ISSN 2039-1676


18 luglio 2017 |

Aiuto al suicidio: il g.i.p. di Milano rigetta la richiesta di archiviazione e dispone l’imputazione di Marco Cappato

Ordinanza del g.i.p. di Milano, 10 luglio 2017, giud. Gargiulo, imp. Cappato

Contributo pubblicato nel Fascicolo 7-8/2017

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1. Con l’ordinanza in esame, il giudice per le indagini preliminari di Milano ha rigettato le richieste avanzate dalla Procura e dai difensori di Marco Cappato nel procedimento che lo vede coinvolto per l’aiuto prestato a Fabiano Antoniani (alias DJ Fabo) nella realizzazione del suicidio. Il g.i.p., in esito ad un’articolata argomentazione, impone ai p.m. di formulare l’imputazione nei confronti di Cappato sia per la condotta di “aiuto”, sia con riferimento al “rafforzamento” del proposito suicida che questi avrebbe operato sull’Antoniani.

 

2. In attesa di poter meglio approfondire i complessi temi oggetto della pronuncia, ci limitiamo qui a fornire una breve panoramica delle argomentazioni sviluppate dal giudice a sostegno della sua decisione.

Molto in breve. La Procura aveva originariamente chiesto al g.i.p. l’archiviazione della posizione dell’indagato sulla base di un duplice ordine di argomentazioni: da un lato, una interpretazione restrittiva della fattispecie di “partecipazione materiale” di cui all’art. 580 c.p., tale da escludere dall’alveo dell’incriminazione le condotte poste in essere dall’indagato; dall’altro, una interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente orientata della norma stessa alla luce del “diritto ad una morte dignitosa” ricavato da una lettura integrata di varie norme costituzionali e convenzionali, che agirebbe come causa di giustificazione atipica nel caso di specie. Premessa di tutto il ragionamento era che la condotta posta in essere dal Cappato costituisse una mera “partecipazione materiale” al suicidio di DJ Fabo, e che fosse sicuramente da escludersi qualsiasi forma di istigazione al suicidio o anche solo di rafforzamento del proposito suicida di quest’ultimo (Il testo della richiesta di archiviazione si può leggere in allegato a P. Bernardoni, Tra reato di aiuto al suicidio e diritto ad una morte dignitosa: la Procura di Milano richiede l’archiviazione per Marco Cappato, in questa Rivista, 8 maggio 2017).

A seguito della fissazione di un’udienza da parte del g.i.p., la Procura e i difensori hanno depositato due memorie volte a sollecitare, in esito ad itinerari argomentativi largamente coincidenti, la formulazione di una questione di legittimità costituzionale dell’art. 580 c.p. da parte del giudice. I principali argomenti proposti dalle parti sono riconducibili, in buona sostanza, all’esistenza di un diritto all’autodeterminazione ed alla dignità avente rango costituzionale, che risulterebbe violato per effetto del divieto incondizionato di aiuto al suicidio posto dalla norma in questione (la memoria della Procura è reperibile in allegato a G. Stampanoni Bassi, Aiuto al suicidio: nel procedimento a carico di Marco Cappato la Procura di Milano chiede che venga sollevata questione di legittimità costituzionale, in www.giurisprudenzapenale.com, 6 luglio 2017; mentre quella dei difensori è allo stato inedita).

 

3. L’ordinanza che si può leggere in allegato si pone, invece, in una prospettiva del tutto diversa. Innanzitutto, dopo aver ricostruito il quadro fattuale[1], il giudice si inoltra nell’analisi del contesto giuridico in cui le condotte poste in essere dal Cappato debbono trovare collocazione.

Il g.i.p. milanese si mantiene sempre aderente all’unica pronuncia della Cassazione attinente al caso in esame, i cui esiti erano stati oggetto di parziale revisione da parte dei pubblici ministeri[2]. In particolare, il g.i.p. rigetta l’interpretazione restrittiva della condotta agevolatoria del suicidio, e afferma che la norma sanziona “ogni condotta che abbia dato un apporto causalmente apprezzabile ai fini della realizzazione del proposito suicidario”.

Facendo quindi coerente applicazione della teoria condizionalistica, il giudice afferma la rilevanza causale della condotta del Cappato rispetto all’atto suicida posto in essere dall’Antoniani; dalla considerazione della sicura sussistenza del dolo, poi, il g.i.p. ricava la riconducibilità della condotta di Cappato alla fattispecie incriminata dall’art. 580[3].

Inoltre, basandosi sulla ricostruzione fattuale che emerge dalle indagini preliminari, il g.i.p. ritiene che la condotta di Cappato non sia stata solo causalmente determinante dell’evento suicidio sul piano materiale, ma che la stessa abbia costituito anche una forma di rafforzamento della volontà suicida dell’Antoniani. Infatti, secondo il giudice, nonostante DJ Fabo fosse già fermamente determinato a morire al momento in cui è entrato per la prima volta in contatto con Marco Cappato, la prospettazione da parte di quest’ultimo della possibilità di recarsi in Svizzera per accedere al suicidio medicalmente assistito avrebbe costituito un deciso rafforzamento della volontà di attuare il suicidio così come esso si è poi effettivamente verificato, un rafforzamento della volontà di praticare “quel suicidio”.

 

4. A questo punto, il giudice prende in considerazione il secondo argomento proposto dai pubblici ministeri a sostegno della richiesta di archiviazione, ossia l’esistenza di un “diritto a morire con dignità” che costituirebbe una scriminante per la condotta di Cappato o, comunque, la base dell’illegittimità costituzionale dell’art. 580 c.p..

Anche su questo aspetto, il giudice adotta una prospettiva antitetica a quella fatta propria dalla Procura. Innanzitutto, l’ordinanza analizza la disciplina legislativa in materia di indisponibilità del diritto alla vita, ed afferma che dal complesso di norme costituito dagli artt. 5 c.c. e 579 e 580 c.p. emerge la volontà legislativa di limitare al massimo la possibilità per il singolo di disporre della propria integrità fisica e della propria vita.

Sulla base di questa premessa, il giudice si interroga sulla compatibilità della disciplina legislativa di rango ordinario con i principi costituzionali e convenzionali. Il punto di partenza del ragionamento è, ancora una volta, l’art. 32 c. 2 Cost. nella lettura fornitane dalla giurisprudenza nei casi Englaro e Welby[4], da cui “emerge con tutta evidenza […] un diritto a lasciarsi morire per mezzo del rifiuto di un trattamento sanitario”. Il passaggio successivo, però, si discosta dall’impostazione adottata dai pm e dai difensori dell’indagato: il giudice, valorizzando la distinzione naturalistica che sussiste tra la condotta di chi lascia che la natura faccia il suo corso – adottando al più terapie palliative e antidolorifiche – e chi attivamente anticipa il momento del decesso, afferma che partendo dalla premessa di cui sopra non soltanto non possa ricavarsi un “diritto ad una morte dignitosa”, ma che anzi l’esistenza di un tale diritto sia certamente da escludersi, in quanto privo di un fondamento normativo positivo.

Ad ulteriore sostegno di questo argomento, il giudice richiama il testo del d.d.l. approvato dalla Camera ed in esame al Senato in materia di “disposizioni anticipate di trattamento”, il quale si limita a recepire lo status quo giurisprudenziale in materia di “eutanasia passiva”, negando così implicitamente la legittimità di qualsiasi condotta di suicidio assistito o di eutanasia attiva[5].

Anche con riferimento alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo e alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, il giudice si sofferma soprattutto sull’assenza di uno specifico obbligo di consentire pratiche di suicidio assistito. Valorizzando soprattutto la sentenza Pretty del 2002[6], che secondo il g.i.p. rappresenta “un approdo […] tutt’ora incontroverso” nella giurisprudenza della Corte EDU, l’ordinanza afferma che la previsione di un divieto generalizzato, anche penalmente sanzionato, di aiuto al suicidio rientra nel  margine di apprezzamento riconosciuto agli Stati dalla Corte, anche alla luce del grande numero di Stati europei che prevede analoghi divieti.

 

5. Infine, soffermandosi più nel dettaglio sulla richiesta di adire la Consulta proposta da entrambe le parti del procedimento, il g.i.p. rigetta tale istanza sulla base di una duplice argomentazione.

Innanzitutto, secondo il giudice la questione sarebbe manifestamente infondata in quanto inammissibile. La Consulta, infatti, ammette la possibilità di “integrare” la disciplina normativa per mezzo di una pronuncia additiva solo quando l’oggetto del petitum sia “a rime obbligate”, ossia quando dal dato costituzionale emerga un’indicazione chiara ed univoca circa il contenuto della “legge mancante”, che non lasci spazio alcuno a scelte discrezionali. Secondo il giudice, invece, in questo caso si verserebbe proprio in un’ipotesi di questione di illegittimità della norma “nella parte in cui non prevede qualcosa”, senza che quel “qualcosa” risulti pre-determinato sul piano costituzionale.

Pertanto, un’eventuale accoglimento della questione porterebbe la Corte ad invadere lo spazio di discrezionalità che il dettato costituzionale lascia al legislatore ordinario, in aperta violazione del principio di divisione dei poteri e delle competenze che la Carta costituzionale attribuisce al giudice delle leggi.

In secondo luogo, a detta del giudice milanese, la questione proposta dalle parti sarebbe manifestamente infondata anche nel merito. Innanzitutto, il concetto di “dignità della figura umana” che i p.m. ed i difensori invocavano come diritto da bilanciare con il principio di indisponibilità della vita non trova sufficiente copertura nella giurisprudenza della Consulta, nella quale invece si trovano numerosi richiami al principio di inviolabilità della vita umana. Inoltre, sempre nell’interpretazione datane dal giudice, la ricostruzione operata dalla Procura crea una distinzione tra vite “degne” e vite “indegne” che collide totalmente con la tutela incondizionata che tanto la Costituzione quanto la legge ordinaria accordano al bene giuridico “vita”.

Anche gli altri argomenti proposti dai p.m. e dai difensori sarebbero poi inconferenti: l’art. 32 c. 2 Cost., infatti, prevede unicamente il diritto a rifiutare ogni trattamento terapeutico, senza che ciò implichi in alcun modo l’esistenza di un diritto ad ottenere aiuto nel compimento del suicidio. Il richiamo alle norme CEDU viene superato con argomentazione analoga a quella sopra esposta, in particolare con riferimento all’assenza di un espresso diritto ad ottenere assistenza nel suicidio come forma di tutela dell’umana dignità. L’argomento fondato sulla natura discriminatoria dell’art. 580 c.p. in quanto creerebbe una distinzione irragionevole tra malati che possono ottenere, nei fatti, il suicidio per mezzo della rinuncia alle cure e malati che, per le condizioni fisiche in cui versano, non hanno questa “fortuna”, infine, sarebbe anch’esso privo di valore in quanto l’esito della rinuncia alle cure – il suicidio – rappresenta, secondo il giudice, una conseguenza accidentale e non già l’oggetto specifico del diritto previsto dall’art. 32 c. 2 Cost.; pertanto non vi sarebbe alcuna discriminazione giuridicamente apprezzabile tra le due categorie summenzionate e derivante dalla previsione in esame.

Il g.i.p. non considera invece, neanche in via incidentale, l’argomento proposto solo dalla parte pubblica e fondato sulla radicale inoffensività di condotte analoghe a quella posta in essere dal Cappato. Appare ragionevole ritenere che tale silenzio sia dovuto all’adozione, da parte del giudice, di un’interpretazione dell’art. 580 c.p. antitetica a quella proposta dalla Procura come punto di partenza della sua argomentazione. Molto in sintesi: la Procura ritiene che l’art. 580 c.p. non sia volto a tutelare la vita in sé come bene indisponibile, quanto la posizione dei soggetti c.d. “deboli”, cioè esposti al rischio di abusi da parte di coloro che li hanno in custodia; sulla base di tale premessa, secondo i p.m. l’incriminazione della mera condotta di aiuto al suicidio posta in essere nei confronti di chi, pur gravemente menomato nel fisico, sia pur sempre nel pieno possesso delle sue capacità di giudizio e non sia esposto a condizionamenti o coercizioni sanzioni condotte non lesive del bene giuridico tutelato, e quindi contrasti con il principio di offensività. Al contrario, il g.i.p. manifesta ripetutamente la sua adesione all’interpretazione tradizionale dell’art. 580 c.p. come norma volta a tutelare la vita quale bene indisponibile: in tale ottica, nessuna condotta di aiuto al suicidio può mai essere considerata non lesiva del bene giuridico protetto.

 

6. In conclusione, avendo rigettato tutte le argomentazioni proposte tanto a sostegno della richiesta di archiviazione quanto a favore della rimessione della questione alla Corte costituzionale, il g.i.p. impone alla Procura di formulare l’imputazione a carico di Marco Cappato per il reato di cui all’art. 580 c.p. nelle due fattispecie di rafforzamento dell’altrui proposito suicida e di aiuto materiale all’esecuzione del suicidio.

 

 


[1] Per un’esposizione sintetica dei fatti si rinvia nuovamente a P. Bernardoni, Tra reato di aiuto al suicidio e diritto ad una morte dignitosa, cit.

[2] C. Cass., sez. I, 6 febbraio 1998 (dep. 12 marzo), n. 3147, imp. Munaò, in Riv. Pen., 1998, pp. 466 ss.

[3] La soluzione proposta dal g.i.p. milanese si discosta qui da quella adottata di recente dal g.u.p. di Vicenza in un caso simile (Trib. Vicenza, sent. 14 ottobre 2015, dep. 2 marzo 2016, g.u.p. Gerace, imp. A. T., in Riv. it. dir. proc. pen., 2017, fasc. 1). In quell’occasione, infatti, il giudice veneto ha ritenuto che la mera condotta di accompagnamento in Svizzera di una persona intenzionata a sottoporsi alla pratica del suicidio assistito non rientri nella fattispecie di cui all’art. 580 c.p., neanche come mera agevolazione materiale, in quanto non “direttamente e strumentalmente connessa all’attuazione materiale del suicidio”.

[4] C. Cass., sez. I civ., sent. 16 ottobre 2007, n. 21748 e G.u.p. Roma, sent. 23 luglio 2007 (dep. 17 ottobre), n. 2049, imp. Riccio.

[5] Con riferimento a tale d.d.l. si veda C. Cupelli, Consenso informato e disposizioni anticipate di trattamento: dai principi alla legge?, in questa Rivista, 13 marzo 2017.

[6] C. edu, sez. IV, sent. 29 aprile 2002, Pretty c. Regno Unito, § 67.