1. Il fatto
Il ricorrente, Ulrich Koch, è un cittadino tedesco, la cui moglie, quasi completamente paralizzata a seguito di un incidente e costretta ad un trattamento di ventilazione artificiale e di cura infermieristica continua, aveva espresso la volontà di morire. In base alla valutazione medica, ella aveva un'aspettativa di vita di almeno quindici anni.
La sig.ra Koch aveva richiesto un'autorizzazione all'Istituto federale per i farmaci e i dispositivi medici al fine di ottenere una dose 'letale' di pentobarbital di sodio; l’Istituto però si era rifiutato di accordarla, ritenendo che un'eventuale concessione si sarebbe posta in contrasto con le previsioni del Narcotics Act : quest'ultimo, infatti, stabilisce che non possano essere prescritte le sostanze ivi specificamente menzionate – tra cui appunto il pentobarbital - se la natura e lo scopo d'uso delle stesse contravvenga ai suoi principi ispiratori, ossia l'esigenza di assicurare la cura medica della popolazione, di eliminare l'abuso di medicine e di prevenire la tossicodipendenza. L'autorizzazione, di conseguenza, potrebbe essere concessa solo per ‘finalità vitali’, e non per aiutare una persona a terminare la propria vita.
I ricorsi amministrativi interni contro questa decisione, ed altresì quello costituzionale, si rivelarono infruttuosi.
Il 12 febbraio 2005, dunque, la signora Koch si suicidò in Svizzera, assistita dall'organizzazione Dignitas (quest'ultima, tra l’altro, ha depositato osservazioni nel ricorso in esame). Per raggiungere la Svizzera la donna, che è stata trasportata su una barella, aveva viaggiato per circa dieci ore.
2. Legislazione e giurisprudenza interna
Prima di esaminare le posizioni delle parti, può risultare utile una sommaria sintesi della disciplina e della giurisprudenza tedesca in materia di eutanasia.
La sez. 216 del codice penale tedesco stabilisce che l'omicidio su richiesta della vittima è punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni, e che è punibile altresì il tentativo. Invece, l'assistenza ad un suicidio, autonomamente messo in atto dalla vittima, è esente da pena. Tuttavia, una persona può essere ritenuta penalmente responsabile, in forza della legge sugli stupefacenti, per aver fornito una droga letale.
Secondo la giurisprudenza della Corte federale di giustizia (cfr. sentenza del 13 settembre 1994, il 1 StR 357/94), l'interruzione della vita di un malato terminale, con il suo consenso, non comporta responsabilità penale, al di là del fatto che avvenga in modo attivo o mediante lo spegnimento dei dispositivi medici (in questo senso cfr. Corte federale di giustizia, sentenza del 25 giugno 2010, R.454/09).
Infine, il Codice di deontologia medica, alla sez. 16, dispone che il medico possa astenersi dal praticare misure di prolungamento della vita, attuando una mera terapia del dolore, solo in caso di morte inevitabile, il cui rinvio costituisca unicamente un’ inaccettabile agonia. In ogni caso, i medici non possono ridurre attivamente la vita della persona morente. Le contravvenzioni al codice deontologico sono sanzionate con varie misure disciplinari fino al ritiro della licenza medica.
3. Il ricorso alla Corte Europea dei diritti dell’uomo
Il Sig. Koch ricorre alla Corte europea, affermando che il rifiuto opposto alla richiesta della sua ormai defunta moglie avesse determinato una lesione dell'art. 8 Cedu (diritto al rispetto della vita privata e familiare), ed in particolare del suo diritto ad una morte dignitosa; egli lamenta altresì una violazione dell'art. 13.
Il Sig. Koch reputa che il diniego di fornire il pentobarbital di sodio fosse irragionevole, in quanto la sua assunzione da parte della moglie non avrebbe comportato rischio per la salute pubblica o di terzi. A questo proposito, il ricorrente ha sottolineato che tale sostanza viene abitualmente prescritta in Svizzera, come mezzo di suicidio assistito, senza che ciò abbia sinora prodotto alcun effetto negativo. Inoltre, non vi erano modalità lecite medicalmente assistite per raggiungere l'obiettivo, in quanto la moglie non era una malata terminale.
D'altro canto, il diritto alla vita, nel senso previsto dall'articolo 2, non contiene alcun obbligo di vivere fino alla "fine naturale". La scelta di terminare la propria vita biologica non implica, infatti, una rinuncia al diritto alla vita.
Egli afferma, inoltre, di essere legittimato all’azione, poiché ciascun partner nel matrimonio ha il diritto di difendere i diritti e le libertà dell'altro. Ritiene, peraltro, di essere egli stesso vittima di una violazione dei diritti della Convenzione.
Il governo tedesco contesta anzitutto la legittimazione ad agire del Sig. Koch, poiché quello in esame è un diritto di natura eminentemente personale e non trasferibile; in generale, la tutela postuma della dignità umana rileva solo per le violazioni del diritto del comune senso del rispetto o della morale, del valore personale e sociale che una persona ha acquisito durante tutta la propria vita (cfr. decisione del 5 aprile 2001, no. 1 BvR 932/94). Tuttavia, tali violazioni non si prospettano in quest’ipotesi. D’altronde, la decisione dei giudici tedeschi non ha interferito con il suo diritto alla protezione del ‘matrimonio e della vita familiare’, così come garantito dall'articolo 6 § 1 della Costituzione tedesca: una diversa interpretazione avrebbe la conseguenza che ogni violazione dei diritti di un coniuge sia automaticamente da ritenersi anche una violazione dei diritti dell'altro. Nel caso di specie, non sussiste neanche un’autonoma violazione dei diritti del ricorrente, in quanto non esiste alcun dato da cui si possa evincere che la sofferenza del richiedente sia andata al di là di quella inevitabilmente legata ad eventi siffatti.
In ogni caso, il governo rileva che il diniego di autorizzazione era giustificato ai sensi del paragrafo 2, poiché la decisione presa dall'istituto federale aveva una base legale nelle previsioni della legislazione tedesca e nel superiore scopo di tutela della vita umana.
Il governo ha altresì aggiunto che la signora Koch aveva altre possibilità a sua disposizione per terminare la sua vita senza dolore; in particolare, avrebbe potuto chiedere al suo medico l’arresto dell'apparecchio respiratorio.
La Corte, nel rilevare che la questione della legittimazione del Sig. Koch pone un problema che deve essere esaminato nel merito sotto il profilo del rispetto dell'art. 13 in collegamento con l'articolo 8 e che complessivamente il ricorso non è manifestamente infondato neanche sotto il profilo dell’art. 8, ha dichiarato quest’ultimo ammissibile.
La futura decisione di merito potrebbe offrire spunti interessati in tema di eutanasia attiva, istituto assai discusso, a fronte della evidente minore problematicità di quella cd. passiva.