3 dicembre 2018 |
Il caso Cappato, l'incostituzionalità differita e la dignità nell'autodeterminazione alla morte
Corte cost., ord. 24 ottobre 2018 (dep. 16 novembre 2018), n. 207, Pres. Lattanzi, Red. Modugno
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1. Con il deposito delle motivazioni dell’ordinanza n. 207 del 2018, con la quale è stata rinviata all’udienza pubblica del 24 settembre 2019 la trattazione delle questioni di legittimità costituzionale sollevate dalla Corte d’Assise di Milano, al fine di consentire al legislatore di disciplinare medio tempore la materia dell'aiuto al suicidio, la Corte costituzionale inaugura una strada nuova e coraggiosa sotto molteplici punti di vista: amplia i margini dell’autodeterminazione individuale, spostandone – nel rispetto dell’esigenza di bilanciare la salvaguardia del bene della vita – i confini oltre l’attuale perimetro garantito dall’art. 32, co. 2 Cost.; innova il catalogo delle tecniche decisorie, riconoscendo, pur non (ancora) dichiarando, la parziale illegittimità costituzionale dell’art. 580 c.p.; attualizza il dialogo con il Parlamento, al quale, pur riconoscendo la discrezionalità (vieppiù al cospetto di delicati bilanciamenti in materie eticamente sensibili), suggerisce tempi, modi e luoghi dell’intervento legislativo idoneo a colmare il ravvisato vulnus costituzionale.
Come è evidente, allora, l’interesse per il provvedimento, anticipato da un comunicato diffuso il 24 ottobre scorso (a ridosso dell’udienza nel quale la soluzione innovativa era stata preannunciata)[1], trascende i riflessi strettamente penalistici (sui quali, in questa sede, ci si concentrerà), toccando snodi di ragguardevole interesse non solo sul piano bioetico, filosofico, religioso e costituzionale in generale, ma anche – e soprattutto – sul terreno processuale degli strumenti di decisione del giudice delle leggi[2].
2. Un preliminare inquadramento della vicenda si rende indispensabile.
L’intervento dei giudici costituzionali trae origine, come è ben noto, dai dubbi di legittimità sollevati, con ordinanza 14 dicembre 2018[3], dalla Corte di Assise di Milano nell’ambito del processo a carico di Marco Cappato[4], imputato, con riferimento alla morte di Fabiano Antoniani (dj Fabo), sia per averne rafforzato il proposito suicidario, sia per averne materialmente agevolato l’esecuzione. Nel dettaglio, la tenuta dell’art. 580 c.p. è posta in discussione: a) nella parte in cui “incrimina le condotte di aiuto al suicidio in alternativa alle condotte di istigazione e, quindi, a prescindere dal loro contributo alla determinazione o rafforzamento del proposito di suicidio, per ritenuto contrasto con gli artt. 3, 13 comma 1 e 117 Cost., in relazione agli artt. 2 e 8 della Convenzione Europea Diritti dell’Uomo”; b) laddove “prevede che le condotte di agevolazione dell’esecuzione del suicidio, che non incidano sul processo deliberativo dell’aspirante suicida, siano sanzionabili con la pena della reclusione da 5 a 10 anni, senza distinzione rispetto alle condotte di istigazione, per ritenuto contrasto con gli artt. 3, 13, 25 comma 2 e 27 comma 3 Cost.”.
Vanno altresì ricordate le condizioni all’interno delle quali è maturata la scelta suicidaria. Fabiano Antoniani, nel 2014, a seguito di un grave incidente automobilistico, rimane tetraplegico e affetto da cecità permanente, non autonomo nella respirazione, nell’alimentazione e nell’evacuazione e in stato di costante e acuta sofferenza, lenibile solo mediante sedazione profonda; conserva tuttavia intatte le facoltà intellettive e dunque consapevole dell’irreversibilità della condizione, esprime la ferma volontà di porre fine alla sua esistenza, non scalfita in alcun modo dai numerosi tentativi di fargli cambiare idea da parte dei suoi cari (in particolare della madre e della fidanzata) ed anzi ribadita dapprima con uno sciopero della fame e della parola e successivamente con comunicazioni pubbliche.
In questa fase entra in contatto con Marco Cappato, il quale gli prospetta anzitutto la possibilità di interrompere in Italia i trattamenti di ventilazione, idratazione e nutrizione artificiale, con contestuale sottoposizione a sedazione profonda; a fronte del saldo proposito di recarsi all’estero per ottenere assistenza alla morte volontaria, Cappato decide di assecondare le richieste di Fabiano e di accompagnarlo, guidando un’autovettura appositamente predisposta, in Svizzera, ove, dopo un’ulteriore verifica da parte del personale della struttura prescelta delle sue condizioni di salute, del permanere del consenso e della capacità di assumere in via autonoma il farmaco che gli avrebbe procurato la morte, si compie, due giorni dopo il ricovero (esattamente il 27 febbraio 2017), il suicidio, realizzato azionando con la bocca uno stantuffo, attraverso il quale viene iniettato nelle vene il farmaco letale.
3. Nell’ordinanza in commento, una volta ricostruito l’iter processuale e dichiarate infondate le eccezioni di inammissibilità formulate dall’Avvocatura dello Stato, la Corte costituzionale, entrando nel merito, chiarisce anzitutto come la tesi dell’illegittimità costituzionale, sostenuta dalla Corte d’Assise di Milano, non possa essere condivisa “nella sua assolutezza” (§ 4); l’incriminazione dell’aiuto al suicidio non è pertanto ritenuta di per sé incompatibile con la Costituzione, trovando essa anzi una perdurante giustificazione (anche nell’ipotesi di chi ne agevoli «in qualsiasi modo» l’esecuzione”) nella finalità di “proteggere il soggetto da decisioni in suo danno”, creando intorno al soggetto ‘debole’ una sorta di “«cintura protettiva», inibendo ai terzi di cooperare in qualsiasi modo con lui” (§ 4).
Ancora più in particolare, l’incriminazione non è ritenuta in contrasto:
- con il diritto alla vita, riferito dalla Corte d’Assise all’art. 2 Cost. e all’art. 2 CEDU, visto che dai due articoli richiamati “discende il dovere dello stato di tutelare la vita di ogni individuo” e “non quello – diametralmente opposto – di riconoscere all’individuo la possibilità di ottenere dallo Stato o da terzi un aiuto a morire” (§ 5);
- con un generico “diritto all’autodeterminazione individuale, riferibile anche al bene della vita, che il rimettente fa discendere dagli artt. 2 e 13, primo comma, Cost.”, giacché è indubitabile che l’art. 580 c.p. “sia funzionale alla protezione di interessi meritevoli di tutela da parte dell’ordinamento”, segnatamente “alla tutela del diritto alla vita, soprattutto delle persone più deboli e vulnerabili, che l’ordinamento penale intende proteggere da una scelta estrema e irreparabile, come quella del suicidio”, assolvendo “allo scopo, di perdurante attualità, di tutelare le persone che attraversano difficoltà e sofferenze, anche per scongiurare il pericolo che coloro che decidono di porre in atto il gesto estremo e irreversibile del suicidio subiscano interferenze di ogni genere” e conservando, in quest’ottica, “una propria evidente ragion d’essere anche, se non soprattutto, nei confronti delle persone malate, depresse, psicologicamente fragili, ovvero anziane e in solitudine, le quali potrebbero essere facilmente indotte a congedarsi prematuramente dalla vita, qualora l’ordinamento consentisse a chiunque di cooperare anche soltanto all’esecuzione di una loro scelta suicida, magari per ragioni di personale tornaconto” (§ 6);
- con il “diritto di ciascun individuo al rispetto della propria vita privata”, ricondotto all’art. 8 CEDU, in ragione dell’ampio margine di apprezzamento riconosciuto dalla stessa Corte EDU agli Stati nella valutazione delle finalità e degli scopi che giustifichino possibili interferenze della pubblica autorità nell’esercizio di tale diritto, che ha portato a giustificare la presenza di incriminazioni generali dell’aiuto al suicidio nella gran parte delle legislazioni degli Stati membri del Consiglio d’Europa nella finalità – ascrivibile anche all’art. 580 c.p. italiano – “di protezione delle persone deboli e vulnerabili” (§ 7).
4. Ciò nonostante, prosegue la Corte costituzionale, non può non tenersi conto di situazioni, “inimmaginabili all’epoca in cui la norma incriminatrice fu introdotta, ma portate sotto la sua sfera applicativa dagli sviluppi della scienza medica e della tecnologia, spesso capaci di strappare alla morte pazienti in condizioni estremamente compromesse, ma non di restituire loro una sufficienza di funzioni vitali”, nelle quali l’incriminazione dell’aiuto al suicidio entra in contrasto con i principi costituzionali (§ 8), mettendo in discussione “le esigenze di tutela che negli altri casi giustificano la repressione penale dell’aiuto al suicidio” (§ 9).
Si fa riferimento alle eventualità in cui – come nella vicenda oggetto del giudizio - ad essere agevolato a procurarsi la morte sia una persona affetta da patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche ritenute assolutamente intollerabili, tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale ma pienamente capace di scegliere in maniera libera e consapevole (dunque di autodeterminarsi); proprio in queste circostanze, si prosegue, “l’assistenza di terzi nel porre fine alla sua vita può presentarsi al malato come l’unica via d’uscita per sottrarsi, nel rispetto del proprio concetto di dignità della persona, a un mantenimento artificiale in vita non più voluto e che egli ha il diritto di rifiutare in base all’art. 32, co. 2, Cost.” (§ 8).
A dire il vero, prosegue la Corte, al malato in queste condizioni si presenta anche la possibilità di lasciarsi morire richiedendo l’interruzione di trattamenti di sostegno vitale in atto e la contestuale sottoposizione a sedazione profonda continua; richiesta peraltro vincolante nei confronti dei terzi, sulla scorta di quanto riconosciuto dalla stessa giurisprudenza costituzionale con riferimento al peso e al valore del consenso informato nell’ambito del trattamento sanitario[5], dai giudici comuni, tanto in sede civile che penale (nei casi Englaro e Welby) [6], e soprattutto della disciplina oggi cristallizzata nella legge 22 dicembre 2017, n. 219 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento)[7].
Ricostruendo la trama normativa della legge 219, la Corte insiste nel ricordare come “la richiesta di sospensione dei trattamenti sanitari possa essere associata alla richiesta di terapie palliative, allo scopo di alleviare le sofferenze del paziente (art. 2, comma 1)”, rimarcando la possibilità di ricorrere alla “sedazione palliativa profonda continua in associazione con la terapia del dolore, per fronteggiare sofferenze refrattarie ai trattamenti sanitari”; non potendo tale disposizione non riferirsi anche alle sofferenze provocate al paziente dal suo legittimo rifiuto di trattamenti di sostegno vitale, quali la ventilazione, l’idratazione o l’alimentazione artificiali, l’effetto è quello di innescare “un processo di indebolimento delle funzioni organiche il cui esito – non necessariamente rapido – è la morte” (§ 8).
Allo stato, è invece preclusa al medico la pratica di trattamenti diretti a determinare la morte, cosicché i pazienti che versino nelle condizioni critiche sopra descritte sono costretti “a subire un processo più lento, in ipotesi meno corrispondente alla propria visione della dignità nel morire e più carico di sofferenze per le persone che gli sono care” (§ 9). Si tratta di quel processo di lenta agonia che Fabiano Antoniani aveva scartato, reputando tale “modalità di porre fine alla propria esistenza (…) non dignitosa e che i propri cari avrebbero dovuto condividere sul piano emotivo”, portandolo a insistere sulla richiesta di assistenza al suicidio, che gli avrebbe assicurato invece una morte rapida.
5. È su questa fattispecie, ritagliata con estrema precisione dalla Corte costituzionale, che si annidano i profili di illegittimità costituzionale dell’art. 580 c.p., i cui presupposti logico-argomentativi sono essenzialmente due:
a) il preminente valore riconosciuto alla vita, se “non esclude l’obbligo di rispettare la decisione del malato di porre fine alla propria esistenza tramite l’interruzione dei trattamenti sanitari – anche quando ciò richieda una condotta attiva, almeno sul piano naturalistico, da parte di terzi”, non può neanche “tradursi in un ostacolo assoluto, penalmente presidiato, all’accoglimento della richiesta del malato di un aiuto che valga a sottrarlo al decorso più lento – apprezzato come contrario alla propria idea di morte dignitosa – conseguente all’anzidetta interruzione dei presidi di sostegno vitale” (§ 9);
b) ancora, se pure è innegabile che malati irreversibili esposti a gravi sofferenze possano essere considerati soggetti vulnerabili da proteggere, una volta che l’ordinamento consideri costoro in grado “in grado, a certe condizioni, di prendere la decisione di porre termine alla propria esistenza tramite l’interruzione di tale trattamento, non si vede perché il medesimo soggetto debba essere ritenuto viceversa bisognoso di una ferrea e indiscriminata protezione contro la propria volontà quando si discuta della decisione di concludere la propria esistenza con l’aiuto di altri, quale alternativa reputata maggiormente dignitosa alla predetta interruzione” (§ 9).
Si ricava a questo punto il margine di incompatibilità fra il divieto assoluto di aiuto al suicidio e la libertà di autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie, comprese quelle finalizzate a liberarlo dalle sofferenze, scaturente dagli artt. 2, 13 e 32, co. 2: l’imposizione di “un’unica modalità per congedarsi dalla vita, senza che tale limitazione possa ritenersi preordinata alla tutela di altro interesse costituzionalmente apprezzabile, con conseguente lesione del principio della dignità umana, oltre che dei principi di ragionevolezza e di uguaglianza in rapporto alle diverse condizioni soggettive” (§ 9).
6. Perimetrata l’area d’incostituzionalità, la soluzione più immediata – la declaratoria di illegittimità dell’art. 580 c.p. in parte qua (laddove cioè l’aiuto venga prestato nei confronti di soggetti che versino nelle condizioni appena descritte) – è scartata dalla Corte per l’avvertita necessità di farsi carico del vuoto legislativo che ne scaturirebbe e degli abusi che potrebbero derivarne a carico dei soggetti più fragili (§ 10)[8]. In ragione di ciò, vengono evidenziati alcuni profili rispetto ai quali l’esigenza di una regolazione della materia appare fondamentale:
a) le modalità di verifica medica della sussistenza dei presupposti in presenza dei quali una persona possa richiedere l’aiuto;
b) la disciplina del relativo “processo medicalizzato”;
c) l’eventuale riserva esclusiva di somministrazione di tali trattamenti al servizio sanitario nazionale;
d) la possibilità di una obiezione di coscienza del personale sanitario coinvolto nella procedura.
Sempre nell’ordinanza, poi, pur riconoscendosi come i delicati bilanciamenti sottesi siano affidati, almeno in linea di principio, al Parlamento, ci si spinge a suggerire linee guida di intervento:
i) l’ambito nel quale inserire l’auspicata regolamentazione, volta a disciplinare le condizioni di attuazione della decisione di taluni pazienti di liberarsi delle proprie sofferenze attraverso la somministrazione di un farmaco atto a provocare rapidamente la morte: non già l’art. 580 c.p., quanto piuttosto la legge n. 219 del 2017, così “da inscrivere anche questa opzione nel quadro della «relazione di cura e di fiducia tra paziente e medico», opportunamente valorizzata dall’art. 1 della legge medesima” (§ 10);
ii) il collegamento della non punibilità al rispetto di una determinata procedura, delineandosi il modello di una vera e propria giustificazione procedurale (§ 10)[9];
iii) l’introduzione di una disciplina ad hoc per le vicende pregresse (come quella oggetto del giudizio a quo), che della non punibilità procedurale non potrebbero altrimenti beneficiare (§ 10);
iv) l’adozione di “opportune cautele affinché – nell’applicazione pratica della futura disciplina – l’opzione della somministrazione di farmaci in grado di provocare entro un breve lasso di tempo la morte del paziente non comporti il rischio di alcuna prematura rinuncia, da parte delle strutture sanitarie, a mettere il paziente nella concreta possibilità di accedere a cure palliative diverse dalla sedazione profonda continua, ove idonee a eliminare la sua sofferenza” (§ 10).
7. Quanto alla tecnica decisoria, la Corte abbandona la strada tradizionalmente seguita in situazioni analoghe, quella cioè della declaratoria di inammissibilità della questione sollevata, accompagnata da un monito al legislatore affinché rimuova il ravvisato vulnus adottando la necessaria disciplina legislativa; la ragione della scelta risiede nel volere evitare l’effetto che ne sarebbe conseguito, quello cioè di “lasciare in vita – e dunque esposta a ulteriori applicazioni, per un periodo di tempo non preventivabile – la normativa non conforme a Costituzione”, sino al momento in cui non venga sollevata una nuova questione di legittimità costituzionale, e quindi – in buona sostanza – la condanna di Marco Cappato (§ 11).
La soluzione che, “facendo leva sui propri poteri di gestione del processo costituzionale”, la Corte escogita per contemperare l’esigenza del caso concreto con quella, di carattere sistematico, di “lasciare al Parlamento la possibilità di assumere le necessarie decisioni rimesse in linea di principio alla sua discrezionalità – ferma restando l’esigenza di assicurare la tutela del malato nei limiti indicati dalla presente pronuncia”, trae ispirazione da precedenti della Corte Suprema del Canada (6 febbraio 2015, Carter contro Canada) e della Corte Suprema del Regno Unito (25 giugno 2014, Nicklinson e altri) e consiste nel disporre il rinvio del giudizio in corso, con contestuale fissazione della discussione delle questioni, all’udienza del 24 settembre 2019, “in esito alla quale potrà essere valutata l’eventuale sopravvenienza di una legge che regoli la materia in conformità alle segnalate esigenze di tutela” (§ 11).
Sul piano processuale ne deriva, da una parte, la sospensione del giudizio a quo e, dall’altra, con riguardo agli altri giudizi, l’invito rivolto ai singoli giudici a valutare la rilevanza e la non manifesta infondatezza, alla luce di quanto indicato nell’ordinanza in commento, di analoghe questioni di legittimità costituzionale dell’art. 580 c.p., così da evitarne l’applicazione in parte qua (§ 11). Sul fronte istituzionale, sempre secondo i giudici, l’opzione prescelta consente al Parlamento di assumere, “in uno spirito di leale e dialettica collaborazione istituzionale”, ogni opportuna riflessione e iniziativa, evitando che “una disposizione continui a produrre effetti reputati costituzionalmente non compatibili” e al contempo scongiurando “possibili vuoti di tutela di valori, anch’essi pienamente rilevanti sul piano costituzionale” (§ 11).
* * *
8. Rinviando a un più articolato commento sugli effetti dell'ordinanza e sulla ’tenuta’ dell’originale soluzione individuata dalle Corte costituzionale alla prova della “leale collaborazione” del Parlamento, si può in questa sede avanzare solo qualche breve considerazione a primissima lettura, distinguendo due piani di valutazione: sostanziale e metodologico.
8.1. Partendo dal primo, va considerato come l’elemento centrale della pronuncia è indubbiamente rappresentato dall’avere i giudici di palazzo della Consulta – dopo avere ribadito in termini più generali la non incompatibilità dell’incriminazione dell’aiuto al suicidio con la Costituzione e con le norme convenzionali – selezionato, mediante un chirurgico ritaglio del petitum, una precisa area di non conformità costituzionale dell’art. 580 c.p. nella sua originaria formulazione, coincidente con la peculiare condizione della persona affetta da malattia incurabile e produttiva di gravi sofferenze, la quale, ancora pienamente capace, completamente informata e libera nella scelta (non nella possibilità di farlo autonomamente), possa darsi legittimamente la morte attraverso un rifiuto iniziale o un’interruzione in itinere dei trattamenti sanitari necessari alla sua sopravvivenza. Si tratta di una soluzione che in qualche modo consente di individuare un appiglio nella legislazione introdotta a fine 2017 con la legge n. 219 e soprattutto di ancorare il giudizio di costituzionalità anche al parametro – pur non espressamente evocato nell’ordinanza di rimessione ma abbondantemente richiamato in motivazione dalla Corte di Assise di Milano – dell’art. 32 Cost. e della libertà di autodeterminazione terapeutica sino al punto di lasciarsi morire.
Ebbene, allorquando il malato, per interrompere le sofferenze e darsi la morte, è costretto ad attraversare uno stato di degradazione della persona, lesivo della propria dignità (da salvaguardare e tutelare a maggior ragione nella fase terminale della vita, ove si è ancora più vulnerabili e indifesi), il divieto assoluto di aiuto al suicidio di cui all’art. 580 c.p. integra una limitazione dell’autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie, comprese quelle appunto finalizzate a liberarlo dalle sofferenze e a condurlo alla morte, e dunque una lesione degli artt. 2, 13 e 32 Cost.; nell’indistinto divieto è ravvisata pure un’irragionevole disparità di trattamento fra malati incurabili che sono comunque in grado di togliersi la vita da soli e malati altrettanto incurabili che invece, impossibilitati a farlo, sono costretti a sottoporsi al percorso scaturente dall’interruzione del trattamento di sostegno vitale, con l’ulteriore sotto-sperequazione fra coloro ai quali l’interruzione dei trattamenti assicuri comunque una morte rapida e coloro che invece, come nel caso di Fabiano Antoniani, siano costretti a passare attraverso un drammatico decorso agonico.
A ben vedere, l’ordinanza sembra muoversi nel sottile crinale – ben messo in luce in udienza e ribadito nelle memorie di parte[10] - fra il suicidio quale “scelta drammatica e tragica per porre fine alle sofferenze dell’anima” e il “suicidio medicalmente assistito come scelta tragica e terminativa per porre fine alle sofferenze del corpo, di un corpo che è diventato prigione dell’anima”, che porta a dubitare che il concetto stesso di suicidio cui fa riferimento l’art. 580 c.p. nella sua originaria formulazione (e la cui agevolazione era punita nelle intenzioni del legislatore del 1930, epoca nella quale, come si è detto, non erano immaginabili situazioni analoghe) sia estensibile a casi come quello oggetto del giudizio.
Certo, permane sullo sfondo, meritevole di ulteriori approfondimenti, il rapporto con l’art. 32, co. 2 Cost., riconosciuto quale cardine del diritto di rifiutare o interrompere tutte e solo le cure sino al punto di lasciarsi morire, e soprattutto con la non punibilità di colui il quale assecondi la volontà del paziente, che la legge 219 del 2017 continua a circoscrivere, per l’appunto, all’ambito del rapporto terapeutico; indici che potrebbero rendere problematica l’estensione della copertura costituzionale dell’irresponsabilità penale al di fuori del rapporto medico-paziente e oltre i limiti dell’interruzione di trattamenti medici[11].
In quest’ottica, il percorso argomentativo seguito dalla Corte può contribuire a stemperare il rigore formalistico della distinzione, profilando una diversa – più rapida, meno sofferta, maggiormente corrispondente alla percezione soggettiva di dignità – modalità di esecuzione, in ben precise circostanze, del diritto costituzionale, già cristallizzato nella legge n. 219 del 2017 (e prima ancora riconosciuto in sede giurisprudenziale), di lasciarsi morire interrompendo trattamenti vitali, non solo previa sedazione profonda continua (in termini più afflittivi, sul piano oggettivo, e potenzialmente meno corrispondenti all’idea di dignità nel morire, su quello soggettivo)[12].
Per tale via, a nostro avviso, la Corte non intende legittimare un diritto di morire quanto invece valorizzare la massima declinazione della tutela della dignità umana, rafforzandone lo spettro applicativo, esteso alla libertà di autodeterminazione nelle situazioni di estrema vulnerabilità della persona, legate alla fase terminale della vita (non tanto un diritto a morire con dignità, quanto piuttosto un diritto alla piena dignità anche nella morte).
8.2. Venendo al profilo metodologico, va subito osservato come la Corte costituzionale abbia in più occasioni messo in risalto talune distonie dell’ordinanza di rimessione, ‘bacchettando’ la Corte di Assise di Milano: rimarcando la non condivisibilità, “nella sua assolutezza”, della tesi della Corte rimettente (§ 4); smentendo, nel dettaglio, il ravvisato contrasto dell’assetto di incriminazione delineato dall’art. 580 c.p. con i parametri evocati (§§ 5, 6 e 7); ritagliando in termini più circoscritti e aderenti alla vicenda da cui il giudizio ha tratto origine il profilo di dubbia compatibilità costituzionale (§ 9); sottolineando come l’art. 32, co. 2 Cost., seppure più volte richiamato in motivazione, non sia stato evocato come parametro nel dispositivo (§ 8), così come non è stato fatto riferimento dai giudici milanesi all’art. 3 Cost. in rapporto alla questione principale, pur rilevando esso quale fondamento della tutela della dignità umana (§ 9).
Più in generale, è evidente come l’ordinanza, pur nella sua lodevole chiarezza espositiva, si presti, per l’apprezzabile densità contenutistica, a molteplici chiavi di lettura. Non v’è dubbio, tuttavia, che la valutazione dell’opzione innovativa adottata sul piano della tecnica decisoria – un’articolata ordinanza di rinvio, con contestuale fissazione della data dell’udienza pubblica nella quale proseguire la trattazione e conseguente messa in mora del Parlamento – si intrecci con le sottese esigenze di carattere contenutistico: rappresenta infatti il necessario pendant, sul piano processuale, di quanto deciso nel merito, concretizzando l’esigenza di adottare una soluzione in grado di ‘blindare’ gli effetti di avere solo riconosciuto, e non dichiarato, la parziale incostituzionalità dell’art. 580 c.p.
L’originale scelta compiuta da parte dei giudici costituzionali dimostra in ogni caso una notevole sensibilità, nei confronti delle esigenze di tutela dei diritti individuali e del rispetto delle prerogative costituzionali e dei rapporti fra poteri dello Stato. Si è così fatta carico delle conseguenze di una declaratoria secca di incostituzionalità dell’art. 580 c.p. sugli stessi soggetti deboli e vulnerabili, preoccupandosi di non lasciarli esposti, in assenza di una regolamentazione normativa, ad abusi e strumentalizzazioni di carattere patrimoniale; ma si è pure preoccupata di segnalare il rischio che la somministrazione di farmaci in grado di provocare entro un breve lasso temporale la morte possa rappresentare un’impropria alternativa a disagi ed esigenze ‘organizzative’ (si pensi all’impellenza di liberare posti letto) ovvero rappresentare l’esito dell’incapacità delle strutture di fornire adeguata assistenza nel coinvolgimento in un percorso di cure palliative.
Come visto, la Corte si è anche preoccupata delle ricadute pratiche che l’adozione della consolidata tecnica decisoria seguita in situazioni similari – declaratoria di inammissibilità, accompagnata da un monito al legislatore – avrebbe comportato nell’ambito del giudizio a quo, a partire dalla condanna dell’imputato (con l’ulteriore coinvolgimento, già preannunciato dal pubblico ministero in caso di rigetto della questione di costituzionalità, della madre, della fidanzata dell’Antoniani e della madre di quest’ultima), auspicando, per le medesime ragioni, una disciplina ad hoc per le ipotesi pregresse, così da consentire anche rispetto ad esse l’estensione della non punibilità.
Questa sensibilità si è infine tradotta, sul piano pratico, in una formula innovativa, suggerita da soluzioni adottate in situazioni simili da parte di giudici supremi di altri Paesi, che ha il merito, messo in luce in sede di primissimo commento, “di risolvere una difficile questione”, introducendo “un nuovo strumento decisorio, potenzialmente gravido di sviluppi, che potremmo definire ad «incostituzionalità differita»”[13].
Rinviando la trattazione - o meglio, guardando alla sostanza, differendo la declaratoria della ravvisata illegittimità costituzionale in parte qua dell’art. 580 c.p. – nell’attesa dell’esercizio da parte del Parlamento delle prerogative si eleva a modello decisorio il canone della separazione dei poteri, prendendo sul serio quello “spirito di leale e dialettica collaborazione istituzionale” richiamato nella parte finale dell’ordinanza. Nel fare ciò, la Corte non ha mancato tuttavia di far sentire la sua voce; nel dettare le coordinate del futuro intervento legislativo, che integreranno il parametro di valutazione del suo successivo sindacato, ha intrapreso quell’opera di bilanciamento di interessi e beni contrapposti che il legislatore, nell’esercizio della sua discrezionalità, sarà chiamato a completare (si badi: “ferma restando l’esigenza di assicurare la tutela del malato nei limiti indicati dalla presente pronuncia”; § 11). Emblematica l’individuazione dettagliata dei plurimi profili critici che necessitano di regolamentazione e, sul fronte penalistico, l’inequivoca presa di posizione per una ‘soluzione tecnica’, quella della scriminante procedurale, della quale viene suggerita persino la collocazione più idonea (la legge n. 219 del 2017; all’art. 2, aggiungiamo noi, auspicando altresì che si sappiano escogitare adeguati rimedi per scongiurare eccessi di burocratizzazione che possano spersonalizzare e rendere mere formalità le procedure da seguire per legittimare agevolazioni al suicidio).
8.3. Per concludere. Ci si è interrogati sulla vincolatività e sugli effetti del nuovo tipo di decisione a carico del legislatore, dei giudici diversi da quello a quo e della stessa Corte costituzionale[14].
Non è questa la sede per approfondire il punto, di pertinenza eminentemente costituzionalistica. Ci si può limitare a rilevare come non appaia elemento di mero dettaglio la data individuata per la futura trattazione della questione: il 24 settembre 2019, infatti, la Corte manterrà ancora l’identica composizione odierna, di talché è agevole ipotizzare che i ravvisati profili di incompatibilità costituzionale – nei limiti che sono stati sottolineati – non potranno che condurre, qualora il legislatore resti inerte o licenzi un testo ritenuto inidoneo a rimuovere i ravvisati profili di incompatibilità costituzionale ovvero ancora ometta di prevedere una disciplina transitoria adeguata a scongiurare la punibilità nel giudizio, a una dichiarazione di incostituzionalità dell’art. 580 c.p. e, se del caso, anche della nuova, insoddisfacente normativa[15].
[1] Pubblicato tempestivamente in questa Rivista, 25 ottobre 2018 e commentato da A. Ruggeri, Pilato alla Consulta: decide di non decidere, perlomeno per ora… (a margine di un comunicato sul caso Cappato), in Consulta on line, 26 ottobre 2018, da N. Fiano, Caso Cappato, vuoti di tutela costituzionale. Un anno al Parlamento per colmarli. Riflessioni a caldo a partire dal modello tedesco, in Forum costituzionale, 25 ottobre 2018 e da U. Adamo, Sull’aiuto al suicidio la Corte ha rinviato la palla al Parlamento, in lacostitzione.info, 26 ottobre 2018.
[2] Non è un caso che infatti i commenti all’ordinanza a primissima lettura si siano incentrati, in via principale, proprio sulla valutazione della tecnica seguita dalla Corte costituzionale nella vicenda, restando sullo sfondo il profilo sostanziale e la scelta nel merito: così, ad esempio, M. Bignami, Il caso Cappato alla Corte costituzionale: un’ordinanza ad incostituzionalità differita, in Questione giustizia, 19 novembre 2018, e A. Ruggeri, Venuta alla luce alla Consulta l’ircocervo costituzionale (a margine della ordinanza n. 207 del 2018 sul caso Cappato), in Consulta on line, 20 novembre 2018; U. Adamo, La Corte è attendista…«facendo leva sui poteri di gestione del processo costituzionale». Nota a Corte cost., ord. n. 207 del 2018, in Forum di Quaderni costituzionali, 23 novembre 2018; lo stesso Autore insiste invece sul merito della decisione in altro contributo (U. Adamo, In tema di aiuto al suicidio la Corte intende favorire l’abbrivio di un dibattito parlamentare, in Diritti comparati, 23 novembre 2018). Una dettagliata ricostruzione del contenuto dell’ordinanza e dei profili innovativi introdotti, tanto sul piano contenutistico quanto su quello procedurale, in F. Viganò, The Italian Constitutionale Court on assisted suicide, in Criminal Justice Network, 27 novembre 2018.
[3] In questa Rivista, 16 febbraio 2018, con osservazioni di M. Forconi, La Corte di Assise di Milano nel caso Cappato: sollevata questione di legittimità costituzionale dell’art. 580 c.p., fasc. 2/2018, p. 182 ss.; commenti all’ordinanza di rimessione anche in S. Gianello, La strada impervia del giudizio incidentale. Note all’ordinanza di rimessione nel processo “Cappato”, in www.diritticomparati.it, 26 febbraio 2018; C. Magnani, L’ordinanza “Cappato”. L’aiuto al suicidio davanti alla Consulta, in www.forumcostituzionale.it, 22 febbraio 2018; M. D’Amico, Scegliere di morire “degnamente” e “aiuto” al suicidio: i confini della rilevanza penale dell’art. 580 c.p. davanti alla Corte costituzionale, in Corr. giur., 2018, 737 ss.; P. Fimiani, La responsabilità penale nelle scelte di fine vita in attesa della Corte costituzionale nel caso Cappato, in questa Rivista, 22 maggio 2018; A. Massaro, Il “caso Cappato” di fronte al giudice delle leggi: illegittimità costituzionale dell’aiuto al suicidio, in questa Rivista, 14 giugno 2018; D. Pulitanò, Il diritto penale di fronte al suicidio, ivi, fasc. 7-8/2018, 57 ss.; R. Bartoli, Ragionevolezza e offensività nel sindacato di costituzionalità dell’aiuto al suicidio, ivi, fasc. 10/2018, p. 97 ss.; S. Bissaro, Le (non insuperabili) strettoie del giudizio incidentale alla prova del caso “Cappato”, in Forum di Quaderni costituzionali, 28 luglio 2018; G. Stampanoni Bassi, La questione di legittimità costituzionale dell’art. 580 c.p. sollevata dalla Corte di Assise di Milano nel processo a Marco Cappato, in Giurispredenza penale web, 10 settembre 2018; I. Pellizzone, Aiuto al suicidio, dal codice Rocco alla Carta costituzionale alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, ivi, 17 settembre 2018; C. Tripodina, Quale morte per gli “immersi in una notte senza fine”? Sulla legittimità costituzionale dell’aiuto al suicidio e sul “diritto a morire per mano di altri”, in BioLaw Journal – Rivista di BioDiritto, n. 3/2018, p. 139 ss.
[4] Sulla vicenda, in termini generali, cfr. P. Bernardoni, Tra reato di aiuto al suicidio e diritto ad una morte dignitosa: la Procura di Milano richiede l’archiviazione per Marco Cappato, in questa Rivista, fasc. 5/2017, p. 381 ss.; Id., Aiuto al suicidio: il g.i.p. di Milano rigetta la richiesta di archiviazione e dispone l’imputazione di Marco Cappato, ivi, fasc. 7-8/2017, p. 256 ss.; R.E. Omodei, L’istigazione e aiuto al suicidio tra utilitarismo e paternalismo: una visione costituzionalmente orientata dell’art. 580 c.p., ivi, fasc. 10/2017, p. 143 ss.; M. D’Amico, Sulla (il)legittimità costituzionale della norma penale che incrimina l’istigazione al suicidio: alcune considerazioni critiche a margine del caso Cappato, in Giurisprudenza Penale Web, 11/2017; A. Santosuosso – P. Belloli, Paradossi nel procedimento Cappato. Tre aporie generate dall’art. 580 c.p. a proposito di aiuto al suicidio, cit.; A. Alberti, Il reato d’istigazione o aiuto al suicidio davanti alla Corte costituzionale. Il “caso Cappato” e la libertà di morire, in Forum di Quaderni costituzionali, 20 marzo 2018.
[5] In particolare, Corte cost., sent. 23 dicembre 2008, n. 438, in Giur. cost., 2008, p. 4945 ss. e 26 giugno 2002, n. 282, ivi, 2002, p. 2012 ss.
[6] Il riferimento è alla sentenza con la quale Prima Sezione civile della Cassazione, nella vicenda Englaro, ha autorizzato, nell’ottobre del 2007, la sospensione di nutrizione e idratazione artificiale di un paziente incapace (Cass. Sez. I civile, 4 ottobre 2007, in Guida dir., n. 43/2007, p. 29 ss.) e a quello con cui il GUP presso il Tribunale di Roma il 23 luglio del 2007 ha deciso il caso Welby, prosciogliendo l’anestesista Mario Riccio dall’imputazione (coatta) di omicidio del consenziente (GUP presso il Tribunale di Roma, sent. 23 luglio 2007, n. 2049, in Cass. pen., 2008, p. 1791 ss.); per una disamina dei risvolti penalistici dei due provvedimenti sia consentito rinviare a C. Cupelli, Diritti del paziente e doveri del medico nelle “scelte di fine vita”, in Crit. dir., 2011, p. 274 ss.
[7] Sulla legge n. 219 del 2017, si rinvia ai commenti di C. Tripodina, Tentammo un giorno di trovare un modus moriendi che non fosse il suicidio né la sopravvivenza. Note a margine della legge italiana sul fine vita (n. 219/2017), in Quad. cost., 1/2018 (anticipato in www.forumcostituzionale.it, 12 gennaio 2018); B. Liberali, Prime osservazioni sulla legge sul consenso informato e sulle DAT: quali rischi derivanti dalla concreta prassi applicativa?, in Rivista di Diritti comparati, n. 3/2017, p. 262 ss.; Id., La problematica individuazione e il ruolo dei soggetti terzi coinvolti nella relazione di cura fra medico e paziente nella nuova disciplina sul consenso informato e sulle DAT, in Forum di Quaderni costituzionali, 25 giugno 2018; U. Adamo, Consenso informato e disposizioni anticipate di trattamento: finalmente la legge, in lacostituzione.info, 15 dicembre 2017.; Id., Il vuoto colmato. Le disposizioni anticipate di trattamento trovano una disciplina permissiva nella legge statale, in Rivista AIC, n. 3/2018; Id., Costituzione e fine vita. Disposizioni anticipate di trattamento ed eutanasia, Milano, 2018, spec. 81 ss.; D. Paris, Legge sul consenso informato e le DAT: è consentita l’obiezione di coscienza del medico?, in Forum – La legge n. 219 del 2017. Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento, in BioLaw Journal – Rivista di BioDiritto, 1/2018; D. Carusi, La legge sul biotestamento: una luce e molte ombre, in Corr. giur., 2018, 293 ss.; R. Calvo, La nuova legge sul consenso informato e sul c.d. biotestamento, in Studium iuris, 2018, 689 ss.; P. Borsellino, “Biotestamento”: i confini della relazione terapeutica e il mandato di cura, in Famiglia e diritto, 2018, 789 ss.; G. Baldini, L. n. 219/2017 e Disposizioni anticipate di trattamento (DAT), ivi, 803 ss.; A. Arfani, Disposizioni anticipate di trattamento e ruolo del fiduciario, ivi, 815 ss.; L. D’Avack, Il dominio delle biotecnologie. L’opportunità e i limiti dell’intervento del diritto, Torino, 2018, spec. 129 ss.; nella prospettiva penalistica, in particolare S. Canestrari, I fondamenti del biodiritto penale e la legge 22 dicembre 2017, n. 219, in Riv. it. dir. proc. pen., 2018, p. 55 ss.; O. Di Giovine, Procreazione assistita, aiuto al suicidio e biodiritto in generale: dagli schemi astratti alle valutazioni in concreto, in Dir. pen. proc., 2018, 917 ss.; G.M. Flick, Dignità del vivere e dignità nel morire. Un (cauto) passo avanti, in Cass. pen., 2018, 2302 ss.; L. Eusebi, Decisioni sui trattamenti sanitari o «diritto di morire»? I problemi interpretativi che investono la legge n. 219/2017 e la lettura del suo testo nell’ordinanza di rimessione alla Corte costituzionale dell’art. 580 c.p., in Riv. it. med. leg., 2018, 415 ss.; il contenuto del provvedimento, in taluni profili di specifico interesse oggetto di quesiti formulati dal Ministero della Salute, è stato altresì oggetto di analisi nel Parere reso dalla Commissione speciale del Consiglio di Stato nell’adunanza del 18 luglio 2018 (reperibile on line sul sito giustizia-amministrativa.it).
[8] Si segnala in particolare il rischio che “qualsiasi soggetto – anche non esercente una professione sanitaria – potrebbe lecitamente offrire, a casa propria o a domicilio, per spirito filantropico o a pagamento, assistenza al suicidio a pazienti che lo desiderino, senza alcun controllo ex ante sull’effettiva sussistenza, ad esempio, della loro capacità di autodeterminarsi, del carattere libero e informato della scelta da essi espressa e dell’irreversibilità della patologia da cui sono affetti”.
[9] Per un inquadramento sistematico del concetto di giustificazione procedurale, con appropriati riferimenti al vuoto di tutela nella formulazione attuale dell’art. 580 c.p., si rinvia all’ampio lavoro di A. Sessa, Le giustificazioni procedurali nella teoria del reato. Profili dommatici e di politica criminale, Napoli, 2018.
[10] Ci si riferisce, in particolare, alle Note di udienza presentate da V. Manes all’udienza pubblica del 23 ottobre 2018, consultabili sul sito dell’Associazione Luca Coscioni (https://www.associazionelucacoscioni.it/wp-content/uploads/2018/11/Corte-costituzionale-–-note-di-udienza-del-23-ottobre-2018-Prof.-Avv.-V.-Manes.pdf).
[11] Sul punto, C. Tripodina, Quale morte per gli “immersi in una notte senza fine”? Sulla legittimità costituzionale dell’aiuto al suicidio e sul “diritto a morire per mano di altri”, cit., p. 145 ss.; D. Pulitanò, Il diritto penale di fronte al suicidio, cit., p. 71, pur consapevole della netta differenza fattuale e giuridica fra la posizione della “persona (il quisque de populo)” cui sia richiesto agevolare il suicidio di altri e quella del “medico che ha il dovere di staccare la spina, interrompere la terapia rifiutata”, ritiene tuttavia ciò secondario “rispetto all’identità fattuale delle situazioni sotto gli aspetti determinanti per la valutazione dei reali bisogni di tutela di chi pensa al suicidio: l’irreversibile compromissione della salute, la gravità della sofferenza, la dipendenza della vita da un trattamento che potrebbe essere rifiutato”. In tale specifica situazione, “rifiuto di cure e suicidio – pur essendo strade fattualmente diverse– sono equivalenti rispetto ai diritti in gioco, la vita e la libertà di autodeterminazione della persona” e “i principi costituzionali additano la prevalenza del diritto d’autodeterminazione: interpretabile non come diritto a morire, ma (in modo meno paradossale e più ragionevole) come diritto a morire con dignità”; così, si prosegue, “nei casi in cui sarebbe doverosa (per il medico) l’interruzione del trattamento rifiutato, ancorché necessario quoad vitam, l’incriminazione dell’aiuto al suicidio non risponde a una reale funzione di tutela della vita”, potendosi ritenere – valorizzando il principio di uguaglianza/ragionevolezza come parametro costituzionale - la “non offensività dell’aiuto al suicidio, rispetto alla vita di chi lo abbia richiesto invece di chiedere (come pure avrebbe potuto) l’interruzione delle cure che lo tengono in vita”.
In senso non dissimile, si è sostenuto che “se un individuo può darsi la morte rifiutando i trattamenti sanitari – il che significa che sono questi trattamenti sanitari a tenerlo artificialmente in vita – allora può legittimamente scegliere di darsi la morte anche (…) avvalendosi della volontaria collaborazione di altre persone, le quali pertanto non potranno essere incriminate ai sensi dell’art. 580 c.p. Se invece non può darsi la morte rifiutando i trattamenti sanitari – il che significa che tali terapie non sono necessarie al fine di tenerlo in vita – allora neanche può avvalersi legittimamente dell’attività agevolativa svolta da altre persone, le quali pertanto, qualora prestassero la loro collaborazione, sarebbero punibili ai sensi dell’art. 580 c.p.”. In sostanza, il legislatore non potrebbe legittimamente vietare l’eutanasia attiva consensuale qualora essa rappresenti una via alternativa alla morte per rifiuto del trattamento sanitario; una pronuncia di accoglimento nel caso Cappato da parte della Corte costituzionale dovrebbe quindi giungere a “scriminare le condotte di agevolazione soltanto se intervengono in circostanze di particolare sofferenza umana, quali sono quelle legate al fatto che una persona è tenuta artificialmente in vita dalle terapie mediche; e di lasciare invariata la portata incriminatrice della fattispecie ex art. 580 c.p. in tutti gli altri casi di agevolazione” (A. Alberti, Il reato d’istigazione o aiuto al suicidio davanti alla Corte costituzionale, cit., 10 ss.).
In una prospettiva di riforma degli artt. 579 e 580 c.p. che, in chiave mediana, valorizzi – attraverso percorsi procedimentali – non solo l’autodeterminazione ma anche la possibile vulnerabilità del soggetto, propone R. Bartoli, Ragionevolezza e offensività nel sindacato di costituzionalità dell’aiuto al suicidio, cit., p. 109 ss. una “distinzione a seconda che omicidio del consenziente e aiuto al suicidio abbiamo come destinatari soggetti «non vulnerabili» oppure soggetti vulnerabili, per cui nella prima prospettiva si potrebbe continuare ad affermare la centralità e prevalenza della vita, mentre nella seconda si potrebbe riconoscere spazio all’autodeterminazione del soggetto in virtù della particolare situazione del soggetto, proteggendo l’autodeterminazione mediante procedure di verifica rispetto all’autenticità e alla libertà della decisione”.
[12] L’ordinanza della Corte costituzionale può essere letta quale primo passo del cammino di costruzione di un diritto fondamentale all’aiuto nel morire (distinto dal diritto di morire invocato nell’ordinanza di rimessione), il cui pieno sviluppo è rimesso alla decisione legislativa, così come prospettato da M. Donini, La necessità di diritti infelici. Il diritto di morire come limite all’intervento penale, in questa Rivista, 15 marzo 2017, p. 14 ss.
[13] M. Bignami, Il caso Cappato alla Corte costituzionale: un’ordinanza ad incostituzionalità differita, cit., p. 1. In senso più critico, A. Ruggeri, Venuto alla luce alla Consulta l’ircocervo costituzionale, cit., p. 1, ravvisa “una ordinanza quoad formam che è però in tutto e per tutto una sentenza (di accoglimento) quoad substantiam; non a caso, d’altronde, delle sentenze riproduce la struttura, con la consueta partizione interna (tra ritenuto in fatto e considerato in diritto) che le connota. Un «ibrido» frutto – a dire della Corte – dei «poteri di gestione del processo costituzionale» che le sono riconosciuti, senza che peraltro ne risulti definita tanto la natura quanto la efficacia”.
[14] Su posizioni contrapposte, trai primi commentatori, M. Bignami, Il caso Cappato alla Corte costituzionale: un’ordinanza ad incostituzionalità differita, cit. e A. Ruggeri, Venuto alla luce alla Consulta l’ircocervo costituzionale, cit.
[15] In questo senso, M. Bignami, Il caso Cappato alla Corte costituzionale: un’ordinanza ad incostituzionalità differita, cit., p. 9.