ISSN 2039-1676


08 maggio 2017 |

Blowin’ in the…whistle: il primo rapporto dell’ANAC sul c.d. whistleblowing

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1. L’Autorità Nazionale Anticorruzione (A.N.AC.) ha reso noti i risultati del primo monitoraggio sul whistleblowing e il prototipo di una applicazione per la gestione delle segnalazioni di illeciti (anche) confrontando la realtà italiana con le esperienze degli ordinamenti di altri Paesi, membri dell’OCSE, in particolare.

Il documento muove, innanzitutto, dal tentativo di definire l’istituto non mancando di evidenziare la difficoltà di tradurre il significato di whistleblower, che (of course) letteralmente significa “soffiatore nel fischietto” ma figurativamente (per lo più nell’american english) evoca l’azione dell’arbitro che segnala un’irregolarità e, per ulteriore traslazione semantica, quella delle forze dell’ordine che intervengono per ripristinare l’ordine pubblico ovvero di un soggetto che innesca l’attività di un gatekeeper, all’interno a all’esterno di un ente. A quest’ultima accezione del lemma si riferisce precisamente l’A.N.A.C., in connessione con la definizione contenuta nella l. n. 190/2012 (art. 1, co. 51, rubricato “Tutela del dipendente pubblico che segnala illeciti”), dove il whistleblower è identificato con “il pubblico dipendente che denuncia all’autorità giudiziaria o alla Corte dei conti, ovvero riferisce al proprio superiore gerarchico condotte illecite di cui sia venuto a conoscenza in ragione del rapporto di lavoro”. Inteso il whistleblowing come l’attività di segnalazione, da parte di dipendenti pubblici o privati, di illeciti o comunque di fenomeni di mala gestio, indispensabile per la prevenzione della corruzione e l’emersione di illeciti di interesse pubblico, il rapporto si propone, innanzitutto, l’obiettivo di emancipare il whistleblower dalle flessioni prettamente negative, quali “spione, delatore, traditore[1], radicate in una certa cultura dell’omertà, comune sia alle organizzazioni private che a quelle pubbliche, dove “l’attività di segnalazione” viene ancora percepita come un “elemento di rischio[2].

 

2. La “fotografia” della situazione italiana è stata elaborata mediante l’attività di reporting relativa ad un campione di 34 pubbliche amministrazioni e 6 società partecipate, al fine di individuare alcune caratteristiche del cd. “segnalante”, la tipologia di condotte illecite denunciate e gli esiti dalle stesse scaturiti.

La prima carenza emersa e, quindi, il primo e più importante obiettivo da perseguire per incrementare il whistleblowing, nel settore pubblico come in quello privato, riguarda la tutela del soggetto segnalante. A parte l’accordo di collaborazione dell’A.N.AC. con Libera e con Transparency International Italia, manca nella disciplina nazionale una regolamentazione del cd. “accompagnamento” del whistleblower. Per tale ragione il whistleblower, oltre al discredito interno, subisce (o rischia di subire) anche misure di discriminazione inflitte dai superiori – c.d. retaliation – senza che ci siano idonei canali di informazione dell’autorità che deve verificare la legalità e la regolarità dei procedimenti disciplinari che ne derivano[3].

Questa situazione rende il nostro paese inadempiente rispetto a diverse fonti internazionali che prescrivono la necessità di una effettiva protezione del soggetto segnalante. Si pensi alla Convenzione OCSE del 1997, alla Convenzione del Consiglio d’Europa del 1999, alla Convenzione ONU contro la corruzione (Merida, 2003, in vigore per l’Italia dal 2009) che appunto prevedono la tutela da trattamenti ingiustificati del dipendente segnalante in buona fede.

L’Italia, in realtà, non è sola in questa condizione. Da un rapporto OCSE del 2014, emerge che mentre la maggior parte dei paesi si è limitata ad adottare singole disposizioni normative contenute in una o più leggi non specifiche (leggi anticorruzione, leggi sulla concorrenza, sul rapporto di lavoro nel pubblico impiego, ecc.)[4], solo 13 stati membri hanno introdotto una completa regolamentazione dedicata esclusivamente al whistleblowing, i cui aspetti più significativi riguardano:

‒ le procedure di segnalazione rispetto alle quali si confrontano un modello regolamentato che gerarchizza la fase interna all’ente, quella esterna (il whistleblower potrà adire le vie esterne solo nel caso che la segnalazione ad intra sia rimasta priva di esiti) e infine il ricorso alla stampa (come estrema ratio nel caso in cui entrambi gli step precedenti siano risultati infruttuosi) vs. un modello non regolamentato, in cui il whistleblower è libero di scegliere forme e canali di comunicazione;

‒ la protezione da ritorsioni che, in  alcuni paesi, è rafforzata dalla previsione di uno spazio temporale durante il quale il datore di lavoro è gravato dall’onus probandi di dimostrare la mancanza di collegamento tra l’eventuale azione nei confronti del dipendente-segnalante e la segnalazione;

‒ la protezione dell’identità del segnalante rispetto alla quale le opposte soluzioni sono quelle che non proteggono l’identità del whistleblower e quelle in cui è garantito l’anonimato del segnalante;

‒ gli incentivi per i dipendenti segnalanti, riconosciuti in alcuni ordinamenti (es. ricompense finanziarie) non in altri dove prevale la considerazione che le denunce devono/dovrebbero essere motivate esclusivamente dal senso civico del segnalante e dal pubblico interesse perseguito.

 

3. Il rapporto dell’A.N.AC. si conclude esaminando il ruolo del Responsabile della Prevenzione della Corruzione (R.P.C.) [5] nella dinamica del whistleblowing. È la diagnosi di un fallimento. Tra gli altri, l’Autorità segnala due fattori di criticità:

‒ le interferenze dei vertici dell’amministrazione e dell’organo di indirizzo politico;

‒ il ricorrente “conflitto di interessi” del R.P.C. rispetto alla segnalazioni che nella gran parte dei casi riguardano proprio i superiori gerarchici, ponendo un ostacolo operativo al segnalante e l’esigenza di individuare un altro soggetto che, compatibilmente con la propria funzione, possa ricevere la segnalazione[6]. L’ennesima variazione sul tema: chi controlla i controllori.

Sembrano calzare i versi di Bob Dylan: “'n' how many times can a man turn his head, / Pretending he just doesn't see? / The answer, my friend, is blowin' in the wind, / The answer is blowin' in the wind”, o meglio, the answer is blowing in the…whistle.

 

[1] R. Cantone, N. Parisi, L. Valli, A. Corrado, M.G. Greco, Segnalazioni di illeciti e tutela del dipendente pubblico: l’Italia investe nel WhistleBlowing, importante strumento di prevenzione della corruzione, 2016, p. 1.

[2] R. Cantone, N. Parisi, L. Valli, A. Corrado, M.G. Greco, op. cit., p. 13.

[3] R. Cantone, N. Parisi, L. Valli, A. Corrado, M.G. Greco, op. cit., p. 3.

[4] R. Cantone, N. Parisi, L. Valli, A. Corrado, M.G. Greco, op. cit., p. 6.

[5] Al R.P.C. «è affidato il delicato e importante compito di proporre strumenti e misure per contrastare fenomeni corruttivi». Così la Determinazione dell’A.N.AC. n. 6 del 28 aprile 2015, che individua il perno del sistema di prevenzione della corruzione disciplinato nella legge 190/2012 sul Responsabile della Prevenzione della Corruzione.

[6] R. Cantone, N. Parisi, L. Valli, A. Corrado, M.G. Greco, op. cit., p. 12.