ISSN 2039-1676


27 novembre 2013 |

Consenso "più informato" se la chirurgia è estetica

Nota a Cass., Sez. IV, 21 dic. 12 (29 gen. 13) n. 4541, Carlino, est. Massafra

1. Maggiore ampiezza informativa.

 

Quanto deve essere più ampia l'informazione al paziente se la chirurgia è estetica?

Con riguardo alla chirurgia estetica è proprio questo il punctum dolens: che cosa il chirurgo estetico, rispetto agli altri medici, deve dire di più al paziente durante il colloquio informativo. In giurisprudenza non è infatti in discussione se deve essere più ampia l'informazione in chirurgia estetica, ma quanto deve esserlo, quale sia cioè il quid pluris informativo.

La sentenza che si annota dà una risposta a questa domanda, con un principio di diritto che costituisce un novum della giurisprudenza della medicina.

Nella dottrina penalistica il consenso informato in chirurgia estetica è argomento trascurato quasi del tutto, nonostante le sue peculiarità, che possono contribuire una migliore comprensione del consenso informato in generale. E nonostante le dimensioni del fenomeno: in Italia sono circa 600.000 all'anno gli interventi di chirurgia estetica[1], oltre al c.d. turismo estetico, cioè gli italiani che vanno all'estero per sottoporsi all'intervento.

Partiamo dal se deve essere più ampia l'informazione, per poi passare al quanto.

Che l'informazione in chirurgia estetica debba essere più ampia è stato già affermato in Cassazione, sul presupposto che si tratta di trattamenti non terapeutici, ma solo finalizzati al miglioramento dell'aspetto fisico del paziente. In un recente passato ciò è stato affermato in un caso d'infiltrazioni di frammenti di hydrogel nel viso della paziente, senza successo estetico, ma anzi con successive consolidate formazioni di granulomi[2]. Si era sostenuta, anche con questa pronuncia, una maggiore ampiezza dell'informazione e ciò appunto per la finalità estetica del trattamento e come tale "non necessario se non superfluo". Davvero significativo appare a questo riguardo come la parola paziente fosse stata usata fra virgolette in motivazione.

La maggiore informazione in chirurgia estetica è stata diverse volte affermata anche dalla giurisprudenza civile[3], anche qui per l'affermata assenza di fine terapeutico.

La rilevanza giuridica del fine, se terapeutico o no, è palmare: solo se il fine non è terapeutico, il medico è tenuto ad una maggiore informazione.

In dottrina è stato sostenuto che anche la chirurgia estetica ha finalità terapeutica, perché funzionale al benessere psichico del paziente. La conseguenza che se ne trae e che rimarrebbe priva di giustificazione la distinzione giurisprudenziale fra la chirurgia estetica e gli altri settori della medicina[4].

L'opinione è condivisibile se si accetta la premessa e cioè che è terapeutico ogni atto medico volto al benessere psichico del paziente. L'opinione non è invece condivisibile se si ritiene che sia terapeutico solo l'atto medico volto alla cura di uno stato, fisico o psichico, nosograficamente qualificato.

Spesso alla base della chirurgia estetica vi è un disagio relazionale del paziente. Nel Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, IV ed., (c.d. DSM), comunemente usato dagli operatori psichiatrici a scopo diagnostico, il disagio relazionale non è inserito. Né è detto che un disagio relazionale necessariamente ci sia: la richiesta al chirurgo estetico è spesso solo dettata dal volersi sentire sessualmente più attraenti, come nella più frequente ipotesi di intervento e cioè la mastoplastica addittiva.

Vanno peraltro segnalati casi dove di certo non vi è nulla da curare, ma vi sono altre esigenze da soddisfare, ad es., professionali, come nei casi di attori, che si sottopongono ad una rinoplastica o ancora, ad es., esigenze sportive, come nel caso della maratoneta che si sottopone ad una mastoplastica riduttiva.

Peraltro non può svolgersi in astratto la distinzione tra fine terapeutico e fine puramente estetico. Ma solo in concreto, con riguardo al singolo caso. Ad es., una mastoplastica addittiva può essere terapeutica se svolta su una anoressica, perché ciò contribuisce a dare alla paziente un'immagine più sana del suo corpo, che può poi modificare in melius il suo rapporto con il cibo e quindi contribuire a curare il disturbo dell'alimentazione. O ancora può essere terapeutica l'asportazione di una vistosa formazione benigna sul viso su un paziente affetto da un disturbo antisociale, con conseguente riduzione dei tratti psichiatrici.

Sul punto coglie nel segno un precedente della Cassazione civile, che ha ritenuto terapeutico un intervento di eliminazione di tatuaggi osceni e ripugnanti, che avevano causato col tempo nel paziente uno stato di vera e propria malattia[5].

 

2. Il caso.

 

La sentenza in commento ha riguardo a una donna che vuole correggere l'eccessiva sporgenza degli incisivi superiori e si rivolge a chirurghi estetici. Questi le suggeriscono un prodromico intervento di osteotomia mandibolare, che viene svolto da un chirurgo maxillo-facciale. Successivamente all'intervento la paziente manifesta tumefazioni e gonfiori al viso, perdita di sensibilità al labbro inferiore, difficoltà respiratorie e persistente rinoliquorrea. Si procede penalmente per lesioni personali contro il chirurgo. Il giudizio di merito si conclude con l'assoluzione: si ritiene corretta l'esecuzione dell'intervento. Si afferma inoltre che la paziente aveva concentrato la sua attenzione più sugli aspetti estetici dell'intervento, che sui rischi dello stesso, dei quali era altamente probabile che in fase preparatoria fosse stata perfettamente edotta.

La Cassazione annulla la sentenza con rinvio. Asserisce che la Corte d'Appello non ha preso in considerazione le ragioni espresse dalla parte civile in una memoria con allegata consulenza tecnica, nella quale si sosteneva che le manovre chirurgiche si erano spinte al di là di quanto necessario per correzione degli incisivi e si sosteneva altresì la carente preparazione dell'intervento. Asserisce anche la Cassazione che l'estrema aleatorietà dell'intervento avrebbe dovuto sconsigliarne l'esecuzione.

Ma il punto decisamente più interessante della pronuncia è quello in materia di consenso informato. La Cassazione richiama la giurisprudenza sulla necessità in generale del consenso informato, distinguendo i trattamenti di chirurgia estetica da tutti gli altri trattamenti medici, in ragione del fine peculiare, appunto estetico di tale chirurgia. Questa ragione viene posta a fondamento di un più ampio dovere d'informazione.

Fin qui nulla di nuovo. La novità viene dopo, nel quantum dell'obbligo informativo, preteso vasto da includere un giudizio globale sulla persona una volta svolto l'intervento. Letteralmente viene espresso il seguente principio di diritto: "Attese le finalità tipiche della chirurgia estetica, ossia quelle di migliorare l'aspetto fisico del paziente e d'incrementare la positività della sua vita di relazione, incombe sul sanitario un dovere particolare d'informazione che va oltre la semplice enumerazione e prospettazione dei rischi, delle modalità e delle possibili scelte: la valutazione dei miglioramenti estetici deve estendersi ad un giudizio globale sulla persona come questa risulterà dopo l'intervento".

 

3. Critica.

 

Mai si era spinta la Cassazione a richiedere così tanta informazione.

Nella già citata pronuncia, sul caso di infiltrazioni nel viso della paziente, si era preteso decisamente meno, stabilendo che l'informazione non può essere generica e limitata al nome del prodotto che si vuole somministrare, ma deve involgere "gli eventuali effetti negativi della somministrazione in modo che sia consentito al "paziente" di valutare congruamente il rapporto costi-benefici del trattamento e di mettere comunque in conto l'esistenza e la gravità delle conseguenze negative ipotizzabili".

Non ci si era spinti, come invece nella sentenza in commento, fino ad imporre al chirurgo estetico un giudizio globale sulla persona una volta avutisi i miglioramenti estetici.

Dell'esigenza di una tale estensione dell'obbligo informativo, non c'è traccia nella Convenzione di Oviedo, che all'art. 5 II co., in termini generali, circoscrive l'informazione allo scopo e alla natura dell'intervento, alle sue conseguenze e rischi.

Né risulta che una tale estensione sia stata pretesa dalla giurisprudenza civile della Cassazione. In questa, in una sentenza risalente, ma che costituisce un caposaldo, si era asserito che l'informazione deve estendersi alla "[...] conseguibilità o meno, attraverso un determinato intervento, del miglioramento estetico perseguito dal cliente in relazione alle esigenze della sua vita professionale e di relazione"[6]. E quindi un semplice inquadramento del miglioramento estetico nel vissuto futuro, ma senza giudizi predittivi. Si tratta di giurisprudenza che viene anche attualmente richiamata[7].

Viene ovviamente da chiedersi: è possibile per il chirurgo estetico offrire al paziente pre-intervento, un giudizio globale sul paziente post intervento? E' possibile dire al paziente come risulterà dopo l'intervento?

Intuitivamente viene da rispondere no. Ma anche tecnicamente: i meccanismi di adattamento rispondono ad una molteplicità di incalcolabili fattori: la biografia personale del paziente, il suo contesto familiare, sociale, lavorativo ecc., gli eventi di vita, anche solo immediatamente successivi all'intervento[8].

Certamente più condivisibile appare quella Cassazione civile che ha ritenuto che il medico deve prospettare al paziente "[...] realisticamente le possibilità di ottenimento del risultato perseguito"[9].

E ora però l'irrealistico principio è stato posto. Il giudizio predittivo è stato richiesto al chirurgo estetico. Che fare? O si fa finta di nulla e si rischia, oppure si cerca in qualche modo di adeguarsi al dictat giurisprudenziale.

La prima ipotesi appare decisamente da sconsigliarsi, per ragioni fin troppo ovvie: si parla di chirurghi estetici che vogliono esercitare la professione, non di quelli che la vogliono vendere. Certo, sia i primi che i secondi sono chirurghi plastici, perché appunto plasmano le forme corporee. Tutti loro sono artisti, ma rimane comunque la differenza fra scultore e medico: il primo ha davanti a sé un corpo, il secondo invece ha davanti a sé un paziente.

Il chirurgo estetico non è solo un artista del corpo, ma è in primis un medico.

Il medico vuole il meglio per il paziente e cercherà quindi di adeguarsi al principio giurisprudenziale, che è pur sempre posto nell'interesse del paziente.

Ma come è possibile svolgere quel giudizio predittivo richiesto dalla Cassazione?

Posto che è impossibile un giudizio su come il paziente sarà dopo l'intervento, ciò che realisticamente si può fare sono solo ipotesi: potrà succedere a, b, c. Si pensi alla frequente ipotesi della paziente che chiede una mastoplastica addittiva, perché si vuole sentire sessualmente più attraente. Lo sarà davvero dopo l'intervento? Forse. Lo sarà solo se l'intervento produrrà in lei anche un cambiamento psichico, inteso come consapevolezza di essere sessualmente più attraente. Ma la paziente potrebbe anche percepire le protesi come due corpi estranei, che alterano la sua naturale femminilità. Scopre così che il "nemico" dell'attrazione sessuale non era il seno ritenuto troppo piccolo, ma qualcosa di più profondo. E tutto sarà stato inutile, oltre all'esposizione al rischio anesteseologico e chirurgico.

Non pare davvero che la giurisprudenza possa pretendere di più che la prospettazione di realistiche ipotesi. Una volta che la paziente ha svelato i motivi della sua richiesta, il chirurgo estetico altro non potrà fare che valutare con lei fino a che punto l'intervento possa essere risolutivo, informandola delle variabili, incalcolabili, ma comunque comunicabili. Pretendere di più significa ingessare la professione dei chirurghi estetici, produrne la paralisi.

Solo così pare potersi esprimere quel giudizio globale sulla persona richiesto dalla Cassazione. Non quindi un giudizio globale sulla persona come risulterà, ma come potrebbe risultare dopo l'intervento.

In questo giudizio, il chirurgo estetico ben potrà farsi coadiuvare da specialisti della psiche (psichiatri, psicoterapeuti, psicologi clinici). Il ricorso a questi ultimi appare davvero imprescindibile tutte le volte in cui il chirurgo avverta, durante il colloquio informativo, che il paziente manifesta sintomi psichiatrici. In modo particolare quando il paziente manifesta sintomi di dismorfofobia, cioè di alterata percezione di sé. In tal caso l'ipotizzata scissione con la realtà rende estremamente pericoloso l'intervento, senza una previa consulenza psichiatrica, per il rischio di scompenso postintervento.

Anche il paziente ha la sua parte. L'alleanza, anche se non la si ritiene terapeutica, ci deve comunque essere con il medico. Non può il paziente rifiutare l'intervento dell'esperto della psiche, se il chirurgo estetico glielo propone. E comunque può studiare un po' più sé stesso, per sapere che cosa davvero lo spinga a chiedere un certo intervento. Ad es., un intervento di smile lipt, che gli darà un sorriso permanente, come il jolly joker delle carte da ramino. Si dovrà chiedere se davvero sia il caso di porsi nella condizione di non potere più manifestare la propria tristezza, di dovere sorridere e allo stesso tempo piangere calde lacrime d'amore o di morte.

Ma è evidente che a questo punto il discorso cessa di essere giuridico: il corpo come un vestito che si può cambiare.

E tuttavia affascinante il dilemma se le rughe vadano eliminate, perché non conformi ad un certo modello sociale. O se invece vadano fieramente esibite: la firma del tempo sulla pelle, con quella serenità profonda che regala l'incondizionata accettazione del proprio corpo.

 


[1] http://www.jdm.it/interventi/chirurgia_estetica.html

[2] Cass. Sez. IV, 8 maggio (1 agosto 2008) n. 32423, Giachero, est. Brusco, in Giunta ed altri, Il diritto penale della medicina nella giurisprudenza di legittimità, Napoli, 2011

[3] Cass. Civ. Sez. 2, n. 4394, 08/08/1985 in Foro It., I, 1986, 121 e ss.; Cass. Civ. Sez. 3, n. 9705, 06/10/1997 in Ced, Rv. 508563; da ultimo nella giurisprudenza di merito: Corte d'Appello Roma, 10 gen. 2012 in Rivista Italiana di Medicina Legale e del Diritto in campo Sanitario, 2013, 1, 470 e ss., con nota di M. Galli, alla quale si rinvia anche per la ricca indicazione bibliografica in ambito civilistico.

[4] Bilancetti, La responsabilità penale e civile del medico, Padova, 2010, 582 e ss.

[5] Cass. Civ., Sez. III, 8 apr. 97, in Foro It., 1997, I, 1801.

[6] Cass. Civ. 4394/85 cit.

[7] Corte d'Appello Roma, 10 gen. 2012 cit.

[8] M. Amore, Dismorfofobia e chirurgia estetica, Relazione al Congresso "La Psichiatria di fronte alla nuove sfide delle scienze mediche", Bormio, 5-8 aprile 2013, minuto 41 della registrazione.

[9] Cass. Civ., Sez. 3, n. 12253, 03/12/1997, in Ced, Rv. 510665