15 dicembre 2010 |
Sulla responsabilità penale del medico per trattamento arbitrario nella giurisprudenza di legittimità
Relazione all'incontro di studio "Questioni nuove o controverse nella giurisprudenza della Corte di Cassazione", organizzato dall'Ufficio del Referente per la Formazione decentrata della Magistratura ordinaria della Corte d'Appello di Bologna il 29 novembre 2010
1. Le molteplici sfaccettature della tematica del trattamento medico arbitrario.
2. La responsabilità penale del medico per trattamento arbitrario su paziente adulto e capace.
2.1. La giurisprudenza di legittimità dal ‘caso Massimo’ (1992) al caso Volterrani (2002).
2.2. Le pronunce di legittimità del 2008: in particolare, le Sezioni unite ‘Giulini’.
2.3. Gli arresti della Suprema Corte del 2010.
1. Le molteplici sfaccettature della tematica del trattamento medico arbitrario
Con la locuzione ‘trattamento arbitrario’ ci si riferisce al caso in cui un medico pratichi un trattamento senza aver previamente acquisito il consenso del paziente.
Per un’analisi completa del tema della rilevanza penale del trattamento medico arbitrario, dovremmo prendere in considerazione:
i) l’ipotesi, per così dire, ‘base’, ossia quella del trattamento praticato su paziente adulto e pienamente capace di intendere e volere;
ii) l’ipotesi del trattamento praticato su paziente minore d’età, ma già dotato della maturità necessaria per prendere una decisione importante quale quella di sottoporsi (oppure no) a un trattamento medico;
iii) l’ipotesi, almeno in parte simile alla precedente, del trattamento praticatosull’interdetto per infermità di mente, dunque affidato a un tutore, o sul soggetto affidato a un amministratore di sostegno, che però dimostri di avere un grado di capacità di intendere e volere sufficiente per partecipare attivamente alla decisione terapeutica;
iv) l’ipotesi del trattamento praticato su un paziente in un primo tempo consenziente, ma che abbia in un secondo momento revocato il consenso (pensiamo al caso Welby);
v) ancora, l’ipotesi del trattamento praticato su paziente incapace al momento del trattamento, ma che abbia lasciato in precedenza dichiarazioni anticipate di trattamento (pensiamo al testimone di Geova che abbia dichiarato di non volersi sottoporre per nessun motivo, anche a costo della vita, all’emotrasfusione, o al soggetto che abbia dichiarato di non voler essere mantenuto in vita in stato vegetativo permanente, come nel caso Englaro);
vi) infine, il problema, trasversale a tutte le ipotesi ora enucleate, della determinazione delle informazione che il medico deve fornire al paziente quale presupposto per l’acquisizione di un consenso valido.
Naturalmente, una trattazione funditus di tutte queste ipotesi andrebbe ben oltre gli stretti margini del presente lavoro; pertanto, queste pagine saranno dedicate all’analisi del solo tema della rilevanza penale del trattamento medico arbitrario praticato su un paziente adulto e capace di intendere e di volere. La ragione di tale scelta è perlomeno duplice: innanzitutto, la soluzione del problema del trattamento su paziente capace che non abbia espresso il proprio consenso è preliminare allo studio di tutte le altre ipotesi ricordate in precedenza; in secondo luogo, proprio su questo specifico tema, dopo alcuni anni di silenzio, si sono pronunciate nel 2008 (con motivazione depositata nel gennaio 2009) le Sezioni unite e poi, ancora, per ben due volte nel 2010, la sezione IV della Suprema Corte.
2. La responsabilità penale del medico per trattamento arbitrario su paziente adulto e capace
Dal 1992 (anno della prima sentenza della Cassazione in tema di trattamento arbitrario) al 2010 si sono succedute una decina di pronunce, in cui la Corte ha espresso principi di diritto diversi, a volte anche in netto contrasto tra loro.
Vi è un punto, in verità, che mette d’accordo tutti i giudici: il riconoscimento dell’esistenza di un preciso dovere del medico di acquisire il consenso informato del paziente (ricordiamo, adulto e capace) al trattamento, preliminare all’esecuzione dello stesso. Su questo aspetto non mancano, peraltro, appigli normativi, puntualmente ricordati nelle premesse di quasi ogni pronuncia: l’art. 32 co. 2 Cost., che dispone che nessuno possa essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge; l’art. 33 della legge istitutiva del Servizio sanitario nazionale (l. 833/78) che prevede che “gli accertamenti ed i trattamenti sanitari sono di norma volontari”; l’art. 5 co. 1 della Convenzione di Oviedo sulla biomedicina del 1997 che recita: “Un intervento nel campo della salute non può essere effettuato se non dopo che la persona interessata abbia dato consenso libero e informato”; l’art. 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che, sancendo il diritto all’integrità fisica e psichica della persona, stabilisce che, nell’ambito della medicina e della biologia, deve essere rispettato (tra gli altri) “il consenso libero e informato della persona interessata, secondo le modalità stabilite dalla legge”; lo stesso art. 35 del Codice di deontologia medica, ai sensi del quale “il medico non deve intraprendere attività diagnostica e/o terapeutica senza l’acquisizione del consenso esplicito e informato del paziente”; e numerose altre disposizioni contenute in leggi speciali (in matera di procreazione medicalmente assistita, in materia di donazione di sangue, in materia di trattamento delle tossicodipendenze, ecc.).
Nessuna di queste disposizioni, però, sanziona penalmente l’inosservanza di un simile obbligo.
Ecco, quindi, che la (grossa) divergenza che si registra fra le diverse pronunce sta proprio nella individuazione delle (eventuali) conseguenze sul piano giuridico penale dell’inosservanza dell’obbligo del medico di informare e acquisire il consenso del paziente. Né pare, dalla lettura dei due ultimi arresti della Suprema Corte del 2010, che l’intervento, nel 2008, delle Sezioni Unite ‘Giulini’ abbia veramente messo la parola fine a questo contrasto giurisprudenziale (oltre che dottrinale).
Per meglio comprendere la giurisprudenza più recente è però opportuno riprendere, in estrema sintesi, i precedenti contrastanti, degli anni ’90-2000, che hanno determinato l’intervento delle Sezioni Unite del 2008.
2.1. La giurisprudenza di legittimità dal ‘caso Massimo’ (1992) al caso Volterrani (2002)
Nel 1992, la Cassazione, sez. V[1], confermò la condanna del chirurgo Massimo, pronunciata dai giudici di merito, per il reato di omicidio preterintenzionale, per aver il medico proceduto all’asportazione totale addominoperineale del retto di un’anziana paziente, in seguito deceduta per complicanze legate al trattamento eseguito, sebbene la paziente avesse prestato il proprio consenso all’esecuzione di un meno invasivo intervento di asportazione transanale di un adenoma villoso. Secondo i giudici della Suprema Corte, infatti, nella decisione della Corte d’Assise di Firenze[2] “correttamente viene configurata nella fattispecie l’antigiuridicità della condotta del chirurgo, che proprio contraddistingue la lesività dolosa. Al riguardo, viene rettamente ricordato il carattere generico che connota l’elemento psichico del reato di lesioni volontarie e segnala la sua compatibilità con l’atto medico, al pari di un qualsiasi atto lesivo della integrità fisica, posto che la legge non esige che il soggetto agisca per uno scopo o un motivo illeciti. Il fine che l’agente si propone è irrilevante per il dolo generico [...]. Il chirurgo ebbe, sotto il profilo intellettivo, la rappresentazione dell’evento lesioni e, sotto quello volitivo, l’intenzione diretta a realizzarlo, ebbe cioè consapevole volontà di ledere l’altrui integrità personale senza averne diritto e senza che ve ne fosse la necessità. Ed aveva cagionato una lesione da cui era derivata la malattia, un processo patologico che aveva determinato una menomazione funzionale (grave). Ciò è sufficiente per realizzare l’elemento psichico e quello materiale del reato in discorso”.
Attenta dottrina ha saputo ricostruire il processo logico dei giudici del caso Massimo – non sempre impeccabile – e far emergere come la ratio decidendi sia nel senso di ritenere che “ogni intervento chirurgico – o quanto meno ogni intervento chirurgico che produca immediatamente una apprezzabile, anche se transitoria, menomazione funzionale nell’organismo del paziente – cagiona una ‘malattia’ ai sensi delle norme in tema di lesioni personali, indipendentemente dall’esito finale – fausto o infausto – del trattamento stesso: e dunque anche laddove il trattamento, come purtroppo non avvenne nel caso di specie, si risolva in un complessivo miglioramento della salute del paziente”[3]. Solo muovendo da tale presupposto, infatti, i giudici possono essere pervenuti a ravvisare il dolo diretto delle lesioni personali (necessario per il configurarsi del delitto di omicidio preterintenzionale) in capo al medico che, operando la donna, chiaramente non poteva che essersi rappresentato e aver voluto un trattamento dall’esito fausto, ma che al tempo stesso non poteva non essersi rappresentato come certa la verificazione di una malattia quale inevitabile conseguenza del trattamento chirurgico stesso.
Ma l’orientamento espresso dalla sez. V della Cassazione in Massimo viene rimesso in discussione nel 2001 dalla sez. IV della Suprema Corte[4]. Il caso di specie è molto simile a Massimo: l’imputato, dott. Barese, ottenuto dalla paziente il consenso all’asportazione chirurgica di una cisti ovarica, nel corso dell’intervento, avvedutosi della presenza di una massa tumorale, decide di procedere all’asportazione di tale massa e dell’intero utero. Anche in questo caso, la paziente muore in conseguenza di complicanze legate all’intervento, ma il chirurgo non è condannato per omicidio preterintenzionale, bensì per omicidio colposo, avendo eseguito l’intervento in maniera imperita. La Cassazione conferma la sentenza, precisando che il fatto non può essere sussunto sotto la fattispecie di omicidio preterintenzionale mancando il requisito della “direzione” degli atti richiesto dall’art. 584 c.p. per il ‘delitto base’ di percosse o lesioni; il medico, in altre parole, quando ha eseguito l’intervento non ha agito con l’intenzione di cagionare una lesione alla paziente, sicché la conseguente morte non voluta della paziente può essergli imputata a titolo di omicidio colposo e non preterintenzionale.
Anche in questa occasione è stata la dottrina a enucleare la nozione di malattia adottata, ma non esplicitata, dalla Cassazione, individuando proprio nell’esclusione dell’omicidio preterintenzionale il segno rivelatore di una nozione che fa leva sull’esito infausto dell’intervento: se, infatti, anche in questo caso fosse stata adottata la medesima definizione di malattia presente in Massimo, i giudici non avrebbero potuto escludere il dolo intenzionale, posto che il medico agisce rappresentandosi e volendo produrre gli effetti tipici dell’intervento chirurgico, effetti che – secondo il primo orientamento della Corte – configurano una malattia anche se qualificabili, sul piano clinico, ‘fausti’; l’esclusione del dolo intenzionale, invece, presuppone che si abbia ‘malattia’ solo al verificarsi di conseguenze infauste per il paziente – ossia condizioni di salute complessivamente peggiori rispetto a prima dell’intervento – e, dunque, conseguenze non pienamente volute dal medico. E la conferma di ciò è offerta proprio dagli esempi addotti dalla Corte di responsabilità del medico per lesioni commesse con dolo intenzionale: “casi in cui la menomazione del corpo o della mente venga provocata, intenzionalmente, per scopi scientifici, di ricerca o per scopi esclusivamente estetici [...], casi di interventi demolitivi coscientemente inutili, casi in cui il medico proceda ad un’amputazione per curare una patologia che sa poter essere affrontata agevolmente con diversi mezzi terapeutici o quelli in cui si produca un’inutile e consapevole mutilazione dell’integrità fisica del paziente, e tutti i casi in cui il chirurgo o il medico, pur animato da intenzioni terapeutiche, agisca essendo conscio che il suo intervento produrrà una non necessaria menomazione dell’integrità fisica del paziente”.
In una sorta di periodica alternanza, l’‘orientamento Massimo’ viene espressamente recuperato da una nuova pronuncia proprio della sez. IV della Cassazione[5] che, confermando la sentenza di secondo grado, condanna il chirurgo Firenzaniper lesioni colpose, per aver effettuato un intervento di artroscopia diagnostica su una paziente affetta da gonalgia al ginocchio sinistro, erroneamente operando il ginocchio destro, dal quale aveva asportato il menisco, e ciò sebbene – per puro caso – l’operazione si fosse comunque rivelata utile e correttamente eseguita, in quanto anche il ginocchio operato evidenziava una patologia che rendeva indicata l’asportazione del menisco.
In questo caso i giudici chiariscono senza mezzi termini che in caso di trattamento chirurgico eseguito senza il consenso del paziente “il delitto di lesioni personali ricorre nel suo profilo oggettivo, poiché qualsiasi intervento chirurgico, anche se eseguito a scopo di cura e con esito ‘fausto’, implica necessariamente il compimento di atti che nella loro materialità estrinsecano l’elemento oggettivo di detto reato, ledendo l’integrità corporea del soggetto. Su quest’ultimo punto, si sottolinea che il reato di lesioni sussiste anche quando il trattamento eseguito a scopo terapeutico abbia esito favorevole, e la condotta del chirurgo nell’intervento sia di per sé immune da ogni addebito di colpa, ‘non potendosi ignorare il diritto di ognuno di privilegiare il proprio stato di salute’ (v. così, in termini, la citata sez. V, 21 aprile 1992, Massimo)”. La condanna per colpa, anziché per dolo, dunque, è dovuta al fatto che il medico aveva operato per errore un ginocchio diverso da quello che era stato oggetto del consenso al trattamento espresso dalla paziente: sebbene non esplicitato nella motivazione, pare dunque che i giudici della Suprema Corte abbiano fatto applicazione nel caso di specie della disciplina della cd. ‘causa di giustificazione putativa’, ex art. 59 ult. co. c.p.
Il tema del trattamento medico eseguito senza il consenso del paziente viene risolto dalla Cassazione in maniera, per così dire, “tranchant” con la sentenza 29 maggio 2002, Volterrani[6]. Il caso di specie è molto simile a quello del ‘caso Massimo’ – il dott. Volterrani, ottenuto il consenso dal paziente alla rimozione chirurgica di un’ernia ombelicale, durante l’intervento riscontra una massa tumorale e procede alla sua rimozione, intervento ben più invasivo e dalle conseguenze letali –, ma con un esito processuale opposto, essendo il medico assolto dall’accusa di omicidio preterentenzionale. In questa pronuncia, i giudici della Corte, confermando la decisione della Corte d’Assise d’Appello di Torino, 3 ottobre 2001, formulano il principio dell’intrinseca liceità del trattamento medico-chirurgico, a prescindere dall’esito fausto o infausto dello stesso, così escludendo in ogni caso che il trattamento medico praticato in assenza del consenso del paziente leda il bene dell’integrità fisica e, dunque, integri il reato di lesioni personali dolose (e di omicidio preterintenzionale in caso di decesso del paziente). Secondo il Supremo Collegio, infatti, quando il medico esegue correttamente un trattamento pone in essere un’attività che corrisponde all’interesse dello Stato di tutelare il diritto fondamentale alla salute, riconosciuto dall’art. 32 Cost., un’attività, peraltro, autorizzata, disciplinata e agevolata dallo Stato con la creazione, lo sviluppo e il perfezionamento degli organismi, delle strutture e del personale occorrente; dunque, secondo la Corte “quando il giudice di merito riconosce, in concreto, il concorso di tutti i requisiti occorrenti per ritenere l’intervento chirurgico eseguito con la completa e puntuale osservanza delle regole proprie della scienza e della tecnica medica deve, solo per questa ragione, anche senza fare ricorso a specifiche cause di legittimità codificate, escludere comunque ogni responsabilità penale dell’imputato, cui sia stato addebitato il fallimento della sua opera”.
Secondo quanto statuito dalla Suprema Corte in Volterrani, pertanto, la volontà del paziente non ha alcuna rilevanza giuridico-penale, se non – come precisa incidentalmente la Corte – nel caso di espresso dissenso del paziente a sottoporsi ad un determinato trattamento: anche in tal caso, però, la responsabilità del medico che dovesse eseguire comunque il trattamento rifiutato dal paziente non sarebbe a titolo di lesioni personali dolose, ma – ricorrendone tutti i requisiti di fattispecie – a titolo di violenza privata.
Tuttavia tale orientamento – sebbene rassicurante per l’interprete, perché lo toglieva dall’imbarazzo di spiegare come fosse possibile equiparare in certi casi ‘il bisturi del chirurgo al coltello del criminale’ chiamando i medici a rispondere del delitto di lesioni personali – non ha trovato seguito presso la giurisprudenza delle sezioni penali della Corte di Cassazione.
2.2. Le pronunce di legittimità del 2008: in particolare, le Sezioni unite ‘Giulini’
In una recente sentenza della sez. IV, 16 gennaio 2008, Huscher[7], la Corte di Cassazione richiama non il precedente Volterrani, bensì – espressamente – Barese. Secondo l’accusa, i medici della divisione di chirurgia di un ospedale romano avevano cagionato lesioni volontarie a taluni pazienti eseguendo trattamenti non indicati o particolarmente invasivi, in situazioni in cui vi erano alternative terapeutiche più ‘lievi’, al solo fine di testare o pubblicizzare nuove tecnologie chirurgiche – naturalmente senza informare i pazienti dell’esistenza di simili alternative terapeutiche –. I medici erano, altresì, chiamati a rispondere del delitto di omicidio preterintenzionale, in quanto, secondo l’accusa, alcuni pazienti sarebbero morti in conseguenza degli interventi chirurgici subiti.
La Cassazione, accogliendo in parte il ricorso della Procura della Repubblica, cassa con rinvio la sentenza di non luogo a procedere pronunciata dal g.u.p., formulando in modo chiaro a quale principio di diritto debba adeguarsi il giudice per decidere circa il rinvio a giudizio degli imputati. Nel far ciò, i giudici del Supremo Collegio prendono le distanze tanto dall’orientamento espresso dalla Cassazione nel caso Massimo – su cui invece si fonda nel caso di specie l’impostazione accusatoria –, quanto dall’orientamento ‘Volterrani’ che, affermando che l’attività medica si autolegittima, vorrebbe togliere rilievo giuridico al consenso del paziente. Viene, invece, espressamente accolta dal Collegio l’impostazione formulata in Barese, che conduce ad escludere la responsabilità del medico per il reato di lesioni personali dolose e, in caso di morte del paziente, per omicidio preterintenzionale, nel caso in cui il medico decida unilateralmente di praticare un trattamento non consentito dal paziente e dall’esito infausto; in tali casi, continua la Corte, se l’esito infausto è da attribuirsi a scelte terapeutiche colposamente errate, il medico dovrà essere chiamato a rispondere di lesioni colpose e di omicidio colposo, mentre solo nel caso in cui l’esito infausto sia stato previsto e voluto il medico sarà chiamato a rispondere a titolo di dolo.
Anche in questo caso, come già in Barese, pertanto, i giudici implicitamente fanno propria una nozione di malattia idonea a ricomprendere solo gli esiti infausti di un trattamento, normalmente non voluti dal medico – se non altro non voluti nel senso proprio che il concetto di ‘volontà’ assume nel dolo diretto richiesto dalla fattispecie ex art. 584 c.p. – senza che il consenso del paziente giochi alcun ruolo nella qualificazione giuridica del fatto del medico: è la Corte a ricordarci, infatti, che la responsabilità per colpa nel caso di esito infausto dovuto a negligenza del medico non è certo esclusa dal consenso del paziente.
Ma il 2008 è un anno ‘caldo’ per la materia che qui ci occupa. Dopo la sentenza Huscher e prima dell’intervento delle Sezioni unite, registriamo altri due arresti della Suprema Corte.
In Cass., Sez. IV, 24 giugno 2008, n. 37077, M.D.[8], la Suprema Corte affronta il caso di un medico accusato di aver somministrato alla propria paziente, per curarne l’obesità, dosi massicce di un farmaco specifico per la cura dell’epilessia, utilizzandolo in via sperimentale come cura per l’obesità in ragione dei suoi effetti collaterali anoresizzanti (cd. uso ‘off label’ del farmaco[9]). La paziente, però, aveva accusato sonnolenza, incubi, emicrania, depressione, eccitabilità, allucinazioni, calcolosi renale e disturbi oculari, anche questi effetti collaterali della somministrazione, in dosi massicce, del farmaco, ma di cui la paziente non era stata informata. Per tali fatti il medico veniva condannato in primo grado per il reato di lesioni personali aggravate dolose, mentre il giudice d’appello, escluso che fosse stata fornita la prova del dolo, derubricava il fatto a lesioni personali colpose, imputando al medico imprudenza nella scelta del farmaco e negligenza nella determinazione del dosaggio.
La Suprema Corte conferma, sul punto, la decisione di secondo grado. Questa la scansione logica della motivazione: innanzitutto, la Corte prende le distanze da ‘Volterrani’, statuendo che il consenso del paziente costituisce un “presupposto di liceità del trattamento”, tanto da escludere che il medico possa intervenire senza il consenso o malgrado il dissenso del paziente. Fissato tale principio, la Corte però esclude con decisione che “dall’intervento effettuato in assenza di consenso o con un consenso prestato in modo invalido possa di norma farsi discendere la responsabilità del medico a titolo di lesioni volontarie ovvero, in caso di esito letale, a titolo di omicidio preterintenzionale. Ciò in quanto il sanitario […] si trova ad agire, magari erroneamente, ma pur sempre con una finalità curativa, che è concettualmente incompatibile con il dolo delle lesioni”. Fin qui la Corte sembra recuperare gli argomenti del precedente del 2001, Barese, che aveva escluso la responsabilità per omicidio preterintenzionale del medico non ravvisando la volontà diretta a ledere (richiesta dall’art. 584 c.p.). Ma in questo caso la Corte fa un passo in più, affermando che “è evidente che la valutazione del comportamento del medico, sotto il profilo penale, quando si sia in ipotesi sostanziato in una condotta vuoi omissiva, vuoi commissiva dannosa per il paziente, non ammette un diverso apprezzamento a seconda che l’attività sia stata prestata con o in assenza di consenso”. In sintesi: l’acquisizione del consenso è un obbligo per il medico la cui inosservanza è del tutto indifferente al diritto penale.
Non è chiaro, però, come la Corte pervenga a tale conclusione: l’accento posto sulla ‘finalità terapeutica’ che guida il medico, infatti, può ben escludere il dolo diretto e intenzionale di lesioni – come già argomentato in Barese – ma non è affatto incompatibile col dolo eventuale. Il delitto di lesioni personali dolose, infatti, è fattispecie a dolo generico, per la cui realizzazione non è necessaria alcuna finalità ‘malvagia’, potendo ben essere commesso, per esempio, anche da chi agisca ‘per gioco’, purché si sia rappresentato come probabile il verificarsi dell’evento e ne abbia accettato il rischio. E a maggior ragione la previsione dell’evento e l’accettazione del rischio del suo verificarsi sembrano ravvisabili in capo al medico, il quale senz’altro conosce gli effetti collaterali di un farmaco – soprattutto se, come nel caso di specie, somministrato ad alti dosaggi proprio per accentuare tali effetti collaterali! – e accetta scientemente il rischio del loro verificarsi pur di perseguire, per il bene del paziente, la finalità terapuetica.
Ancora nel 2008, a pochi mesi dalla pronuncia delle Sezioni Unite, la Sez. IV della Cassazione (sent. 6 novembre 2008 n. 45126, G.F.[10]) si pronuncia nuovamente sul fatto di un chirurgo che, nel rimuovere un’ernia discale, aveva cagionato una lesione permanente al paziente per il verificarsi di complicanze operatorie, legate a una particolare sindrome da cui era affetto l’uomo (cd. della ‘cauda equina’), da lui previste prima dell’intervento ma non illustrate al paziente al momento dell’acquisizione del consenso. La Corte conferma la condanna per il reato di lesioni colpose pronunciata dai giudici di merito.
La motivazione è tutta centrata sull’accertamento della negligenza del medico, accusato di avere scelto un trattamento non indicato per un paziente affetto da quella particolare patologia.
Al momento di valutare la rilevanza dell’assenza del consenso (viziato dal fatto che al paziente non erano stati rappresentati i rischi dell’esecuzione del trattamento per una persona affetta da quella particolare patologia), la Corte sviluppa un percorso argomentativo diverso da quello che troviamo nei precedenti esaminati finora (sebbene nella motivazione si trovino espressi richiami a ‘Firenzani’ e a ‘Huscher’): il Supremo Collegio, infatti, riconosciuta la natura di “presupposto di liceità del trattamento medico” del consenso del paziente, fa derivare, dalla mancanza o dalla invalidità dello stesso, la rilevanza penale del trattamento, “in quanto compiuto in violazione della sfera del soggetto e del suo diritto di decidere se permettere interventi estranei sul proprio corpo”.
La motivazione – invero un po’ criptica della sentenza – sembra riecheggiare la teoria dottrinale del ‘rischio consentito’, in base alla quale il consenso del paziente produce l’effetto di escludere il rimprovero per colpa al medico che, agendo nel rispetto delle leges artis, abbia cionondimeno cagionato al paziente lesioni personali, mentre la mancata acquisizione del consenso fa sì che sul medico gravi la responsabilità per qualsiasi esito infausto derivi al paziente dall’intervento, anche se tale esito non sia immediatamente imputabile a negligenza, imperizia o imprudenza del sanitario[11]. Nel caso di specie, peraltro, pare dalla ricostruzione del fatto che la condotta del medico non sia stata nemmeno del tutto diligente.
Finalmente, sul finire del 2008, le Sezioni Unite fanno sentire la loro voce (Cass., Sez. un., 18.12.08-21.1.09, n. 2437, Giulini)[12]. Il fatto riguarda una donna, sottoposta a un “intervento di laparoscopia operativa e, senza soluzione di continuità, a salpingectomia che determinò l’asportazione della tuba sinistra. Alla stregua della ricostruzione operata dai giudici del merito, l’intervento demolitorio risultò essere stato una scelta corretta ed obbligata, eseguita nel rispetto della lex artis e con competenza superiore alla media; tuttavia, secondo l’assunto accusatorio, senza il consenso validamente prestato dalla paziente, informata soltanto della laparoscopia. Secondo i primi giudici, infatti, già in fase di programmazione della laparoscopia erano prevedibili l’evoluzione di tale intervento in operativo e l’elevata probabilità di asportazione della salpinge, la non opportunità dell’interruzione dell’intervento e la mancanza del pericolo di vita e, quindi, del presupposto dello stato di necessità, ai fini dell’acquisizione del consenso”.
Emerge subito un’importante differenza fra il caso all’esame delle Sez. un. e i casi affrontati negli anni precedenti dalle sezioni semplici della Corte: in questo caso ci troviamo in presenza di un trattamento medico eseguito correttamente e dall’esito clinicamente ‘fausto’ (perlomeno secondo la valutazione della Corte); la rimozione del salpinge, infatti, pur determinando nella donna la diminuzione della capacità di procreare, era la soluzione medicalmente più indicata per quella patologia e viene eseguita a regola d’arte dal chirurgo.
Il giudice di prime cure qualificava il fatto come violenza privata, qualificazione confermata dalla Corte d’Appello che contestualmente rilevava la prescrizione del reato; la sentenza è impugnata dallo stesso imputato.
La Sez. V della Corte rimette la decisione sui ricorsi alle Sez. un., ritenendo pregiudiziale la soluzione di due quesiti: “se abbia o meno rilevanza penale” e, nel caso di risposta affermativa al primo quesito, “quale ipotesi delittuosa configuri la condotta del sanitario che, in assenza di consenso informato del paziente, sottoponga il medesimo ad un determinato trattamento chirurgico nel rispetto delle ‘regole dell’arte’ e con esito fausto”.
Quanto al primo aspetto – osserva la Sezione rimettente – “si registrano due diversi orientamenti. Secondo una parte della giurisprudenza, infatti, il consenso del paziente fungerebbe da indefettibile presupposto di liceità del trattamento medico, con la conseguenza che la mancanza di un consenso opportunamente ‘informato’ del malato, o la sua invalidità per altre ragioni, determinerebbe la arbitrarietà del trattamento medico e la sua rilevanza penale, salvo le ipotesi in cui ricorra lo stato di necessità ovvero se specifiche previsioni di legge autorizzino il trattamento sanitario obbligatorio ai sensi dell’art. 32 Cost. Secondo altro orientamento, invece, in ambito giuridico, in genere, e penalistico, in particolare, la volontà del paziente svolge un ruolo decisivo soltanto quando sia espressa in forma negativa, essendo il medico – allo stato del quadro normativo attuale – ‘legittimato’ a sottoporre il paziente affidato alle sue cure al trattamento terapeutico che giudica necessario alla salvaguardia della salute dello stesso anche in assenza di un esplicito consenso, con conseguente irrilevanza del problema della esistenza di eventuali scriminanti, in quanto è da escludere ‘in radice’ che la condotta del medico che intervenga in mancanza di consenso informato possa corrispondere alla fattispecie astratta di un reato”.
Quanto al secondo quesito, concernente il tipo di reato eventualmente ipotizzabile, la Sezione rimettente osserva che: “secondo una prima interpretazione il medico, che intervenga su un paziente in assenza di congruo interpello, risponde di lesioni volontarie, pur quando l’esito dell’intervento sia favorevole. Ciò in quanto qualsiasi intervento chirurgico, anche se eseguito a scopo di cura e con esito fausto, implica necessariamente il compimento di atti che nella loro materialità integrano il concetto di malattia di cui all’art. 582 cod. pen.; precisandosi che il criterio di imputazione soggettiva dovrà essere invece colposo, qualora il sanitario agisca nella convinzione, per negligenza o imprudenza, della esistenza del consenso. Secondo altro indirizzo, invece, l’arbitrarietà dell’intervento – che non potrà mai realizzare il delitto di lesioni, essendo il trattamento medico chirurgico volto a rimuovere e non a cagionare una malattia – può assumere rilevanza penale solo come attentato alla libertà individuale del paziente e rendere perciò configurabile esclusivamente il delitto di violenza privata”.
Al primo quesito, le Sez. unite danno risposta affermativa: escludono, cioè, che il trattamento medico si ‘autolegittimi’ e aderiscono all’orientamento che fonda nel consenso del paziente il presupposto di liceità del trattamento, senza peraltro identificare tale consenso con l’istituto di cui all’art. 50 c.p. Ma al contempo rilevano come sul piano penale assuma rilevanza solo l’espresso dissenso del paziente a sottoporsi a un determinato trattamento. E sulla scorta della soluzione data al primo quesito rispondono al secondo, escludendo che il trattamento arbitrario con esito fausto possa integrare la fattispecie di lesioni personali.
Questi, in sintesi, i passaggi logici della motivazione[13]:
i) l’attività medica trova la sua base di legittimazione nelle norme costituzionali che tratteggiano il bene salute come diritto fondamentale dell’individuo; tuttavia, dalla giurisprudenza della Corte costituzionale (sent. 438/08), dalle fonti internazionali (Convenzione sui diritti del fanciullo, Convenzione di Oviedo, Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea) e da leggi dell’ordinamento (legge sulla donazione di emoderivati, legge sulla procreazione medicalmente assistita e legge istitutiva del Servizio sanitario nazionale) ricaviamo che il consenso informato deve essere considerato un principio fondamentale in materia di tutela della salute; ne consegue che il “presupposto indefettibile che giustifica il trattamento sanitario va rinvenuto nella scelta, libera e consapevole, - salvo i casi di necessità e di incapacità di manifestare il proprio volere – della persona che a quel trattamento si sottopone”;
ii) stante tale premessa, il trattamento medico in assenza di consenso dovrebbe essere considerato per ciò solo “invasivo del diritto della persona di prescegliere se, come, dove e da chi farsi curare”. Ma da tale illiceità non può farsi discendere automaticamente la penale rilevanza del fatto del medico: se infatti è pacifica la penale rilevanza del trattamento praticato contro la volontà del paziente (anche quando abbia esito fausto), non altrettanto può dirsi del trattamento praticato in assenza del consenso (come nel caso di specie);
iii) al riguardo, la prima ipotesi di reato che le Sez. un. prendono in esame è la violenza privata. Ipotesi che escludono per mancanza, nel fatto del medico che pratichi il trattamento arbitrario, sia dell’elemento della violenza, sia dell’elemento della costrizione: l’unica forma di ‘violenza’ praticata dal medico sul paziente, infatti, consiste nell’esecuzione del trattamento, che nell’‘ipotesi d’accusa’ ricopre già il ruolo dell’evento della violenza privata e dunque non può rappresentare al tempo stesso anche la condotta; non può poi esservi costrizione su un soggetto anestetizzato (qual è il paziente che si sottopone al trattamento), difettando quel requisito di contrasto di volontà fra soggetto attivo e soggetto passivo che costituisce presupposto indefettibile della costrizione;
iv) esclusa la sussumibilità nella fattispecie di violenza privata, le Sez. un. procedono dunque a vagliare l’ipotesi della sussumibilità del trattamento arbitrario nel delitto di lesioni personali. E correttamente muovono dall’analisi del fatto tipico, concentrando da subito l’attenzione sul requisito della ‘malattia’, evento del delitto di lesioni, che definiscono adottando la più moderna nozione ‘funzionalistica’ elaborata dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui malattia non è qualsiasi alterazione anatomica dell’organismo, bensì “un’alterazione da cui deriva una limitazione funzionale o un significativo processo patologico o una compromissione, anche non definitiva ma significativa, di funzioni dell’organismo”[14]: se questo è l’evento del delitto di lesioni, concludono le Sez. un., allora il trattamento che abbia esito fausto non integrerà mai il fatto tipico del delitto, perché all’esito del decorso postoperatorio non si avrà alcuna alterazione funzionale significativa nell’organismo. È infatti a quest’ultimo momento che il giudice deve guardare e non al momento dell’incisione chirurgica per valutare se via sia o meno una ‘malattia’ nel senso proprio dell’art. 582: ciò è imposto dall’oggetto giuridico del delitto di lesioni, la salute, che non può dirsi leso qualora il trattamento sia esitato nella guarigione del paziente;
v) su quest’ultimo punto le Sez. un. si soffermano, rilevando l’esistenza di un orientamento dottrinale che sottolinea come il concetto moderno di salute non possa esaurirsi nella valutazione clinica dell’assenza di patologie, ma si identifichi piuttosto con la percezione che l’individuo ha di sé e del proprio stato, tanto che in certi casi il giudizio medico e quello individuale possono anche divergere, con la conseguenza che anche un esito fausto sul piano strettamente clinico possa ben integrare l’evento ‘malattia’ del delitto di lesioni personali. Sul punto le Sez. un. sono tranchant: tale interpretazione dottrinale, per quanto pregevole, ha valore solo in prospettiva de iure condendo; oggi il concetto di ‘malattia’ e di ‘tutela della salute’ non possono che ricevere una lettura ‘obiettiva’;
vi) infine, ma solo obiter, le Sez. un. fanno un cenno all’ipotesi del trattamento arbitrario con esito infausto, escludendone la sussumibilità nel delitto di lesioni personali dolose: la finalità terapeutica che guida il medico, infatti, secondo la Corte è in radice incompatibile col dolo delle lesioni. La statuizione, per quanto proveniente dal massimo organo giurisdizionale, non convince: anche aderendo alla posizione delle Sez. un. e della giurisprudenza maggioritaria che qualifica come malattia solo l’esito infausto del trattamento, infatti, la finalità terapeutica può al più essere considerata incompatibile col dolo diretto delle lesioni personali, ma non col dolo eventuale, sufficiente per fondare una responsabilità ai sensi dell’art. 582 (o 583) c.p.
2.3. Gli arresti della Suprema Corte del 2010
Come anticipato, nel 2010, la Corte di Cassazione è tornata due volte sul tema delle conseguenze penali del trattamento medico arbitrario su paziente capace (v. le pronunce qui allegate in calce).
In Cass., Sez. IV, 20 aprile 2010, n. 21799, P.G.[15], la Corte affronta il caso di un medico che aveva praticato un intervento agli occhi del proprio paziente con la tecnica PRK, intervento dal quale derivava un indebolimento permanente della vista dell’uomo. Nel corso del giudizio di merito, era stato accertato che il paziente aveva prestato il consenso all’effettuazione dell’intervento con la tecnica Lasik e aveva invece opposto un netto rifiuto alla proposta del medico di procedere con la tecnica PRK.
Il PM chiedeva la condanna per il delitto di lesioni personali dolose aggravate; il Gup, invece, a seguito di giudizio abbreviato, derubricava il fatto a lesioni colpose, ravvisando la colpa in una serie di omissioni colpevoli da parte dello specialista (in particolare, nella mancata effettuazione di una serie di esami preoperatori) e ne rilevava l’intervenuta prescrizione: il medico infatti – questo l’argomento a base della decisione del Gup di derubricare il fatto – agendo per scopi terapuetici, non vuole cagionare lesioni al paziente.
Avverso tale sentenza il PM ricorreva direttamente in Cassazione, rilevando:
i) che il giudice del merito, affermando l’incompatibilità della finalità terapeutica che muove il medico col dolo delle lesioni, aveva di fatto ‘trasformato’ un delitto a dolo generico, le lesioni personali, in delitto a dolo specifico, ricercando una ‘finalità malvagia’ che la norma in realtà non richiede;
ii) che anche adottando la nozione più restrittiva di ‘malattia’ fatta propria dalla giurisprudenza più recente, quale processo patologico che determina un’apprezzabile alterazione funzionale dell’organismo, è innegabile che dalla ferita chirurgica derivi una malattia, quale che sia l’esito, fausto o infausto, dell’intervento;
iii) che nel fatto del medico che agisce senza consenso non si ha certo un’aggressione alla salute, ma cionondimeno si ha un’aggressione all’incolumità individuale del paziente, ed è questo il bene giuridico tutelato dalla fattispecie di lesioni.
La Sezione IV della Cassazione, dopo un’iniziale infruttuoso tentativo di rimettere la questione alle Sezioni unite, decide nel senso di accogliere il ricorso del PM. Questi gli snodi del percorso logico della motivazione della Corte:
i) la Corte rileva subito la diversità del caso di specie da quello affrontato dalle ‘Sezioni unite Giulini’ del 2008: in questo caso, infatti, ci troviamo in presenza di un trattamento con esito infausto. Tuttavia, rileva la Corte, le tematiche da affrontare sono le medesime: da un lato, se sia da riconoscere rilevanza penale all’atto terapeutico eseguito in assenza del consenso del paziente; dall’altro, quale definizione dare al concetto di malattia rilevante ai fini dell’applicazione del delitto di lesioni personali;
ii) anche in questo caso – come abbiamo rilevato essere ormai pacifico nella giurisprudenza di legittimità – la Corte individua nel consenso del paziente il necessario presupposto di legittimità del trattamento, senza identificarlo con l’istituto di cui all’art. 50 c.p.;
iii) il riconoscimento, in capo al paziente, del diritto a esprimere il consenso al trattamento che il medico gli propone implica il riconoscimento dello speculare diritto del paziente di rifiutare di sottoporsi a un trattamento: conclusione, questa, imposta dall’affermazione del diritto del singolo alla tutela della propria salute (art. 32 Cost.), che comprende anche il diritto alla libera disposizione della stessa da parte dell’individuo;
iv) deve essere respinta ogni interpretazione che ponga sostanzialmente nel nulla l’affermazione del diritto al consenso/rifiuto del paziente, ad esempio col far leva sulla ‘finalità curativa’ perseguita dal sanitario quale insuperabile ostacolo alla sussumibilità del fatto del medico nella fattispecie di lesioni personali dolose;
v) date tali premesse, la Corte statuisce che “si deve ritenere insuperabile l’espresso, libero e consapevole rifiuto eventualmente manifestato dal paziente, ancorché l’omissione dell’intervento possa cagionare un pericolo di un aggravamento dello stato di salute dell’infermo e perfino la sua morte. In tal caso, qualora l’esito dell’intervento, effettuato con il dissenso del paziente anche limitatamente alle modalità esecutive, sia risultato ‘infausto’, quanto alle conseguenze penali scaturenti da detto intervento terapeutico (escluso anche che la fattispecie possa rifluire nella previsione dell’art. 610 c.p.), viene in rilievo il disposto dell’art. 582 c.p.”;
vi) quanto all’evento, infatti, alla luce della nozione funzionalistica di malattia accolta dalle stesse ‘Sezioni unite Giulini’ e della necessità di ‘guardare’ non all’intervento in sé, ma agli esiti dello stesso fissata da quelle stesse Sezioni unite, si ha alterazione funzionale dell’organismo in caso di esito infausto;
vii) quanto al dolo di lesioni – che le Sezioni unite, ragionando obiter, escludevano ritenendolo incompatibile con la finalità terapeutica che guida il sanitario –, la Corte ritiene che possa ravvisarsi in presenza di comportamenti del medico “assolutamente anomali e distorti e comunque dissonanti rispetto alla finalità curativa che deve caratterizzare il proprio approccio terapeutico” (sono i casi, esemplifica la Corte, in cui il medico opera nella consapevolezza di provocare un’inutile menomazione);
viii) nel caso di specie, rileva la Corte, l’aver omesso il medico i necessari esami preoperatori e l’aver acquisito il consenso per un trattamento (Lasik) che sapeva non poter essere effettuato non disponendo la clinica dell’attrezzatura necessaria sono manifestazioni di una “condotta talmente anomala da esorbitare di gran lunga dai canoni della mera imprudenza, imperizia e negligenza”;
ix) e pertanto formula – espressamente dichiarandosi in linea con la decisione delle ‘Sezioni unite Giulini’ – questo principio di diritto: “la condotta del medico che intervenga con esito infausto su paziente che abbia espresso il dissenso nei confronti del tipo d’intervento chirurgico rappresentatogli deve essere qualificata come dolosa e non come colposa”.
L’impressione, a ben vedere, è che la Corte, in questo caso, al di là della dichiarata adesione al precedente delle Sezioni unite, formuli un principio di diritto che da quel precedente, in realtà, si discosta: le Sezioni unite, infatti, seppur obiter, escludono in radice la compatibilità del fine terapeutico col dolo delle lesioni; la Corte, invece, nell’analisi del caso di specie, per evidenziare il dolo del medico, mette in luce profili propri del dolo eventuale senza escludere, pare – ma sul punto la motivazione è ermetica – che il medico abbia pure agito per fini terapeutici.
Una chiara conferma della giurisprudenza ‘Barese’ è offerta, infine, dal più recente intervento della Corte in materia di trattamento arbitrario: Cass., Sez. IV, 23.9.2010, n. 34521, Huscher[16].
Il fatto: l’imputato (già processato per fatti simili – cfr. supra, § 2.2)è accusato di aver praticato su una paziente di ventisette anni un trattamento inutilmente demolitivo (asportazione di intestino, utero e parte della vescica) per l’asportazione di un tumore, sebbene per tale specifica patologia sia pacifico (circostanza nota allo stesso imputato) che l’unica possibile terapia è di ordine farmacologico e non chirurgico; ciò al solo scopo, secondo l’accusa, di ottenere un rimborso maggiore da parte del Servizio sanitario nazionale e di non scalfire la propria immagine di ‘medico competente che non sbaglia mai’. In seguito a complicanze legate all’intervento, la paziente decede.
Il giudice di prime cure pronunciava condanna per omicidio colposo, così derubricando l’accusa per omicidio preterintenzionale, in ragione dell’incompatibilità della finalità terapeutica col dolo diretto delle lesioni personali, presupposto dell’omicidio preterintenzionale. La decisione era confermata dalla Corte d’Appello.
Il PM proponeva quindi ricorso per Cassazione, rilevando come nel caso di specie il medico non fosse affatto mosso da alcuna finalità terapeutica.
La Corte, all’esito di una lunga e articolata motivazione, nel corso della quale conduce un’attenta disamina di tutta la giurisprudenza di legittimità in tema di trattamento arbitrario, conclude per l’accoglimento del ricorso, seppur in forza di argomenti in parte differenti da quelli proposti dal ricorrente, e annulla con rinvio la decisione dei giudici di merito.
Questi gli snodi argomentativi del percorso motivazionale della Suprema Corte:
i) a ben vedere – rileva la Corte – le Sezioni unite nel caso ‘Giulini’, seppur seguendo un percorso argomentativo diverso, di fatto pervengono alla medesima conclusione fissata dal precedente ‘Volterrani’, riconoscendo, con l’escludere l’integrazione del fatto tipico delle lesioni personali in caso di esito fausto, che il trattamento medico si ‘autolegittima’, dunque non abbisogna di alcun consenso informato;
ii) a tale conclusione le Sezioni unite pervengono in ragione dell’adozione di una nozione di malattia che pone l’accento sull’alterazione funzionale dell’organismo da verificare all’esito del trattamento alla luce dello “stato di benessere e alla salute complessiva del paziente”;
iii) sul punto la Cassazione esprime i primi dubbi (seppur obiter) rilevando che definire l’esito come ‘fausto’ o ‘infausto’ non è affatto problema di facile soluzione: nel caso affrontato dalle Sezioni unite, ad esempio, il Giudice ha qualificato l’esito come fausto sebbene la paziente avesse subito l’asportazione del salpinge, con conseguente compromissione della facoltà di procreare;
iv) la Corte, però, pur non condividendo appieno il criterio di valutazione dell’esito del trattamento adottato dalle Sezioni unite, non contesta il principio di diritto formulato in ‘Giulini’, secondo cui, in assenza di esito infausto, non può dirsi integrato il fatto tipico delle lesioni personali, essendo tale conclusione imposta dal necessario rispetto del principio di offensività;
v) ma nel caso di specie all’esame della Corte l’esito è senz’altro infausto, sicché non può darsi applicazione del principio di diritto formulato dalle Sezioni unite;
vi) a questo punto la Corte entra finalmente in medias res e affronta, innanzitutto,il tema dell’elemento psicologico dell’omicidio preterintenzionale, concludendo nel senso della necessità che l’agente operi con dolo perlomeno diretto di percosse o lesioni; ciò però non significa, precisa la Corte, che si ha omicidio preterintenzionale solo quando l’agente sia animato da una condotta malvagia, bastando, invece, che si rappresenti come conseguenza certa o altamente probabile della propria condotta la lesione dell’integrità fisica del paziente;
vii) sulla scorta di tale premessa la Corte formula il principio di diritto in base al quale “non risponde del delitto preterintenzionale il medico che sottoponga ad un trattamento non consentito – anche se abbia esito infausto e anche se l’intervento venga effettuato in violazione delle regole dell’arte medica – se comunque sia rinvenibile nella sua condotta una finalità terapeutica o comunque la terapia sia inquadrabile nella categoria degli atti medici”;
viii) al contrario, prosegue la Corte nella formulazione del principio di diritto, “risponderà di omicidio preterintenzionale […] il medico che sottoponga il paziente ad un intervento (dal quale poi consegua la morte), in mancanza di alcuna finalità terapeutica, per fini estranei alla tutela della salute del paziente come quando provochi coscientemente un’inutile mutilazione o agisca per scopi estranei alla salute del paziente (scopi scientifici o di ricerca scientifica, sperimentazione, scopi dimostrativi, didattici o addirittura esibizionistici, scopi di natura estetica ovviamente non accettati dal paziente”;
ix) ai fini di tale accertamento, peraltro, conclude la Corte, “non è necessario (proprio perché non è richiesto il dolo specifico) che sia individuata la finalità non terapeutica perseguita dal medico (che può anche non voler perseguire uno specifico fine) essendo invece sufficiente l’estraneità dell’intervento ad ogni ipotizzabile scelta terapeutica indipendentemente dalla circostanza che l’agente ne persegua una specifica o che non ne esistano proprio”.
La soluzione del caso di specie da parte dalla Cassazione è chiare e in linea col precedente ‘Barese’ (medesimo, d’altra parte, è l’estensore delle due sentenze, Brusco).
A noi, però, resta un dubbio: possiamo argomentare dalle conclusioni cui perviene tale sentenza che in caso di esito infausto, diverso dalla morte del paziente, stante l’integrazione del fatto tipico delle lesioni personali (che nemmeno le Sezioni unite escludono), sia ipotizzabile una responsabilità ex art. 582 (o 583) c.p. a titolo di dolo eventuale del medico? Tipo di dolo certo compatibile anche con la finalità terapeutica che muove il medico! Sul punto, in quest’ultima sentenza, la Corte ci offre uno spunto di non poco momento, affermando – ma solo obiter!– che “nel caso […] di dolo indiretto o eventuale verrà meno, come è stato sottolineato in dottrina, l’omicidio preterintenzionale ma non il reato doloso di lesioni o percosse”.
3. Alcuni spunti di riflessione sul tema della penale rilevanza de iure condito del trattamento medico arbitrario su paziente capace
L’analisi della più recente giurisprudenza della Suprema Corte ci consente di individuare alcuni punti (per il momento) fermi:
i) il trattamento medico non si autolegittima, contrariamente a quanto statuito nel solo precedente ‘Volterrani’;
ii) il medico deve ricercare il consenso del paziente e deve rispettare la volontà del paziente di non sottoporsi a un dato intervento: obblighi, questi, che gli derivano da una serie di fonti normative, nazionali e internazionali, e, non ultimo, dallo stesso codice di deontologia medica, e che la giurisprudenza pacificamente riconosce;
iii) per stabilire se il trattamento praticato dal medico abbia o meno provocato una malattia nel paziente, si deve ‘guardare’ all’esito finale del trattamento stesso e giudicare secondo i canoni della scienza medica; ne consegue che, in tutti i casi in cui l’esito del trattamento possa dirsi clinicamente ‘fausto’, non si ha ‘malattia’ quand’anche il trattamento sia stato praticato senza il consenso del paziente, sicché in tali casi il fatto del medico non integra il fatto tipico del delitto di lesioni personali;
iv) la ‘finalità terapeutica’ perseguita dal medico è incompatibile col dolo diretto delle lesioni; risponderà, pertanto, di omicidio preterintenzionale solo il medico che abbia cagionato per colpa la morte del paziente avendo posto in essere un trattamento, non consentito, per fini non terapeutici (ad esempio, un trattamento praticato per fini esclusivamente sperimentali o estetici o per conseguire un rimborso più consistente dal Servizio sanitario nazionale, ovvero un trattamento demolitivo coscientemente inutile, come un’amputazione per curare una patologia che il medico sa poter affrontare agevolmente con diversi mezzi terapeutici meno invasivi).
Restano, però, ancora senza una risposta (sicura) alcune domande. Su due, in particolare, vogliamo richiamare l’attenzione in questa sede:
i) possiamo affermare che, in caso di esito clinicamente infausto, il fatto del medico che abbia praticato il trattamento in assenza del consenso del paziente è sussumibile nella fattispecie di lesioni personali dolose, ove si dimostri che il medico ha agito con dolo eventuale, ossiarappresentandosi e accettando il rischio di verificazione dell’esito infausto?
ii) è insuperabile, de iure condito, la posizione assunta dalla Suprema Corte ed espressa – per la verità in maniera apodittica – dalle Sezioni unite nel caso ‘Giulini’, secondo cui l’evento ‘malattia’ delle fattispecie di lesioni personali è integrato solo ove l