Thomas, il chirurgo devoto alla sua professione protagonista de “L'insostenibile leggerezza dell'essere”, ricorda la sua prima esperienza operatoria come un atto di "profanazione"
[1]!
La sensazione provata dal giovane medico nel mettere mano, per la prima volta, al bisturi trasferisce immediatamente sul piano concettuale il valore dei beni con i quali l’arte ed il sapere del medico sono chiamati quotidianamente a confrontarsi: la vita, l’integrità fisica, il diritto all’autodeterminazione, riconosciuti nelle tavole normative nazionali ed internazionali come diritti fondamentali dell’uomo. L’art. 13 della Costituzione sancisce infatti il principio dell’inviolabilità della libertà personale, che si estrinseca nella garanzia del diritto del singolo alla protezione della propria sfera d’integrità fisica e di autodeterminazione, e l'art. 3 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000, ribadisce solennemente che «ogni individuo ha diritto alla propria integrità fisica e psichica».
Occorre sottolineare che di norma il rapporto tra il medico ed il paziente è tutt’altro che conflittuale; anzi è improntato alla comune tensione a conseguire l’obiettivo della tutela della salute, riconosciuto dall’art. 32 1°comma Cost. come espressione del diritto fondamentale alla vita. Con la conseguenza che, nel praticare la professione sanitaria, il medico persegue come fine, secondo scienza e coscienza, la cura del malato utilizzando i presidi diagnostici e terapeutici di cui dispone la scienza medica, con il solo limite, tuttavia, del rigoroso rispetto del diritto del malato a decidere liberamente e consapevolmente dei trattamenti sanitari cui sottoporsi (art. 32 2°comma Cost.). Libertà di scelta, quella evocata, che implica come necessario presupposto il diritto del malato a ricevere un’informazione che sia la più completa possibile in ordine ai trattamenti medesimi.
E’ questo del resto l’approdo cui è pervenuta la Corte Costituzionale nelle sentenze n. 438 del 2008 e n. 253 /2009, laddove ha affermato che «il consenso informato riveste natura di principio fondamentale in materia di tutela della salute in virtù della sua funzione di sintesi di due diritti fondamentali della persona: quello all'autodeterminazione e quello alla salute».
Il principio del consenso informato al trattamento sanitario costituisce inoltre il cardine attorno al quale ruota l’impianto motivazionale della Sentenza delle Sezioni Unite Penali, Giulini n. 2437/ 2009, che si snoda a partire dall’idea secondo la quale l’attività medico chirurgica, pur se produttiva di un male transitorio e strumentale al conseguimento di un beneficio complessivo per la salute del paziente, non può essere assimilata ad alcuna delle attività illecite tipizzate dalle norme del codice penale, in regione della sua intrinseca meritorietà sociale che la rendono suscettibile ex sè di una peculiare protezione e promozione da parte dell’ordinamento. Sempre che la stessa si fondi comunque sul consenso del paziente, che funge da indefettibile presupposto di liceità della condotta medica, salve le ipotesi di stato di necessità o trattamenti sanitari obbligatori previsti dalla legge ai sensi dell'art. 32 Cost.
Collocandosi dunque nel contesto di quest’opzione ideologica, la Suprema Corte ha stabilito che la condotta del medico che sottoponga il paziente ad un trattamento chirurgico diverso da quello in relazione al quale era stato prestato il consenso informato - quando tale intervento, eseguito nel rispetto dei protocolli e delle leges artis, si sia concluso con esito fausto, nel senso che dall'intervento stesso è derivato un apprezzabile miglioramento delle condizioni di salute, rispetto anche alle eventuali alternative ipotizzabili, e senza che vi fossero indicazioni contrarie da parte del paziente medesimo - è priva di rilevanza penale, tanto sotto il profilo della fattispecie di cui all'art. 582 c.p. (in assenza di una malattia intesa in senso funzionale), che sotto quello del reato di cui all'art. 610 c.p. (in mancanza di un effettivo contrasto tra la volontà del terapeuta e quella del paziente).
Quid iuris, ci si è chiesti, nell’ipotesi di trattamento sanitario arbitrario conclusosi con esito infausto, vale a dire con un significativo peggioramento delle condizioni complessive del paziente ? Il Supremo Collegio ha affrontato la questione per obiter, affermando che in ipotesi del genere il comportamento del sanitario potrebbe essere ricondotto alla categoria dogmatica della colpa impropria, prevista dagli artt. 55 e 59 IV° comma c.p., che ricorre nei casi in cui vengano colposamente superati i limiti di una scriminante o si possa configurare un errore sull’esistenza di una causa di giustificazione addebitabile ad un atteggiamento colposo del sanitario.
La soluzione al problema, individuata nella teoria dell’eccesso colposo e dell’errore rimproverabile a titolo di colpa quanto all’esistenza di una scriminante, evidenzia tuttavia una vistosa smagliatura nell’iter logico della decisione, ponendo la Cassazione in insanabile contrasto con quanto affermato nell’incipit della motivazione; vale a dire con l’esplicitata adesione al principio di autolegittimazione dell’attività sanitaria, per il quale la stessa, in quanto attività socialmente utile, è di per sé stessa legittimata e giustificata dall’ordinamento, a condizione che sussista il consenso informato del paziente che ne è il fruitore e che il medico la eserciti nel rispetto delle leges artis. Ne deriva che alcuna scriminante - non quella del consenso dell’avente diritto di cui all’art. 50 c.p., ma neppure quella c.d atipica o costituzionale – può essere invocata per legittimare una relazione terapeutica patologica, poiché, a volere restare fedeli all’impianto dogmatico della decisione, il consenso informato del paziente è elemento costitutivo della condotta medica che vale a fondarla come legittima sin dall’origine – connotandone perciò la stessa tipicità - e non a giustificarla o a scusarla dall’esterno.
Le defaillances indicate hanno sortito dunque l’effetto di alimentare i contrasti giurisprudenziali mai sopiti quanto alla disciplina giuridica da applicare ai trattamenti sanitari arbitrari dai quali sia derivato un peggioramento delle condizioni di salute del paziente. Ed allora, significativa del clima di incertezza e di insoddisfazione che serpeggia nella giurisprudenza di legittimità e di merito in ordine alle questioni riguardanti gli interventi chirurgici eseguiti malgrado il dissenso del paziente conclusisi con esito infausto, si rivela la Sentenzan. 21799 del 20/04/2010 (dep. 08/06/2010), Petretto, Rv. 247341, con la quale la Quarta Sezione Penale della Cassazione ha deciso un caso di intervento di chirurgia correttiva della vista eseguito con la tecnica del laser ad esito infausto, per il quale il consenso del paziente era stato carpito prospettandogli una metodologia esecutiva non invasiva. La Corte ha ritenuto che integri il reato di lesione personale dolosa la condotta del medico che sottoponga, con esito infausto, il paziente ad un trattamento chirurgico, verso il quale costui abbia espresso il proprio dissenso. La decisione si fonda sul convincimento che il consenso carpito al paziente con l’inganno o in altra maniera fraudolenta – omettendo cioè di informare il destinatario del trattamento sanitario di tutte le circostanze di fatto attinenti all’esecuzione dell’intervento medesimo (tacendo, ad esempio, che la struttura in cui lo stesso avrebbe avuto luogo era attrezzato soltanto per il tipo di intervento per il quale il paziente aveva espresso il proprio tenace rifiuto) ovvero relative alle eventuali complicanze dello stesso, la cui precognizione peraltro nel caso specifico non era stata possibile, avendo il sanitario imputato omesso, prima dell’intervento, gli esami strumentali necessari a diagnosticarle - sia tale da escludere in radice la liceità del trattamento sanitario somministrato in quanto tale, esorbitando la plateale grossolanità della condotta medica persino dal raggio d’azione della colpa impropria ed evidenziando piuttosto nel chirurgo un animus ledendi nella forma del dolo eventuale.
Riecheggiano nell’intonazione di fondo della decisione i temi dell’orientamento giurisprudenziale inaugurato dalla Sentenza Massimo del 1992, che sembravano accantonati dopo la pronuncia delle Sezioni Unite Giulini. La Corte infatti sembra propendere – almeno con riferimento alle fattispecie ad esito infausto - per la sussumibilità dell'intervento chirurgico effettuato in mancanza di consenso o malgrado il dissenso sotto il paradigma delle lesioni personali dolose, sulla considerazione che esso lede comunque l'integrità fisica del paziente; a nulla rilevando, per qualificare diversamente il fatto, l’invocato fine terapeutico che dovrebbe caratterizzare ex sé l’attività medico chirurgica, dovendosi prendere atto, in ossequio al principio di tipicità, che nella sistematica del codice vigente il delitto di cui all’art. 582 c.p. è punito a titolo di dolo generico e non a titolo di dolo specifico.
Non sono ovviamente mancate le
critiche di chi
[2], valorizzando il dato della
intrinseca beneficialità - terapeuticità dell’atto medico, ha ritenuto che il fine di guarigione che essa in ogni caso persegue,
vale ad escludere la configurabilità del reato di lesioni personali, anche in presenza di trattamento medico arbitrario pur conclusosi con esito infausto (purchè eseguito nel rispetto delle
leges artis), integrando al più tale trattamento il delitto di violenza privata. E mostrando riserve quanto all’opzione seguita dalla giurisprudenza di legittimità di ancorare il trattamento penale dell’intervento sanitario arbitrario ad un dato, quello dell’
esito fausto o infausto, estraneo al potere di controllo del medico, giacchè dipendente non dal mancato rispetto delle
leges artis, ma da situazioni di sovente connesse alle
c.d. complicanze operatorie.
*****
Il corretto instaurarsi della relazione terapeutica tra medico e paziente determina quindi nel primo il sorgere di una posizione di garanzia nei confronti del secondo, da cui deriva l'obbligo di attivarsi a tutela della salute e della vita di chi si affidi alle sue cure.
Il carattere necessariamente congetturale dell’accertamento del nesso causale tra il pregiudizio alla salute subito dal paziente e la condotta omissiva colposa del medico continua tuttavia, pur dopo le direttrici segnate dalle Sezioni Unite Franzese del 2002, a suscitare dubbi metodologici ed incertezze ermeneutiche nei giudici di merito quanto ai criteri da utilizzare per verificare il grado di corroborazione di cui può beneficiare la spiegazioni causale prospettata dalla Pubblica Accusa nei processi in subiecta materia. Ciò pare tanto vero che la Corte di Cassazione ha avvertito la necessità di tornare a ribadire il principio secondo il quale, in tema di responsabilità professionale del medico, il giudizio controfattuale volto a verificare se, ipotizzandosi come realizzata la condotta terapeutica dovuta, l'evento lesivo sarebbe stato evitato "al di là di ogni ragionevole dubbio", deve essere pronunciato soltanto al termine di un percorso conoscitivo che abbia consentito di comprendere sia la malattia che l’operato del medico in tutti i loro aspetti, sia fattuali che scientifici. (Cass. Pen., Sez. 4, Sentenza n. 10819 del 04/03/2009 Ud., dep. 11/03/2009, Rv. 243874 Ferlito ).
Il modello “
forte” di ricostruzione della causalità omissiva
[3] indicato nella decisione Ferlito si colloca dunque
nel solco di quell’orientamento della giurisprudenza di legittimità, cui aveva già prestato adesione la sentenza Franzese,
incline a far proprio il criterio ermeneutico della probabilità logica, fondato sulla constatazione realistica che una percentuale statistica pur alta di connessione tra una condotta ed un evento evidenziata da una legge scientifica di copertura possa non avere alcun effettivo valore eziologico nel caso concreto, nell’ipotesi in cui si riesca a provare che l’evento è stato cagionato da una diversa condizione; e che, al contrario, una percentuale statistica medio – bassa potrebbe invece risultare positivamente suffragata in concreto, nell’accertamento della sequenza causale, dalla verifica della insussistenza di altre cause dell'evento di cui si sia stato possibile escludere l'interferenza
[4].
Il ripudio dei canoni di giudizio che, ai fini della individuazione del nesso causale, quale elemento costitutivo del reato, facciano ricorso esclusivamente o prevalentemente su dati statistici ovvero su criteri valutativi a struttura probabilistica determina l’opzione convinta per un percorso epistemologico rispettoso dei principi fondamentali del nostro sistema penale – in particolare di quelli tipicità/tassatività del fatto ex art. 25 2°comma Cost – per il quale il giudizio controfattuale deve consentire di ritenere processualmente certo, e non solo probabile, che l'azione omessa avrebbe evitato l'evento: e ciò sulla scorta di un complessivo esame degli elementi di prova addotti nel processo, secondo i criteri sanciti dall'art. 192 c.p.p. Con il corollario che ove emerga il ragionevole dubbio, in base all'evidenza disponibile, sulla reale efficacia condizionante della condotta omissiva del medico rispetto all’evento dannoso in concreto verificatosi s’impone l'esito assolutorio del giudizio.
Ove la regola dell’oltre ragionevole dubbio implica che si possa pervenire alla condanna dell'imputato soltanto qualora vi sia
la certezza processuale della sua responsabilità, vale a dire
quando, effettuate tutte le verifiche delle prove raccolte, è possibile raggiungere da parte del giudice una convinzione basata su un alto grado di credibilità razionale circa la verità dell’accusa [5] e con la precisazione, tratta dall’esperienza giurisprudenziale dei paesi di Common Law, che per essere ragionevole non è richiesto che il dubbio sia "grave", "serio", "sostanziale","ben fondato", "argomentato", ma
esigendosi soltanto che non si tratti di un dubbio immaginario, una possibilità remota, una mera ombra di dubbio.
Dunque l’efficacia condizionante dell'omissione rispetto all'evento deve essere affermata quando risulti accertato, per effetto di valutazione ex post compiuta alla luce del criterio della credibilità razionale, in un approccio inferenziale e critico di tutte le evidenze fattuali disponibili e delle leggi scientifiche o statistiche utilizzabili nel caso concreto, che concause sopravvenute non siano state da sole sufficienti a determinare l'evento (come prevede l'art. 41, comma 2, c.p.).
*****
La causalità materiale (art. 40) va tuttavia distinta dalla causalità psichica (art. 42). Ciò significa che la responsabilità penale del medico può essere riconosciuta soltanto qualora sia stato possibile dimostrare altresì che
l’evento si è verificato a causa della "violazione di una regola cautelare", che abbracci nel suo raggio di tutela la prevenzione di quello specifico rischio – non consentito ! – di fatto concretizzatosi. E ciò a maggior ragione
nei reati omissivi impropri colposi, nei quali è alto – sul piano concreto dell’accertamento -
il rischio di interferenze e sovrapposizioni tra il profilo oggettivo ed il profilo soggettivo [6], poichè la condotta tipica risulta caratterizzata in primo luogo dall'obbligo giuridico di impedire l'evento ex art. 40 2°comma c.p., che assume portata generale, e poi dall’obbligo di diligenza discendente dalla regola cautelare ex art. 43 c.p. ; cosicché è la stessa autonomia concettuale della "causalità soggettiva" ad essere messa in discussione rispetto alla causalità materiale
[7].
La valutazione inerente all’astratta violazione del dovere oggettivo di diligenza e riguardante il profilo del superamento del rischio consentito dall’ordinamento non esaurisce tuttavia il rimprovero per colpa, che esige invece un giudizio quanto alla
diretta derivazione del disvalore di evento dal disvalore della condotta e quindi
la prova della particolarizzazione della colpa nel singolo evento [8].
Si vuol dire cioè che,
individuato l'atto terapeutico omesso che, secondo
un giudizio ex post, avrebbe potuto avere l'efficacia impeditiva dell'evento,
il dovere di compierlo alla stregua dell’agente modello, inteso come l’
homo eiusdem professionis et condicionis arricchito dalle eventuali maggiori conoscenze dell’agente concreto,
non è già costitutivo del rimprovero colposo implicando anche la necessaria considerazione del potere di agire, cioè della compatibilità del modus operandi proprio dell’agente modello con il contesto oggettivo e soggettivo nel quale l’agente concreto si è trovato ad intervenire. Scriveva a questo proposito Hans Welzel : “Con il precetto della diligenza oggettiva, il diritto sottopone a una valutazione oggettiva il controllo finalistico esercitato dall'agente, per vedere se essa tocchi la misura che rientra nelle possibilità di un uomo prudente posto nella situazione del soggetto. Sfuggono invece a una considerazione oggettiva la situazione concreta e i mezzi dell'agente, fra cui le sua capacità [...]. Solo in sede di colpevolezza si dovrà esaminare se l'agente poteva personalmente riconoscere e osservare la misura oggettiva di diligenza che l'ordinamento attendeva.”
[9].
La fisionomia della colpa medica che si è andata delineando
nella più recente giurisprudenza di legittimità – orientata, parrebbe, allo scopo di assicurare la massima tutela ai beni messi in gioco dal rischio dell’intervento sanitario - sembra avere assunto tuttavia connotati diversi rispetto a quelli rimasti fissati nell’evoluzione teorico-dogmatica della colpa come forma della colpevolezza.
Il criterio d’imputazione soggettiva dell’evento, per il quale il danno patito dalla vittima del reato deve essere la concretizzazione dello specifico rischio che la norma cautelare violata tendeva a prevenireeche sarebbe stato evitato se il soggetto agente avesse tenuto il comportamento conforme alla regola dettata dall’arte medica per prevenire quello specifico rischio concretizzatosi nell’evento, si pone
in radicale contrasto con l’orientamento manifestato dalla Corte della Nomofilachia incline a riconoscere il carattere “aperto” delle leges artis della medicina. Tendenza, quella indicata, che, se attinge il proprio fondamento nell’idea secondo la quale l'attività medica non è suscettibile di essere imbrigliata in protocolli o in
“standards” di comportamenti, perché si frammenta in una serie di atti tendenzialmente autonomi ed irripetibili che si inseriscono tra l’altro in un rapporto interpersonale e per lo più fiduciario tra medico e paziente, implica come inevitabile conseguenza, rispetto alla premessa data, che vi sia sempre la possibilità di trovare una regola cautelare "ulteriore" suggerita dalla particolarità del caso concreto, la cui osservanza avrebbe potuto evitare l'evento
[10].
Della predetta opzione ermeneutica è certamente espressione
la recentissima Sentenza numero 8254 del 2 marzo 2011 [11], con la quale la Quarta Sezione Penale della Cassazione, Relatore Brusco, ha posto il principio di diritto per il quale
possono essere chiamati a rispondere del delitto di omicidio colposo i medici che dimettono troppo sbrigativamente i loro pazienti dall'ospedale, i quali muoiano subito dopo per il repentino acuirsi della patologia cronica per la quale erano stati sottoposti a ricovero. La decisione muove dall’esplicito presupposto che il medico ha il dovere di anteporre la salute del malato a qualsiasi altra diversa esigenza e si pone rispetto ai beni giuridici tutelati (la vita e la salute del paziente) in una chiara posizione di garanzia; cosicchè non è tenuto al rispetto di direttive o protocolli, laddove essi siano in contrasto con le esigenze di cura del paziente, e non può andare esente da colpa ove se ne lasci condizionare, rinunciando al proprio compito.
Il rispetto delle "linee guida", quindi, non può costituire il parametro di riferimento rispetto al quale valutare la legittimità dell’operato del medico – o almeno non il solo, dovendosi tener conto di tutte le circostanze del caso concreto -, poiché è necessario attribuire, nella delibazione del caso stesso, la necessaria considerazione per un verso al diritto del malato di ottenere le prestazioni mediche più appropriate, per altro verso all'autonomia ed alla responsabilità del medico nella cura del paziente: altrimenti, aggiunge il giudice della legittimità, se le linee guida in uso negli ospedali “dovessero rispondere solo a logiche mercantili” il rispetto delle stesse “a scapito dell' ammalato, non potrebbe costituire per il medico una sorta di salvacondotto, capace di metterlo al riparo da qualsiasi responsabilità, penale e civile, o anche solo morale”.
La sostanza del dictum della Cassazione è che le linee guida possono costituire certamente il punto di riferimento della condotta medica, ma non sono idonee ad esaurirne il profilo di doverosa diligenza e perizia, poiché il medico, in vista della salvaguardia del bene che gli è affidato, ha l’obbligo giuridico e morale di adattare costantemente il suo sapere e la sua arte alla particolarità del caso concreto: l’insidia, però, di una teorizzazione della colpa medica fondata su regole cautelari aperte, modellate sulle peculiarità del caso concreto, certamente funzionale alla tutela della sicurezza sociale, è rappresentata tuttavia dalla dilatazione senza certezza dell'area della responsabilità del medico, privato di un’autentica possibilità di prevedere, e quindi di evitare, l’evento suscettibile di essergli addebitato!
[1]Il riferimento al protagonista del romanzo di Milan Kundera, pubblicato da Adelphi nel 1985, è di Rocco Blaiotta nel saggio di recente pubblicazione su “Cassazione Penale”, n. 10, Ottobre 2010,” Anche dopo le Sezioni Unite incertezze sulla disciplina penale delle patologie della relazione terapeutica”
[2] Il pensiero e le espressioni riportate sono di Gianfranco Iadecola, in “Violazione consapevole della regola del consenso del paziente e responsabilità penale”, in “ Diritto penale e processo”, n.11 – 2010, IPSOA.
[3] E’ questa la conclusione cui pervengono Angelo Fiori e Daniela Marchetti nel saggio a commento della sentenza dal titolo : “ I compiti della Guardia medica”, la causalità forte, il ragionevole dubbio.”, in Rivista Italiana di Medicina Legale, Giuffrè, 2009, Fasc.6, pagg. 1377.
[4]Pur nei limiti del presente intervento, non si può tuttavia tacere che la tesi abbracciata dalla Cassazione a Sezioni Unite nel Luglio 2002 è stata tenacemente avversata da Federico Stella che, in “ Giustizia e modernità.La protezione dell'innocente e la tutela delle vittime “ 3ª ed., Giuffrè, 2003, p. 350-366, ha sostenuto che una spiegazione causale dell’evento basata su una legge statistica con coefficiente percentualistico medio-basso incorrerebbe inevitabilmente nella fallacia del ragionamento basato sullo schema post hoc ergo propter hoc (fallacia della falsa causa): il che, aggiunge l’Autore, significherebbe, in sostanza, tirare a sorte sulla circostanza che le cose siano andate effettivamente in quel modo….soprattutto, perché «l'accusa, utilizzando frequenze medio-basse,non riuscirà mai a dimostrare che l'evento non dipende da altre cause, sia perché la gran parte di queste cause non è né conosciuta né conoscibile, sia perché - sotto un profilo pragmatico - appaiono insuperabili gli ostacoli relativi alla prova». Inoltre il rischio insito in una spiegazione causale ottenuta "per esclusione" è anche quello riassunto dal c.d. argumentum ad ignorantiam, che consiste nel ritenere vera una proposizione solo perché non si è dimostrato che sia falsa!
[5] Per tutte Cass. n. 43324/2005, Barghella; Cass. n. 41052/2005, Piscopo Alessandro ed altri;Cass. n.41176/2005, P.G. contro Maggi e altri; Cass. sez. 6^, n. 1518/1997 Rv. 208144; Cass. sez. 2^, n. 3777/1995, Rv. 203118.
[6]Cass. pen. Sez. IV, 18 / 3 / 2004, Fatuzzo, 2005 pag. 1533 ss. con nota di L. Gizzi, La concretizzazione del rischio tra causalità della condotta e causalità della colpa.
[7] In tal senso, A. Massaro, in “ Concretizzazione del rischio e prevedibilità dell’evento nella prospettiva della doppia funzione della colpa”, in Cassazione Penale, n. 12, Dicembre 2009.
[8] Marinucci, La colpa per inosservanza di leggi, Giuffrè 1965, pag. 275.
[9]H.Welzel, Il nuovo volto del sistema penale, in Jus, 1952, p.44;
[10] E’ questa l’opinione espressa di recente da F. Palazzo nel saggio “ Causalità e colpa nella responsabilità medica” ( Categorie dogmatiche ed evoluzione sociale ), pubblicato in Cassazione Penale, n. 3, Marzo 2010.
[11]Il testo integrale della motivazione della sentenza è leggibile sul quotidiano on-line d’informazione giuridica DIRITTOeGIUSTIZIA@, sulla pagina del 5/3/ 2011, con il titolo di redazione : “ Dimissioni precoci: è reato se il paziente muore subito dopo”.