ISSN 2039-1676


13 marzo 2017 |

Consenso informato e disposizioni anticipate di trattamento: dai principi alla legge?

In aula oggi alla Camera il testo unificato della proposta di legge recante “Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento” (A.C. 1142-A e abbinati)

Contributo pubblicato nel Fascicolo 3/2017

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1. Inizia oggi l’esame da parte dell’Assemblea della Camera dei Deputati l'esame del progetto di legge recante “Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento (A.C. 1142-A e abbinati). Si tratta del testo, licenziato lo scorso 2 marzo dalla Commissioni Affari Sociali in sede referente, che unifica le molteplici proposte d’intervento su consenso informato, alleanza terapeutica e disposizioni anticipate di trattamento presentate nel corso dell’attuale legislatura.

Il provvedimento s’inserisce al crocevia dei rapporti tra diritto alla salute, consenso informato e libertà di autodeterminazione nelle scelte terapeutiche (anche di fine vita), offrendo significativi spunti anche nella dimensione penalistica; l’incipiente dibattito parlamentare è destinato a essere accompagnato, così come lo è stato il lavoro istruttorio svolto in Commissione, dalla pressione dei casi di drammatica attualità e dal relativo clamore mediatico[1], cui tuttavia si affianca oggi – ed è una novità di grande rilievo - l’avvertita consapevolezza che, anche grazie alla mutata sensibilità di parte del mondo cattolico[2], sia arrivato il momento, dopo i falliti tentativi avanzati nel recente passato[3], di una definitiva consacrazione, per via legislativa, di principi ormai consolidati nell’elaborazione giurisprudenziale, anche costituzionale e sovranazionale, a partire dal riconoscimento del ruolo decisivo rivestito dal consenso del paziente al trattamento medico.

 

2. Come è noto, la decisività del consenso, quale presupposto e limite dell’intervento medico, è ricavata, a livello costituzionale, dalla lettura congiunta degli artt. 2, 13 e 32. In particolare, quest’ultimo rappresenta il punto di riferimento più immediato del diritto alla salute, unico diritto che la Costituzione espressamente qualifica come ‘fondamentale’ e che assume un rilievo proteiforme, quale diritto ad essere curati ovvero a ricevere prestazioni sanitarie (co. 1), ma anche come diritto di non essere curati ovvero di rifiutare le cure (co. 2).

E' sufficiente ricordare come la Corte costituzionale, nella sentenza 438 del 2008[4], ha configurato il “consenso informato, inteso quale espressione della consapevole adesione al trattamento sanitario proposto dal medico” quale “vero e proprio diritto della persona”, che “trova fondamento nei principi espressi nell'art. 2 Cost., che ne tutela e promuove i diritti fondamentali, e negli articoli 13 e 32 Cost., i quali stabiliscono, rispettivamente, che la libertà personale è inviolabile, e che nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”, precisando ulteriormente che “la circostanza che il consenso informato trova il suo fondamento nei tre richiamati articoli della Costituzione “pone in risalto la sua funzione di sintesi di due diritti fondamentali della persona: quello all'autodeterminazione e quello alla salute, in quanto, se è vero che ogni individuo ha il diritto di essere curato, egli ha, altresì, il diritto di ricevere le opportune informazioni in ordine alla natura e ai possibili sviluppi del percorso terapeutico cui può essere sottoposto, nonché delle eventuali terapie alternative; informazioni che devono essere le più esaurienti possibili, proprio al fine di garantire la libera e consapevole scelta da parte del paziente e, quindi, la sua stessa libertà personale, conformemente all'art 32, co. 2 Cost.”.

Ancor più di recente, nella sentenza n. 262 del 2016[5], la Corte, intervenendo sulle leggi n. 4 e n. 16 del 2015 della Regione Friuli Venezia Giulia in materia proprio di dichiarazioni anticipate di trattamento e donazioni di organi e tessuti, ha ribadito che “l'attribuzione di un rilievo pubblico a tali manifestazioni di volontà, espressive della libertà di cura, implica la necessità di un’articolata regolamentazione e data la sua incidenza su aspetti essenziali della identità e della integrità della persona, una normativa in tema di disposizioni di volontà relative ai trattamenti sanitari [...] – al pari di quella che regola la donazione di organi e tessuti – necessita di uniformità di trattamento sul territorio nazionale, per ragioni imperative di eguaglianza, ratio ultima della riserva allo Stato della competenza legislativa esclusiva in materia di “ordinamento civile”, disposta dalla Costituzione”.

 

3. Venendo ai contenuti, il testo sottoposto all’esame odierno della Camera si compone di sei articoli e disciplina modalità di espressione e di revoca, legittimazione, ambito e condizioni del consenso informato e delle disposizioni anticipate di trattamento, di disposizioni con le quali cioè il dichiarante enuncia, in linea di massima, i propri orientamenti sul "fine vita" nell'ipotesi in cui sopravvenga una perdita irreversibile della capacità di intendere e di volere.

Nel dettaglio, all’art. 1, dopo la proclamazione dei principi costituzionali di riferimento e dell’obiettivo della legge (la tutela della vita e della salute dell’individuo), si ribadisce, aggiornando la formulazione dell’art. 32 Cost., che nessun trattamento sanitario può essere iniziato o proseguito se privo del consenso libero e informato della persona interessata, tranne che nei casi espressamente previsti dalla legge (co. 1).

Si promuove e si valorizza poi la relazione di cura e di fiducia tra paziente e medico, il cui atto fondante è il consenso informato, nel quale s’incontrano l'autonomia decisionale del paziente e la competenza, l’autonomia professionale e la responsabilità del medico (co. 2). Presupposto per l’esercizio di un valido consenso è il correlato diritto di ognuno di conoscere le proprie condizioni di salute e di essere informato in modo completo, aggiornato e comprensibile riguardo alla diagnosi, alla prognosi, ai benefici e ai rischi degli accertamenti diagnostici e dei trattamenti sanitari indicati, nonché riguardo alle possibili alternative e alle conseguenze dell'eventuale rifiuto del trattamento sanitario e dell'accertamento diagnostico o della rinuncia ai medesimi (co. 3).

Viene quindi declinata la ‘gestione del consenso informato’, sia nelle modalità di acquisizione (forma scritta ovvero, nel caso in cui le condizioni fisiche del paziente non lo consentano, anche videoregistrazione o dispositivi che consentono alla persona con disabilità di comunicare, con inserimento nella cartella clinica e nel fascicolo sanitario elettronico; co. 4), sia – soprattutto – nella sua estensione applicativa.

Sul versante del paziente, si riconosce il diritto, per ogni persona maggiorenne e capace di intendere e di volere, di rifiutare, in tutto o in parte, qualsiasi accertamento diagnostico o trattamento sanitario indicato dal medico per la sua patologia o anche singoli atti del trattamento stesso, cui si accompagna, a fondamentale complemento, il diritto di revocare, in qualsiasi momento, il consenso prestato, anche quando la revoca comporti l'interruzione del trattamento, incluse la nutrizione e l’idratazione artificiali (co. 5); tutto ciò, in ogni caso, non può tradursi in abbandono terapeutico, dovendo essere sempre garantito il coinvolgimento del medico di famiglia e l’erogazione delle cure (co. 6).

Per quanto riguarda il medico, questi è tenuto a rispettare la volontà espressa dal paziente di rifiutare il trattamento sanitario o di rinunciarvi; di conseguenza, andrà esente da ogni responsabilità civile o penale (co. 7). Fanno da pendant, da un lato, l’inesigibilità, da parte del paziente, di trattamenti sanitari contrari a norme di legge, alla deontologia professionale o alle buone pratiche clinico-assistenziali (co. 7) e, dall’altro, l’obbligo del medico di assicurare, nelle situazioni di emergenza o di urgenza, l'assistenza sanitaria indispensabile, ove possibile nel rispetto della volontà del paziente (co. 8).

L’art. 2 è dedicato alle modalità di espressione o rifiuto del consenso per i soggetti minori e incapaci; modalità ispirate, per quanto possibile, al più ampio livello di coinvolgimento dei diretti interessati e allo scopo di tutelare la loro salute psicofisica e la loro vita. In caso di contrasto tra rappresentante legale di persona minore o interdetta o inabilitata o amministratore di sostegno che, in assenza delle disposizioni anticipate di trattamento, rifiuti le cure proposte e medico, che invece ritenga queste appropriate e necessarie, la decisione è rimessa al giudice tutelare su ricorso del rappresentante legale della persona interessata o del medico o del rappresentante legale della struttura sanitaria (co. 4).

 

4. All’art. 3 si prevede che ogni persona maggiorenne e capace di intendere e di volere, in vista di un’eventuale futura incapacità di autodeterminarsi, può, attraverso le disposizioni anticipate di trattamento (DAT), esprimere le proprie convinzioni e preferenze in materia di trattamenti sanitari, nonché il consenso o il rifiuto rispetto a scelte diagnostiche o terapeutiche e a singoli trattamenti sanitari, comprese le pratiche di nutrizione e idratazione artificiali (co. 1). Può altresì indicare un fiduciario, a sua volta maggiorenne e capace di intendere e di volere (co. 2), che ne faccia le veci e lo rappresenti nelle relazioni con il medico e con le strutture sanitarie, il cui incarico, una volta accettato, può essere revocato in qualsiasi momento (co. 3).

Nel caso in cui le DAT, redatte per atto pubblico o per scrittura privata ovvero, qualora le condizioni fisiche del paziente non lo consentono, espresse attraverso videoregistrazione o dispositivi elettronici (e nelle stesse forme, in ogni momento, rinnovabili, modificabili e revocabili; co. 6), non contengano l’indicazione del fiduciario o questi vi abbia rinunciato o sia deceduto o sia divenuto incapace, le DAT mantengono efficacia in merito alle convinzioni e alle preferenze del disponente (co. 4).

Il medico è tenuto al rispetto delle DAT, potendole disattendere, in tutto o in parte, in accordo con il fiduciario, solo quando sussistano terapie non prevedibili all’atto della sottoscrizione delle disposizioni, capaci di assicurare possibilità di miglioramento delle condizioni di vita. In caso di conflitto tra fiduciario e medico, ancora una volta si farà ricorso al giudice tutelare. Resta ferma, anche in questi casi, in virtù dell'obbligo del medico di rispettare la volontà espressa dal paziente (il quale non può esigere trattamenti sanitari contrari a norme di legge, alla deontologia professionale o alle buone pratiche clinico-assistenziali), la conseguente esenzione da ogni eventuale responsabilità civile e penale (co. 5).

L’art. 4, nel tentativo di dare corpo all’alleanza terapeutica, disciplina la possibilità, rispetto all'evolversi delle conseguenze di una patologia cronica e invalidante o caratterizzata da inarrestabile evoluzione con prognosi infausta, di fissare in un atto una pianificazione delle cure condivisa tra il paziente e il medico, alla quale il primo è tenuto ad attenersi qualora il secondo venga a trovarsi nella condizione di non poter esprimere il proprio consenso o in una condizione di incapacità (co. 1).

Il paziente e, con il suo consenso, i familiari o la parte dell'unione civile o il convivente ovvero una persona di sua fiducia, sono informati in modo esaustivo, con particolare attenzione al possibile evolversi della patologia in atto, a quanto il paziente può attendersi realisticamente in termini di qualità della vita, alle possibilità cliniche di intervenire e alle cure palliative (co. 2).

Il paziente esprime il suo consenso rispetto a quanto proposto dal medico e i propri intendimenti per il futuro, compresa l'eventuale indicazione di un fiduciario (co. 3), in forma scritta ovvero, sempre nel caso in cui le condizioni fisiche del paziente non lo consentano, attraverso videoregistrazione o altri dispositivi, e il tutto è inserito nella cartella clinica e nel fascicolo sanitario elettronico. Nelle medesime forme l'atto di pianificazione può essere sempre modificato su richiesta del paziente.

Si prevede infine, all’art. 5, una disposizione transitoria, che sancisce l'applicabilità delle disposizioni della legge ai documenti contenenti la volontà del malato circa i trattamenti sanitari depositati presso il comune di residenza o davanti ad un notaio prima dell'entrata in vigore della legge medesima, stabilendo quindi l'efficacia retroattiva della stessa.

 

5. Abbozzando una prima e necessariamente provvisoria valutazione critica, va anzitutto messo in risalto come, al di là della buona qualità complessiva (anche sul piano lessicale: si è adottato un linguaggio di facile comprensione sia per i medici che per i pazienti), il provvedimento non si limiti a disegnare una legge sul ‘testamento biologico’, impegnandosi piuttosto a rendere un “quadro coerente di tutta la relazione di cura, tendenzialmente conforme al diritto dei principi”[6].

In questa prospettiva, traspare la condivisione del ruolo cruciale del consenso informato, fondato su un’interpretazione dell’art. 32, co. 2, che - in rapporto anche all’art. 13 Cost. - riconosce la massima ampiezza possibile all’autodeterminazione terapeutica, estesa sino alla libertà del paziente di lasciarsi morire attuata attraverso il consapevole rifiuto di farsi curare. Con una precisazione che appare, oggi, quanto mai opportuna: viene cristallizzato non già un diritto di morire, quanto un diritto di rifiutare tutte le cure (anche vitali), in ossequio al principio secondo cui si può essere sottoposti a una determinata terapia (operando una scelta sull’an ma anche sul quomodo della stessa) solo in presenza di un consenso informato.

A conforto di questa impostazione milita la considerazione, ricavabile da una lettura di sistema proprio con l’art. 13 Cost. e con le garanzie ivi previste (la doppia riserva, di legge e di giurisdizione contro ogni forma di coazione sul corpo), che l’imporre un trattamento, pur vitale, contro la volontà del paziente (e al di fuori delle ipotesi di trattamenti sanitari obbligatori imposti ex lege) determinerebbe la violazione della stessa libertà personale, risolvendosi tale coazione in un’indebita “invasione dello spazio fisico del paziente”[7]; paziente che, sulla base proprio del tenore dell’art. 32, co. 2 Cost., è tutelato nel suo diritto individuale a non subire trattamenti medici indesiderati, in mancanza di una legge che sancisca l’obbligatorietà di un simile trattamento[8].

Va sottolineato altresì come, fra i trattamenti rifiutabili o revocabili, vengano espressamente ricomprese anche nutrizione e idratazione artificiali. Si opera dunque una ben precisa scelta di campo, qualificandoli come trattamenti medici anziché come semplici ‘presidi di cura’ (intesi secondo il significato proprio del termine anglosassone care) o, se si preferisce, “sostentamenti ordinari di base” (secondo la definizione del Comitato Nazionale per la Bioetica); con le implicazioni che ne vengono ricavate in relazione alla loro sospensione[9], emerse nel caso di Eluana Englaro e della sua morte, sopravvenuta il 9 febbraio 2009 proprio a seguito proprio della sospensione di nutrizione e idratazione artificiali[10].

Va infine evidenziata la precisa scelta terminologica che ha portato a disciplinare, all’art. 3, le ‘disposizioni’ e non le semplici ‘dichiarazioni’ anticipate di trattamento; come si è messo in luce, “la differenza non è di poco conto, dato che il termine ‘dichiarazioni’ – fatto proprio dal contestato d.d.l. Calabrò - aveva una valenza prevalentemente informativo-comunicativa, a fronte del termine ‘disposizione’ che assume valore prescrittivo”[11].

 

6. È evidente come, nella dimensione penalistica, il punto saliente, da monitorare con grande attenzione nell’incipiente dibattito parlamentare, riguarda, almeno allo stato, l’espresso riconoscimento, all’art. 1, co. 7 (richiamato anche all’art. 3, co. 5 con riferimento alle DAT), dell’esenzione da responsabilità (civile e penale) del medico, in conseguenza dell’obbligo di rispettare la volontà espressa dal paziente.

A ben vedere, si tratta, ancora una volta, della consacrazione dell’esistente, ossia del peso assunto dalla volontà del paziente nel perimetro della relazione terapeutica, non solo come necessario presupposto ma anche quale insuperabile limite della posizione di garanzia del medico. Già oggi, infatti, sul piano interpretativo, un’inequivocabile richiesta del malato di non essere sottoposto a cure – in uno con l’acquisizione che non può ritenersi gravante sullo stesso il dovere di vivere ad ogni costo - fa venir meno in capo al medico lo stesso obbligo giuridico di curarlo (anche a costo della sua morte), mancando il necessario titolo di legittimazione dell’esecuzione del trattamento. La conseguenza immediata è che nessuna responsabilità penale può – e potrà - essere ascritta al medico che ometta di praticare trattamenti vitali a un paziente che coscientemente esprima il suo diritto a non essere curato, nell’ipotesi in cui sopraggiunga la morte.

Peraltro, il progetto, equiparando chiaramente la mancata attivazione di un trattamento sanitario alla sua revoca, supera ogni residua perplessità nel caso in cui la morte del paziente derivi non già dal progredire della malattia per un’iniziale omissione di cure non consentite, quanto piuttosto dall’interruzione (richiesta dal paziente) di un trattamento già in atto, ad esempio operata dal medico attraverso la disattivazione di un sostegno artificiale.

L’impressione che ci si trovi innanzi ad un’altra situazione, alla quale pertanto dover riservare un trattamento giuridico diverso, deriva dall’essere in questo caso il comportamento del medico, dal punto di vista naturalistico, ascrivibile ad una azione (ad es. spegnimento del respiratore), invece che ad un mero non facere (non iniziare una terapia) imposto dalla superiore volontà del paziente di non farsi curare e salvare. Così, questo indubbio profilo di diversità materiale può ingenerare il convincimento di trovarsi in un caso maggiormente assimilabile all’eutanasia attiva, quale aiuto a morire, piuttosto che a un legittimo rifiuto di un trattamento medico, di cui sinora si è detto, riecheggiando in pratica la classica distinzione – foriera di ben differenti conseguenze in termini di responsabilità penale - tra ‘procurare la morte’ e ‘lasciare morire’[12].

A ben vedere, tuttavia, l’apparente divario tra le due ipotesi si riduce sensibilmente - ristabilendo la comune riconducibilità alla matrice di un legittimo rifiuto di terapie (in questo caso di sostegno vitale) - non appena si rifletta sull’equivalenza, dal punto di vista normativo, delle due situazioni rispetto al contenuto dell’art. 32 Cost. È innegabile, infatti, già sul piano logico – prima ancora che giuridico - che una volta subordinata al consenso del paziente la legittimità circa la praticabilità iniziale di cure (anche vitali) – ammettendo quindi un rifiuto inteso come richiesta di non inizio -, sarebbe del tutto incongruente non concordare sulla necessità anche del suo consenso a proseguirle, in sostanza nel riconoscimento di una revocabilità o ritrattabilità del consenso iniziale (così come di un eventuale dissenso) una volta espresso, con altrettanto piena legittimazione di una rinuncia al trattamento sanitario (come richiesta di sospensione) da parte del singolo.

Del resto, qualora si negasse tale equiparazione, legittimando solo un rifiuto iniziale del trattamento da parte del malato, si andrebbe incontro a una serie di effetti irragionevoli, oltre che paradossali. A titolo esemplificativo: a seconda della possibilità di interrompere la terapia da soli o no, la sospensione di cure sarebbe consentita solo a taluni pazienti e non ad altri, con una selezione basata sulla tipologia di malattia, sullo stato di avanzamento della patologia sofferta (che incide sul momento in cui si può rinunciare o meno) e sul tipo di terapia attuata (un malato di tumore potrà sempre sospendere un ciclo di chemioterapia, non presentandosi alla seduta successiva se le precedenti sono state ritenute troppo invasive e comunque intollerabili in un rapporto personale di costi/benefici delle stesse cure). Come ulteriore effetto paradossale, poi, qualora il paziente ritenesse di non potere più sospendere la terapia, potrebbe essere portato a non intraprenderla affatto, proprio per il timore che una volta iniziata non la si possa più interrompere e se ne debba quindi rimanere necessariamente prigionieri. Un ulteriore e sicuro effetto discriminatorio si avrebbe nel caso in cui si venisse a essere sottoposti a terapie quando non si è coscienti, perché ad esempio un medico ha agito in stato di necessità, e pertanto non vi è stata alcuna possibilità di esprimere un dissenso iniziale, rimanendo irrevocabilmente vincolati alla loro prosecuzione.

Il legislatore sembra, allo stato, avere colto a pieno questa sostanziale identità, scongiurando i segnalati effetti paradossali e iniqui di una mancata equiparazione. Del resto, alle medesime conclusioni si è pervenuti nelle note e recenti pronunce che hanno avuto a oggetto ipotesi di rifiuto di cure da parte di soggetti capaci e incapaci. Ci si riferisce, in particolare, alla sentenza di proscioglimento 23 luglio 2007 del GUP del Tribunale di Roma nel caso Welby, pronunciata nei confronti dell’anestesista che aveva operato il distacco del ventilatore artificiale, e al decreto di archiviazione dell’11 gennaio 2010 del GUP del Tribunale di Udine, con il quale è stata disposta l’archiviazione del procedimento per omicidio volontario a carico del tutore di Eluana Englaro e del personale medico e paramedico che lo ha coadiuvato nel distacco del sondino naso gastrico nei confronti della ragazza[13].

Una perplessità finale, per i riflessi in tema di responsabilità, può invece avanzarsi allorquando, sempre all’art. 1, co. 7, si sancisce l’inesigibilità, da parte del paziente, di trattamenti sanitari contrari non solo a norme di legge, ma anche alla deontologia professionale o alle buone pratiche clinico-assistenziali; vi è il fondato e condivisibile timore, avanzato nel parare reso dalla Commissione Giustizia della Camera, che non precisate regole di deontologia professionale o non specificate buone pratiche possano legittimare il medico a non rispettare la volontà espressa dal paziente, vanificando per tale via il percorso virtuoso intrapreso.

 

7. In conclusione, è chiaro che il cammino del provvedimento si preannuncia lungo e con tutta probabilità non privo di ostacoli (primo fra tutti la durata dell’attuale legislatura). Tuttavia, come si è detto, gli auspici sembrano positivi: un testo nella sostanza equilibrato, ben scritto, di buona qualità, di certo emendabile e migliorabile, che tuttavia, come più volte si è detto e a differenza dei tentativi del passato, non vanifica ma consolida principi e diritti di libertà, senza tuttavia aprire le porte a sempre pericolose ‘chine scivolose’.

Insomma, una buona occasione, per il legislatore, di recuperare ‘consenso’, dimostrando equilibrio, sensibilità e capacità tecnica su un terreno, quello delle questioni eticamente sensibili, nel quale, sinora, non sempre ha dato buona prova di sé, spingendo molti a ritenerlo appannaggio esclusivo del diritto giurisprudenziale.

 

[1] Ci si riferisce, come è evidente, alle vicende che hanno riguardato, in termini differenti (senza che tuttavia le sostanziali distinzioni siano state sempre effettivamente colte) Walter Piludu e Fabiano Antoniani (dj Fabo); in particolare, sul travagliato iter giudiziario che ha accompagnato la richiesta presentata dall’amministratore di sostegno di Walter Pilidu, in conformità di quanto da questi specificato in una precedente scrittura privata, di disattivare il ventilatore artificiale previa sedazione, v. C. Magnani, Il caso Walter Piludu: la libertà del malato di interrompere terapie salva-vita, in www.forumcostituzionale, 8 dicembre 2016.

[2] Ricostruisce i percorsi aperti dal nuovo Pontificato, mostrando la possibilità di convergenze non solo di facciata tra il mondo laico e il mondo cattolico, alla luce dell’ipotesi che la centralità delle persone nella loro concreta dimensione di vita e la teologia dell’amore e della misericordia promosse da Bergoglio potrebbero condurre al superamento di alcuni tradizionali steccati bioetici, segnando la via di una nuova stagione di dialogo, L. Lo Sapio, Bioetica cattolica e bioetica laica nell’era di Papa Francesco. Che cosa è cambiato?, Torino, 2017.

[3] Il riferimento più immediato è chiaramente al disegno di legge Calabrò, recante “Disposizioni in materia di alleanza terapeutica, di consenso informato e di dichiarazioni anticipate”, approvato dal Senato il 26 marzo 2009 e, con modifiche, il 12 luglio 2011 dalla Camera, prima di arenarsi, anche in virtù della conclusione della legislatura, al Senato, ove il testo era tornato per l’approvazione definitiva.

[4] Corte cost., sent. 23 dicembre 2008, n. 438, in Giur. cost., 2008, p. 4945 s.; nello stesso senso, sent. 26 giugno 2002, n. 282, ivi, 2002, p. 2012 ss; per un efficace quadro di sintesi, cfr., per tutti, D. Morana, La salute come diritto costituzionale, Torino, 2015, p. 123 ss.

[5] Corte cost., sent. 14 dicembre 2016, n. 262, in Consulta on line; un primo commento in C. Magnani, Sul testamento biologico altro scontro tra Stato e Regioni. Il Titolo V fa male alla salute?, in www.forumcostituzionale.it, 16 dicembre 2016.

[6] P. Zatti, Salute, vita, morte: diritto dei principi o nuova legge?, in Quotidiano sanità, 7 marzo 2017, p. 3.

[7] F. Viganò, Esiste un “diritto a essere lasciati morire in pace”? Considerazioni in margine al caso Welby, in Dir. pen. proc., 2007, p. 6.

[8] Nondimeno, vanno prese in considerazione anche le fonti sovranazionali che offrono le coordinate legittimanti l’intervento terapeutico sul paziente: il riferimento è soprattutto agli artt. 5, 6, 7 e 8 della Convenzione di Oviedo del 1997 sulla biomedicina, di cui è stata autorizzata la ratifica con la legge 28 marzo 2001, n. 145, all’art. 8 della Convenzione europea sui diritti dell’uomo, all’art. 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, adottata a Nizza il 7 dicembre del 2000, ed agli artt. 5 e 6 della Dichiarazione universale sulla bioetica e i diritti umani, approvata dall’Unesco il 19 ottobre 2005. Un ruolo importante rivestono anche talune norme secondarie; spicca, in questo contesto, il codice di deontologia medica (nell’ultima versione, approvata il 18 maggio 2014), nel quale, in particolare, si ribadisce l’importanza dell’acquisizione del consenso per intraprendere qualunque attività terapeutica (art. 35, co. 2: “il medico non intraprende né prosegue in procedure diagnostiche e/o interventi terapeutici senza la preliminare acquisizione del consenso informato o in presenza di dissenso informato”).

[9] Solo se letti come trattamenti medici - rientrando nella sfera applicativa dell’art. 32 Cost. - essi sarebbero infatti rifiutabili, al pari di ogni trattamento sanitario; non lo sarebbero nel secondo caso, così come, in quest’ultima evenienza, non sarebbero comunque sospendibili da parte del medico, in quanto si tratterebbe di una violazione di basilari doveri di solidarietà verso il malato.

[10] Va ricordato che si trattava di una paziente divenuta improvvisamente e traumaticamente incapace (in una condizione di stato vegetativo) e che non aveva lasciato alcuna manifestazione espressa di volontà rispetto a terapie e scelte di fine vita e che, con autorizzazione della Corte di appello di Milano (Sez. I, decr. 25 giugno 2008, n. 88, Pres. Lamanna, Est. Patrone, ric. B.E., in Corr. merito, 2008, p. 1031 ss.), applicando il principio di diritto enunciato dalla Cassazione civile (Cass. Sez. I civile, 4 ottobre 2007, in Guida dir., n. 43/2007, p. 29 s.) si è proceduto all’interruzione dei trattamenti di sostegno vitale (idratazione/alimentazione con sondino nasogastrico) su richiesta del genitore in veste di tutore.

[11] S. Rossi, Consenso informato e autodeterminazione dei pazienti nei trattamenti sanitari, in lacostituzione.info, 16 dicembre 2016, p. 2, il quale prosegue rimarcando come, con l’obiettivo “di offrire ai medici un ‘racconto autobiografico’ reso dalla persona a futura memoria riguardo ai propri valori di riferimento e alle correlate scelte in campo esistenziale, comunque meritevole di rispetto e di osservanza, in quanto espressione della soggettività morale dell’individuo” e realizzare “la massima espansione dell’anticipata manifestazione delle scelte sanitarie, le DAT potranno riguardare tanto specifiche situazioni patologiche e trattamenti (ad es. idratazione e nutrizione c.d. artificiali), quanto generiche espressioni di volontà dirette a precludere modalità di intervento che implichino rischi o condizioni vitali ritenute dal paziente non accettabili e dignitose”.

[12] La distinzione – enucleata su un piano naturalistico, morale e giuridico – tra “mercy killing” e “letting die” si traduce notoriamente nella contrapposizione tra eutanasia attiva e passiva. Un semplice cenno, in questa sede, può essere dedicato al problema definitorio dell’eutanasia, tanto più rilevante quanto foriero di possibili fraintendimenti. Così, per eutanasia attiva si intende la soppressione, per pietà, della vita di una persona attraverso un comportamento fattivo, posto in essere da taluno nei confronti di un soggetto gravemente infermo (generalmente in stato di sofferenza insostenibile e nella fase terminale di una malattia). Di contro, l’eutanasia passiva è invece generalmente ricondotta ai casi di omissione di terapie o alla cessazione di quelle che mantengono in vita il paziente nei confronti di malati giunti alla fase terminale. Tratto peculiare rispetto alla prima è la natura sostanzialmente omissiva del comportamento, sulla base della quale è possibile qualificare come causa della morte direttamente la malattia, anziché la condotta umana. Il crinale distintivo, pertanto, sembra ruotare attorno al profilo causale, nel senso che mentre nella forma attiva la causa (o la concausa) della morte è rappresentata proprio dall’azione del medico, in quella passiva essa va ricondotta direttamente all’evoluzione della malattia, limitandosi il medico a non fare nulla per impedirne il decorso. Tanto che, qualora l’omissione del sanitario concretizzi una espressa richiesta del paziente, può fondatamente dubitarsi della correttezza (già a livello semantico) del riferimento al termine eutanasia passiva, soprattutto con riguardo alle ipotesi di rifiuto, sospensione ed interruzione di cure pienamente consenzienti; in questo senso, significativi approfondimenti in S. Canestrari, Principi di biodiritto penale, Bologna, 2016, p. 63 ss. In una prospettiva volta a ridimensionare la corrispondenza azione/omissione – procurare la morte/lasciar morire, ritenute espressioni che “si collocano su piani distinti e non completamente sovrapponibili”, cfr. altresì il Parere del Comitato Nazionale per la Bioetica del 24 ottobre 2008, “Rifiuto e rinuncia consapevole al trattamento sanitario nella relazione paziente-medico”, p. 16 ss.

[13] Per un commento a entrambi i provvedimenti, sia consentito rinviare a C. Cupelli, Diritti del paziente e doveri del medico nelle “scelte di fine vita”, in Crit. dir., 2011, p. 274 ss..