuta alla confisca (cfr. C.E.D.U., 20.1.2009, Sud Fondi c. Italia) ed alla conseguente necessità di assicurarne l'applicazione nel rispetto del principio di colpevolezza (C.E.D.U., 20.10.2013, Varvara c. Italia), così come, del resto, in altra occasione è stato sancito anche dalle Sezioni unite (Cass., Sez. 19.01.2012, n. 14484).

Del resto, la circostanza che la confisca sia stata disposta all'esito di un giudizio di responsabilità pronunciato nei confronti di soggetto diverso da quello che si afferma terzo e che in buona fede avanza le proprie pretese sulla res, non solo non pare sminuire la portata di tali garanzie, ma, anzi, sembra ancor più rafforzare l'impressione che l'eventuale loro affievolimento operativo sia ancor più inammissibile: il terzo, infatti, in quanto estraneo al giudizio culminato con la pronuncia del provvedimento ablativo, viene a trovarsi nella condizione di subirne gli effetti (rectius: la sanzione penale), senza potersi avvantaggiare, pleno jure, delle garanzie che l'ordinamento pone a presidio dell'applicazione del diritto penale.