ISSN 2039-1676


24 luglio 2018 |

Quando la "vittima" diventa "carnefice": la restorative justice privata delle grandi catene della distribuzione americana altro non è che estorsione

California v. Corrective Education Company, San Francisco Superior Court - Case No. CGC-15-549094, 2015-2017

Contributo pubblicato nel Fascicolo 7-8/2018

1. La giustizia riparativa, metodo di risoluzione alternativa delle controversie affermatosi piuttosto di recente all’interno del nostro ordinamento, si connota notoriamente per alcune peculiarità che ne determinano una fortuna in costante crescita. Il primo tratto caratteristico è quello della volontarietà: la vittima e il reo, infatti, devono acconsentire liberamente alla risoluzione delle controversie insorte tra loro, valorizzando in tal modo la componente umana ed empatica dell’accordo da raggiungere. Ulteriore peculiarità della restorative justice è, in secondo luogo, quella di prevedere il coinvolgimento di un soggetto terzo imparziale, che possa costituire un aiuto per le parti al fine del raggiungimento dell’accordo. In terzo luogo, è necessario evidenziare come le tecniche riparative non possano – e non debbano – sostituirsi all’autorità statale: da ciò deriva, come primaria conseguenza, la circostanza per cui esse non possano costituire forme di giustizia privata, bensì debbano essere sempre regolamentate dalle pubbliche autorità.

Tuttavia, nonostante i pregevoli caratteri che la connotano, la giustizia riparativa può talora essere utilizzata in maniera distorta e strumentale, celando vere e proprie pratiche estorsive: è quanto è accaduto in un curioso caso di restorative justice privata statunitense, che ben esemplifica l’uso strumentale che di essa può essere fatto.

 

2. La Walmart Stores Inc, multinazionale americana proprietaria dell'omonima catena di negozi al dettaglio, dai primi mesi del 2015 è ricorsa ad una discussa – e discutibile – strategia finalizzata alla riduzione dei numerosi episodi di taccheggio[1]: in più di 2.000 punti vendita situati in territorio statunitense, infatti, ha collocato postazioni per attuare il cosiddetto “programma CEC”, offerto dalla società privata Corrective Education Company.

Il programma di – asserita - restorative justice[2] era così strutturato: quando una persona era sospettata di taccheggio all’interno di un negozio convenzionato, una guardia privata, dopo aver condotto il soggetto in una stanza sul retro, gli mostrava un video che descriveva le disastrose conseguenze – anche economiche - dell’arresto e del procedimento penale, e gli prospettava poi due opzioni: il carcere oppure l’adesione al metodo CEC.

Questa seconda alternativa prevedeva che il soggetto firmasse un'ammissione di colpevolezza, pagasse fino a $ 500 alla società e partecipasse ad un corso online di modifica comportamentale della durata di 6 ore, evitando con ciò l’intervento della polizia e qualsiasi tipo di conseguenza penale.

Nell’eventualità in cui il sospettato, una volta firmata la dichiarazione di adesione al metodo, non procedesse effettivamente al pagamento, la CEC lo contattava telefonicamente prospettandogli l’intento di trasmettere la sua confessione firmata alla polizia.

 

3. L’evidente anomalia di un siffatto metodo e i dubbi relativi alla sua compatibilità con il diritto penale sono sfociati, nel novembre 2015, in un’azione legale finalizzata ad ottenere un provvedimento inibitorio intentata contro la CEC dal procuratore della città di San Francisco. Secondo la prospettazione accusatoria, il “metodo correttivo” elaborato ed applicato dalla Corrective Education Company costituirebbe uno pseudo-sistema di giustizia privata, basato sul lucro, integrante i due reati di estorsione e sequestro di persona messo in atto da soggetti privi della qualifica di pubblico ufficiale.

Secondo l’ufficio del procuratore, infatti, il video mostrato ai soggetti indiziati di furto avrebbe un puro scopo intimidatorio, e porrebbe gli indiziati davanti ad una scelta – solo apparente – tra il pagamento di una somma di denaro e la richiesta d’intervento della polizia, comportamento, questo, integrante chiaramente il reato di estorsione. Pertanto, nelle conclusioni del procuratore, si renderebbe necessario un ordine di inibizione delle condotte previste dal metodo della società CEC, essendo esse contrarie alle leggi della California (per leggere il testo completo dell’atto di denuncia, clicca qui).

 

4. La causa è stata dunque depositata presso la Superior Court of San Francisco e, in data 14 agosto 2017, la Corte si è pronunciata in merito al caso.

All’interno dell’ordinanza inibitoria emessa all’esito della controversia, il giudice ha aderito alla prospettazione accusatoria, ritenendo che il programma integri effettivamente il reato di estorsione[3] – oltre che quello di sequestro di persona effettuato da soggetti che non sono pubblici ufficiali - ai sensi della legge dello Stato. All’interno del provvedimento, in particolare, si legge che “il contenuto irriducibile del programma CEC consiste nella richiesta, rivolta dal rivenditore al sospettato, di pagare una somma di denaro alla CEC in cambio della tolleranza, da parte del rivenditore stesso, nel notificare alla polizia il fatto che il soggetto abbia commesso – presumibilmente – un crimine”[4]. Questa condotta integra, a parere del giudice, un classico esempio di estorsione, punito dalle leggi della California da più di centoventicinque anni, a prescindere da qualsiasi valutazione circa la reale efficacia pratica del metodo[5].

Il provvedimento, dunque, ha statuito la responsabilità solidale del rivenditore Walmart e della CEC per la condotta estorsiva, dal momento che, chiedendo denaro in cambio di tolleranza nel chiamare la polizia, i due soggetti agiscono di comune accordo. L’effetto conseguente alla pronuncia della Corte è quello per cui alla CEC è stato proibito di continuare le pratiche censurate sul territorio californiano (per leggere il testo completo dell’ordinanza, clicca qui).

L’attività offerta dalla società CEC, inoltre, costituisce un esempio di giustizia riparativa privata, come tale illegittima, operante al di fuori di qualsiasi supervisione richiesta in tale ambito dagli uffici del procuratore distrettuale della California[6].

 

***

5. Varcando ora i confini italiani, il programma “correttivo” utilizzato dalla multinazionale Walmart configurerebbe, all’interno del nostro ordinamento, un'ipotesi di minaccia di far valere un diritto o una facoltà, sub specie di minaccia di denuncia di un – sospetto, peraltro - reato.

Ebbene, la dottrina italiana, a riguardo, sostiene la tesi della rilevanza penale di siffatta minaccia[7], che implica la correlazione tra un “male giusto” (come la denuncia di un reato) ed il perseguimento di uno “scopo ingiusto”, dove l’ingiustizia risiede nella mancanza di una relazione tra il mezzo – la minaccia di esercitare un diritto – e lo scopo – ossia l’arricchimento della Corrective Education Company -.

Che in Italia la minaccia di far valere un diritto o una facoltà in cambio della dazione di una somma di denaro integri tutti gli estremi del delitto di estorsione ex art. 629 c.p. è confermato dalla giurisprudenza di legittimità: basti pensare, a mero titolo esemplificativo, al noto caso Corona, deciso dalla Corte di Cassazione nel 2011 con la condanna del fotografo, nonostante la circostanza per cui procedere alla pubblicazione sui giornali di gossip delle immagini compromettenti scattate ad alcuni personaggi famosi in luoghi pubblici sarebbe stata una sua facoltà, liberamente concessagli dal diritto di cronaca[8].

Il suddetto orientamento giurisprudenziale si è affermato fino ad essere divenuto, oggi, di costante applicazione: si richiama, da ultimo, la pronuncia della Cassazione n. 6812/2017, all’interno della quale si legge che in tema di estorsione contrattuale la minaccia di far valere un diritto assume il connotato dell'illiceità soltanto quando sia diretta ad ottenere un risultato iniquo, perché ampiamente esorbitante ovvero addirittura non dovuto rispetto a quello conseguibile attraverso l'esercizio del diritto, che viene strumentalizzato per scopi "contra ius", diversi cioè da quelli per cui esso è riconosciuto e tutelato”[9].

 

7. Alla luce di quanto sopra esposto, pertanto, possiamo concludere nel senso che il caso della multinazionale Walmart non costituisce certo un virtuoso esempio di giustizia riparativa finalizzata a dirimere le controversie con i taccheggiatori. Il metodo da essa adottato, infatti, difetta di tutti i tratti tipici della restorative justice: è una modalità di giustizia privata, perseguita tramite un ente terzo non imparziale bensì alle esclusive dipendenze della parte forte del rapporto e, soprattutto, manca di qualsiasi volontarietà di adesione. Ad ulteriore sostegno della, seppur già chiara, qualificazione del metodo CEC in termini di estorsione e non certo in quelli di giustizia riparativa, si impone una riflessione conclusiva: la reale opportunità dei programmi di restorative justice deriva da un rapporto personale tra vittima e autore del reato, da un confronto concernente l’impatto che il comportamento di un soggetto può avere – e ha avuto – su un altro. È evidente che, in questo senso, il programma ideato dalla Corrective Education Company non possa offrire al sospettato alcuno spunto rieducativo, difettando in esso un carattere fondamentale di qualunque forma di giustizia riparativa presente in qualsiasi ordinamento giuridico: l’elemento umano, inteso come possibilità di instaurare un effettivo legame empatico tra autore e vittima del reato.

 


[1] Episodi che, secondo le stime diffuse dalla società stessa, causerebbero una perdita annuale di circa 3 miliardi di dollari, pari all’1% dell’intero fatturato; tali dati sono forniti dal sito di business news Quartz (http://www.qz.com). Articolo del 25.09.2017, autrice Hanna Kozlowska.

[2] Ossia di giustizia riparativa, intendendo con tale espressione “qualsiasi procedimento che permette alla vittima e all’autore del reato di partecipare attivamente, se vi acconsentono liberamente, alla risoluzione delle questioni risultanti dal reato con l’aiuto di un terzo imparziale” (Direttiva UE n. 29/2012, art. 2 co. 1 lett. d).

[3] Penal Code of California, artt. 518, 519, 522 e 524.

[4] CEC Order (17 agosto 2017), pag. 4, righe 11-14.

[5] I legali rappresentanti della società Walmart, infatti, sostengono la concreta utilità del metodo correttivo qui contestato sulla base di alcuni dati statistici: in seguito all’adesione al programma CEC di circa il 90% degli indiziati di taccheggio in California (pari ad oltre 13.000 soggetti), le chiamate di polizia all’interno dei negozi Walmart sarebbero diminuite del 35%.

[6] https://www.themarshallproject.org/2017/10/30/restorative-justice-for-shoplifting-a-court-calls-it-extortion

[7] Tale tipologia di minaccia configura, anche, un illecito civile ai sensi dell’art. 1438 c.c. Per una ricostruzione più completa in tema di minaccia, si rimanda alla monografia di G.L. GATTA, La minaccia. Contributo alle modalità della condotta penalmente rilevanti, Aracne, 2013.

[8] Cass. Sez. II, 20 ottobre 2011, n.43317, Corona, in Ced Cassazione, n.251071. Per le pronunce rese nei precedenti giudizi di merito v. Trib. Milano, 4 marzo 2009, in Dir. pen. cont., 10 dicembre 2009; Corte App. Milano, 2 dicembre 2010, ivi, 2 dicembre 2010. Il fatto che l’imputato, prima di procedere alla pubblicazione, abbia contattato i protagonisti degli scatti chiedendo loro del denaro in cambio della mancata pubblicazione ha integrato un esempio di minaccia “giusta” che perseguiva, tuttavia, uno scopo “ingiusto” nel senso sopra precisato e, per questo motivo, la Corte ha ritenuto integrato il reato.

[9] Cass. pen. Sez. II, Sent. (ud. 30.11.2016) 13.02.2017, n. 6812.