16 febbraio 2018 |
La Corte d’Assise di Milano nel caso Cappato: sollevata questione di legittimità costituzionale dell’art. 580 c.p.
Corte d'Assise di Milano, ord. 14 febbraio 2018, Pres. Mannucci Pacini, Giud. Simi De Burgis, Imp. Cappato
Contributo pubblicato nel Fascicolo 2/2018
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1. Con l’ordinanza in esame la Corte d’Assise di Milano solleva “questione di legittimità costituzionale dell’art. 580 c.p., nella parte in cui:
- incrimina le condotte di aiuto al suicidio in alternativa alle condotte di istigazione e, quindi, a prescindere dal loro contributo alla determinazione o rafforzamento del proposito di suicidio, per ritenuto contrasto con gli artt. 3, 13 comma 1 e 117 della Costituzione, in relazione agli artt. 2 e 8 della Convenzione Europea Diritti dell’Uomo;
- prevede che le condotte di agevolazione dell’esecuzione del suicidio, che non incidano sul processo deliberativo dell’aspirante suicida, siano sanzionabili con la pena della reclusione da 5 a 10 anni, senza distinzione rispetto alle condotte di istigazione, per ritenuto contrasto con gli artt. 3, 13, 25 comma 2 e 27 comma 3 della Costituzione.”
I giudici milanesi ritengono infatti che, in forza del combinato disposto degli artt. 3, 13 co. 1 e 117 Cost., quest’ultimo con riferimento agli artt. 2 e 8 CEDU, il suicidio costituisca esercizio di una libertà dell’individuo. Pertanto solo azioni idonee a pregiudicare l’autodeterminazione dello stesso costituirebbero offesa al bene giuridico tutelato dalla norma in esame, e solo queste risultano meritevoli di sanzione penale. Alla luce di tali considerazioni, l’aiuto di Cappato, per come realizzatosi nell’ipotesi di specie, non risulta idoneo a ledere alcun bene giuridico, giacché il proposito suicidiario dell’Antoniani si era già cristallizzato da tempo e il contributo dell’imputato si è concretizzato nel mero trasporto dello stesso nella clinica Dignitas, in Svizzera.
Sulla base di tali premesse, le norme che i giudici milanesi assumono violate trovano fondamento costituzionale negli artt. 3, 13 co. 2, 25 co. 2, 27 co. 3 il cui combinato disposto sancisce i principi di ragionevolezza e proporzionalità della pena in relazione all’offensività del fatto.
2. Pare anzitutto opportuno dare brevemente conto della disciplina prevista dalla norma in esame, anche al fine di coglierne la rilevanza nel caso di specie, prestando particolare attenzione alla diversità delle condotte in essa delineate.
Rubricata “istigazione e aiuto al suicidio”, la disposizione di cui all’art. 580 c.p. si configura come un reato a fattispecie alternative volto ad incriminare tre diverse condotte, che differiscono le une dalle altre per la diversa incidenza sulla formulazione del proposito suicidiario. Le prime due condotte, che la rubrica colloca entrambe sotto la nozione di istigazione, si distinguono in “determinazione” e “rafforzamento” dell’altrui proposito, indicandosi con la prima qualsiasi condotta idonea a far sorgere in un individuo un proposito prima inesistente, e con la seconda qualsiasi condotta volta al rafforzamento di un’intenzione che, seppur blanda, fosse già presente nell’individuo. Tali condotte incidono ed invadono la sfera deliberativa dell’individuo, viziandone la autonomia e spontaneità, sì da costituire contributo causale alla realizzazione dell’evento suicidio.
La terza condotta, identificata nell’aiuto al suicidio, incrimina invece chiunque ne agevoli in qualsiasi modo l’esecuzione.
L’interpretazione dell’art. 580 c.p. secondo il diritto vivente, che oggi orienta le decisioni degli interpreti, risale ad un’unica ed isolata pronuncia del 1998, nella quale la Cassazione ha ritenuto che le tipologie di condotte, così come disciplinate, siano previste in via tra loro alternativa. Proprio in forza di tale alternatività, qualunque azione agevolativa del suicidio, che possa causalmente risultare connessa all’evento, deve considerarsi idonea ad integrare il reato in quanto condotta di “aiuto” al suicidio, ancorché estranea alla formazione del processo deliberativo del soggetto passivo (Cass. pen., sez. I, n. 3147 del 6.2.1998).
La norma assume rilevanza nel caso di specie proprio in relazione a questa terza ed ultima ipotesi. Infatti, la condotta dell’imputato, nel dar attuazione alla volontà dell’Antoniani accompagnandolo fisicamente in Svizzera, seppur non possa dirsi in alcun modo rafforzativa del proposito suicida (come invece affermato nel capo di imputazione), rientra nel novero delle condotte riconosciute come idonee ad agevolare il suicidio, e come tali represse dalla disposizione in esame.
3. Una tale lettura si espone tuttavia, secondo la Corte milanese, a fondati dubbi di incompatibilità con la Costituzione.
I giudici osservano innanzitutto che alla base delle norme sull’istigazione e aiuto al suicidio, introdotte dal legislatore del 1930, vi era la considerazione del suicidio come un disvalore: solo per preminenti ragioni di politica criminale era stato ritenuto inutile e dannoso punirne il tentativo. La sanzione prevista dalla norma era pensata a tutela del “diritto alla vita”, concepito come valore in sé, indipendentemente dalle deliberazioni del titolare. Leggendo oggi la medesima norma alla luce dei principi costituzionali, appare però evidente la necessità di mutare quei concetti propri dell’epoca pre-costituzionale. In particolare, afferma la Corte milanese, dalla lettura complessiva del testo si apprezza una nuova e diversa considerazione del diritto alla vita che, sebbene non trovi espressa definizione nel testo costituzionale, si pone come presupposto degli altri diritti riconosciuti all’individuo e attraverso questi si definisce. Inoltre, introducendo l’innovativo principio personalistico enunciato all’art. 2 e l’inviolabilità della libertà individuale di cui all’art. 13, la Carta costituzionale ha sancito una vera e propria inversione di rotta: è infatti l’uomo, e non più lo Stato, al centro della vita sociale. Ed è proprio alla luce di tale invertita centralità che la vita umana non può essere concepita in funzione di un fine eteronomo.
Inoltre, ad ogni individuo viene garantita dalla costituzione la libertà da interferenze arbitrarie dello Stato (art. 13); e da questo diritto primario derivano sia “il potere della persona di disporre del proprio corpo”[1], che l’impossibilità per ogni individuo di essere costretto “a subire un trattamento sanitario non voluto, in assenza di una norma che esplicitamente lo imponga”[2]. Principio quest’ultimo che trova massima espressione nell’art. 32 Cost., che, nell’affermare la libertà dell’individuo alla autodeterminazione in termini di rifiuto di cure e corrispondente obbligo per l’ordinamento di rispettarne la decisione, pone anche i limiti oltre i quali non può spingersi il potere/dovere dello Stato di intervenire nella tutela della salute dei cittadini, anche nell’ipotesi in cui da tale scelta potesse derivarne la sua morte.
Svariate le pronunce giurisprudenziali di merito richiamate dall’ordinanza in commento in cui si conferma detta interpretazione[3], che risultano informate al principio personalistico proprio della carta costituzionale concependo l’intervento solidaristico e sociale in funzione della persona e del suo sviluppo, e non viceversa.
In definitiva, affermano i giudici, il fatto che il diritto alla libertà non incontri un limite in funzione di considerazioni eteronome della vita (in funzione di obblighi solidaristici), si evince ad esempio implicitamente dall’assenza di divieti di porre in essere attività pericolose per la propria incolumità e anche dall’assenza di un obbligo di curarsi (come più volte ribadito con riferimento al rifiuto di emotrasfusioni espresso dai testimoni di Geova[4]). L’obbligo di sottoporsi ad una determinata terapia può infatti intervenire solo per legge e solo al fine di evitare pericolo per gli altri[5]. In altri termini, è solo in queste ipotesi specifiche che il diritto alla libertà individuale può essere legittimamente compromesso.
4. L’iter argomentativo dell’ordinanza in esame prosegue analizzando l’evoluzione della giurisprudenza della Corte Edu che – valorizzando il diritto alla vita ex art. 2 Cedu e le garanzie della persona di fronte ad arbitrarie ingerenze delle pubbliche autorità ex art. 8 Cedu – è di recente giunta “ad affermare il ‘diritto di un individuo di decidere con quali mezzi e a che punto la propria vita finirà’ e [che] l’intervento repressivo degli Stati in questo campo può avere solo la finalità di evitare ‘rischi di abuso’, ovvero di ‘indebita influenza’ nei confronti dei soggetti particolarmente valutabili, come sono le persone che hanno perso interesse per la vita”[6]. La Corte si sofferma segnatamente su tre pronunce emblematiche del processo evolutivo della giurisprudenza europea. Punto di partenza di tale ricostruzione è la pronuncia Pretty c. Regno Unito[7], nella quale la Corte Edu ha affermato: (i) che l’art. 2 Cedu non può essere interpretato – in negativo – nel senso di conferire il diritto di morire, e non può neppure far nascere un diritto all’autodeterminazione circa la scelta se vivere o morire; (ii) che le norme nazionali che puniscono l’aiuto al suicidio non violano l’art. 3 Cedu; (iii) che l’imposizione di un trattamento medico senza il consenso del paziente può costituire una violazione dell’art. 8 Cedu. L’ordinanza in esame sottolinea però che in due più recenti sentenze[8] la Corte Edu supera i principi espressi in Pretty, in particolare riconoscendo espressamente il “diritto di un individuo di decidere il mezzo ed il momento in cui la sua vita debba finire” sempre che il soggetto sia in grado di assumere una decisione libera e pienamente consapevole.
5. Il giudice rimettente pone poi attenzione alla recentissima legge sul biotestamento (l. 219/2017), ritenendo che i principi fondanti di questa legge possano essere d’aiuto anche ai fini della interpretazione dell’art. 580 c.p. Più precisamente, si osserva che la nuova normativa riconosce la possibilità di ogni individuo di disporre anticipatamente le proprie volontà sul “fine-vita”, fino ad affermare che lo stesso può decidere effettivamente di porvi fine. La Corte sottolinea, dunque, che “nel caso di malattia” il legislatore ha espressamente riconosciuto “il diritto a decidere di lasciarsi morire a tutti i soggetti capaci”. Il mancato riconoscimento da parte del legislatore di un diritto al suicidio assistito, peraltro, secondo la Corte implicherebbe l’impossibilità di pretendere dai medici del servizio pubblico la somministrazione o la prescrizione di un farmaco che procuri la morte, ma non può portare a negare la sussistenza della libertà della persona di scegliere quando e come porre fine alla propria vita, posto che una simile libertà troverebbe fondamento nei principi espressi dagli articoli 2 e 13 della Carta costituzionale.
6. Infine la Corte rivolge l’attenzione al profilo sanzionatorio, considerando che, se anche la Corte costituzionale ritenesse di non accogliere la questione di legittimità nei termini finora esaminati, comunque un dubbio fondato di costituzionalità permarrebbe sotto un diverso profilo. Infatti, laddove si ritenessero rilevanti ai fini dell’integrazione del reato di cui all’art. 580 c.p. anche le condotte meramente agevolative, comunque non si giustificherebbe, ad avviso del giudice rimettente, la previsione della medesima cornice edittale prevista per le condotte di istigazione che appaiono certamente più incisive, anche sotto il profilo causale, rispetto alla condotta di chi abbia esclusivamente contribuito al realizzarsi dell’altrui autonoma deliberazione. Pertanto la previsione sanzionatoria della reclusione da 5 a 10 anni risulterebbe incostituzionale per violazione dei principi di ragionevolezza e proporzionalità della pena. In definitiva i giudici milanesi evidenziano che una tale sanzione, sproporzionata rispetto all’offesa arrecata, impedirebbe inevitabilmente alla pena stessa di ottemperare alla funzione sua propria, costituzionalmente riconosciuta dall’art. 27 co. 3, volta alla rieducazione del reo.
7. I giudici milanesi concludono ritenendo che il procedimento non possa essere definito indipendentemente da una pronuncia della Corte costituzionale in merito ai profili di incostituzionalità dell’art. 580 c.p., nella parte in cui incrimina le condotte di aiuto e agevolazione in alternativa con quelle di istigazione, prescindendo da una valutazione circa l’effettivo contributo che queste abbiano avuto nella formazione del processo deliberativo del soggetto passivo. La norma del codice, come interpretata dal diritto vivente, considerando il suicidio come un fatto in sé riprovevole e il diritto alla vita tutelabile a prescindere dalla volontà del suo titolare, risulta porsi in contrasto con gli artt. 3, 13 co. 1 e 117 Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 2 e 8 CEDU in forza dei quali il diritto a porre fine alla propria vita costituisce esercizio di una libertà dell’individuo. Pertanto, conclude l’ordinanza in esame, la condotta che non alteri l’esercizio di questa libertà sotto il profilo deliberativo risulta del tutto inoffensiva e la sua sanzione irragionevole e sproporzionata, in violazione degli artt. 3, 13 co. 2, 25 co. 2, 27 co. 3 Cost.
[1] Cfr sent. Corte cost. n. 471/1990.
[2] Cfr sent. Corte cost. n. 238/1996 in cui la Corte affermava che gli interventi dello stato in materia di salute coinvolgono “un diritto inviolabile, quello della libertà personale, rientrante tra i valori supremi, quale indefettibile nucleo essenziale dell’individuo, non diversamente dal contiguo e connesso diritto alla vita e alla integrità fisica, con il quale concorre a creare la matrice prima di ogni altro diritto costituzionalmente protetto dalla persona”.
[3] Cfr sent. Trib. Di Roma sul caso Welby, in cui il GUP aveva rinvenuto il fondamento del diritto a decidere per la propria vita nell’art.13 Cost e il corrispondente limite dello Stato ad interferire in detto diritto, nell’art. 32 Cost. Il giudice aveva affermato che tale diritto non implica un riconoscimento della libertà di suicidarsi, quanto piuttosto l’inesistenza di un obbligo a curarsi. Cfr. altresì la sent. della Corte di cassazione nel caso Englaro nella quale si legge che “il diritto alla salute come tutti i diritti di libertà, implica la tutela del suo risvolto negativo: il diritto di perdere la salute, di ammalarsi, di non curarsi, di vivere le fasi finali della propria esistenza secondo canoni di dignità propri dell’interessato, finanche di lasciarsi morire”.
[4] Cfr sent. Corte cass. sez. 3 n. 4211/2007 e sent. Cass. n. 2367/2008 in cui è stato affermato che alla persona è riconosciuto il diritto “di indubbia rilevanza costituzionale, di non curarsi, anche se tale condizione la esponga al rischio della vita stessa”.
[5] Cfr sent. Corte cost. n. 307/1990 tra tutte, circa le vaccinazioni obbligatorie.
[6] V. ordinanza in esame, p. 9.
[7] Corte EDU, sez. IV, sent. 29 aprile 2002, ric. n. 2346/02, Pretty c. Regno Unito.
[8] Corte EDU, sez. I, sent. 20 novembre 2011, ric. n. 31322/07, Pres. Rozakis, Haas c. Svizzera.