ISSN 2039-1676


06 giugno 2013 |

Una Corte divisa su una materia divisiva: una pronuncia di Strasburgo in tema di suicidio assistito

C. eur. dir. uomo, sez. II, sent. 14 maggio 2013, Gross c. Svizzera

 

1. Con la sentenza qui in commento, la Corte europea dei diritti dell'uomo torna a pronunciarsi a proposito di decisioni di fine vita. Lo fa affrontando un tema particolarmente spinoso, giacchè la sentenza Gross affronta il problema del suicidio assistito, vale a dire della scelta di una persona compos sui e non affetta da alcuna malattia terminale di porre fine alla propria vita, richiedendo assistenza medica attraverso la somministrazione di una sostanza letale. Della spinosità da un punto di vista etico e della divisività da un punto di vista di politica del diritto del caso concreto sottoposto al vaglio della Corte, si scorge ben traccia nel decisum dei giudici europei, giacché la decisione di violazione dell'art. 8 Cedu viene assunta a stretta maggioranza di tre voti su quattro, con il voto contrario - tra gli altri - del Presidente Raimondi. Della sua dissenting opinion bisognerà pertanto dar conto in chiusura.

 

2. La sedes materiae delle decisioni di fine vita è stata individuata dalla Corte, fin dal leading case in materia, la sentenza Pretty c. Regno Unito (sent. 29 aprile 2002, ric. 2346/02, Pres. Pellonpaa), nell'art. 8 Cedu, sub specie di diritto al rispetto della vita privata. In quell'occasione i giudici di Strasburgo, pur ritenendo che la legislazione inglese interferisse con tale diritto convenzionale, esclusero tuttavia la violazione, reputando tale interferenza legittima ai fini della tutela di uno dei controinteressi menzionati nel § 2 dell'art. 8, e più precisamente dei diritti di terze persone.

Un caso che presenta non pochi tratti d'affinità con quello deciso nella sentenza qui in commento è il caso Haas c. Svizzera (sent. 20 gennaio 2011, ric. 31322/07, pubblicata in questa Rivista con nota di A. Colella, La Corte EDU si interroga sulla possibilità che dall'art. 8 Cedu discenda il "diritto a un suicidio dignitoso"); in quell'occasione si trattava di un soggetto invero non in fin di vita, ma affetto da disturbo bipolare della personalità, che chiedeva gli fosse somministrato un farmaco per poter porre fine alla propria esistenza; e anche in quell'occasione, ad essere denunciata era la legislazione svizzera in materia, una tra le più libertarie in Europa. I giudici di Strasburgo in quell'occasione non chiarirono in modo definitivo se dall'art. 8 Cedu discenda un obbligo positivo in capo agli Stati di porre il paziente in condizioni di ottenere il sostegno necessario per praticare un suicidio dignitoso. La Corte però ritenne che le condizioni richieste dalla legislazione svizzera in materia - in particolare la necessità di una perizia psicologica con esito positivo sulla capacità d'intendere e volere del richiedente - non fossero sproporzionate rispetto al potenzialmente confliggente obbligo di protezione della vita ex art. 2 Cedu; e giocò un ruolo decisivo, in questa valutazione, la circostanza che il signor Haas fosse affetto da disturbi psichiatrici, ciò che poteva evidentemente sollevare fondati dubbi sulla sua effettiva capacità di autodeterminazione.

Nel successivo caso Koch c. Germania (sent. 12 luglio 2012, ric. 497/09, pubblicata in questa Rivista con nota di Parodi C., Una cauta pronuncia della Corte europea in tema di eutanasia attiva), invece, la Corte si era trovata a decidere sul ricorso di una paziente tetraplegica e totalmente dipendente dall'ausilio di un respiratore, ma anche in questo caso non terminale (ed anzi con una aspettativa di vita di una quindicina di anni), la quale aveva chiesto al'autorità amministrativa tedesca la somministrazione di farmaci idonei a procurarsi la morte senza soffrire. Di fronte al rifiuto oppostole dall'autorità amministrativa, la donna si era recata in Svizzera, dove era stata aiutata a morire in una clinica privata. Il marito aveva quindi invano impugnato il provvedimento amministrativo di rigetto avanti alle istanze giurisdizionali interne sino a giungere alla Corte costituzionale, la quale aveva però giudicato inammissibile il ricorso per difetto di legittimazione attiva del ricorrente, vertendosi in materia di diritti personalissimi. La Corte europea, dopo avere confermato il principio secondo cui gli ostacoli opposti dalle autorità statali all'esecuzione delle decisioni di fine vita rappresentano un'interferenza con il diritto alla vita privata di cui all'art. 8 Cedu, restando peraltro aperta la possibilità che tale interferenza possa ritenersi giustificata rispetto alle necessità di tutela di uno dei controinteressi menzionati nel § 2, affermò tuttavia che dall'art. 8 discende quanto meno il diritto dell'individuo a che la propria richiesta relativa all'esecuzione di una decisione di fine vita venga esaminata nel merito dagli organi giurisdizionali interni, alla luce dei criteri desumibili dallo stesso art. 8. Nel caso di specie, dunque, la violazione dell'art. 8 Cedu risiedeva proprio nel non avere la giurisdizione nazionale esaminato nel merito il ricorso contro il diniego dei barbiturici da parte dell'autorità amministrativa, ricorso che legittimamente era stato proposto dal marito della donna dopo la morte di questa.

 

3. Veniamo, allora, al caso di specie oggetto di questa nuova sentenza. La signora Gross è una cittadina svizzera di ottant'anni; non riesce ad accettare il decadimento delle sue capacità fisiche e mentali legato all'invecchiamento, e decide di porre fine alla sua vita. Fallisce un primo tentativo di suicidio, e decide allora di ricorrere a una sostanza letale, il pentobarbital di sodio, per evitare di fallire ancora.

La legislazione svizzera in materia di somministrazione di sostanze letali e assistenza al suicidio può essere così riassunta: il codice penale svizzero non incrimina tout court l'omicidio del consenziente o l'aiuto al suicidio, ma lo fa solo se tali fatti sono commessi rispettivamente per motivi esecrabili, non compassionevoli ovvero per motivi egoistici. Sulla base di questo dato normativo, il diritto vivente elvetico si è orientato nel senso che non costituisce omicidio del consenziente né aiuto al suicidio punibile la somministrazione di farmici idonei a cagionare la morte sulla base di una regolare prescrizione medica. Non è peraltro la legge a stabilire quali siano le condizioni alle quali il personale medico può effettuare la prescrizione: le regole sono piuttosto contenute nelle linee guida dell'Accademia Svizzera delle Scienze Mediche (A.S.S.M.), che fungono da codice deontologico per i sanitari. In tali linee guida, in buona sostanza, si ammette la possibilità per il personale medico di aiutare il suicidio dei pazienti nella fase terminale della loro malattia - e quindi anche di prescrivere la somministrazione di sostanze letali - quando la sofferenza sia diventata intollerabile, e il malato esprima una volontà in tal senso.

La signora Gross si rivolge pertanto a diversi medici che, pur reputandola in condizioni di assumere la sua scelta in modo pienamente consapevole, non le prescrivono la sostanza poiché non soffre di alcuna malattia. Si rivolge quindi all'autorità giudiziaria, la quale però conferma le scelte dei medici, giudicando legittime e in linea col diritto svizzero e con la Convenzione europea. La signora Gross si rivolge infine alla Corte Suprema Federale, lamentando la violazione degli artt. 2, 3 e 8 Cedu, sostenendo che il suo diritto a scegliere come e quando morire sia stato violato. La Corte svizzera esclude però la violazione, evidenziando come la situazione della donna non soddisfi le condizioni richieste dalle linee guida dell'A.S.S.M. legittimanti la prescrizione di una sostanza letale, e come tali condizioni non possano che considerarsi coerenti col fine di prevenire decisioni non ponderate e abusi da parte degli individui; trattandosi di scelte eticamente complesse, una soluzione più permissiva non può che conseguire a un intervento da parte di assemblee democraticamente elette.

 

4. La signora Gross si rivolge allora alla Corte europea, lamentando una violazione dell'art. 8 Cedu.

I giudici europei iniziano il loro ragionamento richiamando anzitutto i principi espressi nella sentenza Haas, ribadendo che il diritto di un individuo di scegliere a che punto e in che modo porre fine alla propria vita sia uno degli aspetti del diritto al rispetto della vita privata garantito dall'art. 8 Cedu. Il desiderio della signora Gross di ottenere la dose letale di pentobarbital potrebbe invero essere limitato qualora lo Stato ritenga che sussista una delle esigenze previste dal § 2 dell'art. 8 Cedu; ma - osserva la Corte - tali limitazioni devono essere previste dagli Stati in modo chiaro e comprensibile, in modo che gli individui siano in grado di comprendere agevolmente se tale diritto sia loro attribuito concretamente, e non in forma meramente illusoria.

Ora, nell'ordinamento svizzero, le condizioni alle quali le sostanze letali possono essere prescritte - e dunque le restrizioni al diritto riconosciuto in linea di prinicipio dall'art. 8 Cedu - sono contenute in una fonte non legale e proveniente da un'organizzazione non governativa. La situazione in cui si trovava la ricorrente - quella cioè di un soggetto non in fin di vita, ma che pure voleva suicidarsi - non era prevista in tali linee guida, né in altre fonti; pertanto, le autorità svizzere hanno mancato al loro obbligo di prendere in considerazione la posizione giuridica della ricorrente, pur titolare di un diritto convenzionalmente garantito. La mancanza di chiarezza d'altra parte, oltre ad aver un effetto intimidatorio (chilling effect) nei confronti dei medici, ha sicuramente causato sofferenza alla signora Gross, che non le sarebbe stata procurata se vi fossero state linee guida chiare e approvate dallo Stato che definissero le circostanze alle quali le medesime sostanze potessero essere prescritte a individui, non affetti dal alcuna patologia ad esito letale, che fossero giunti senza condizionamenti esterni e in pieno possesso delle loro facoltà mentale alla ponderata decisione di porre fine alla loro vita. La mancanza di chiare e comprensibili linee guida di fonte legale ha quindi violato il diritto garantito alla ricorrente dall'art. 8 Cedu.

Per quanto riguarda però il merito della richiesta della signora Gross, la Corte, in base al principio di sussidiarietà (in base al quale sono anzitutto gli ordinamenti nazionali a dover stabilire le condizioni alle quali i diritti convenzionali possono essere goduti), decide di limitare il suo sindacato alla riscontrata violazione senza precisare se, nel caso di specie, la ricorrente avesse o meno diritto a ottenere la sostanza.

 

5. Diametralmente opposto il ragionamento seguito dai giudici Raimondi, Jociene e Karazas nella loro dissenting opinion. Secondo i tre giudici, le condizioni richieste dall'ordinamento svizzero per la prescrizione di una sostanza letale sono sufficientemente chiare: le norme di deontologia medica prevedono infatti la possibilità che la prescrizione possa effettuarsi nei confronti di soggetti in fin di vita, categoria nella quale certamente non rientra la ricorrente. La signora Gross non può pertanto dolersi del fatto che il suo diritto convenzionalmente tutelato a scegliere come e quando morire sia stato garantito in modo solo illusorio, giacché la Svizzera, in maniera pienamente armonica con il margine d'apprezzamento che la giurisprudenza convenzionale riconosce agli Stati in una materia - quale quella del fine vita - sulla quale non c'è consensus tra gli Stati aderenti alla Convenzione, non riconosce tale diritto a soggetti che non siano in una fase terminale della loro malattia. Essi escludono pertanto la violazione dell'art. 8 Cedu.