ISSN 2039-1676


02 maggio 2016 |

La Cassazione in tema di omicidio pietatis causa: inquadramento giuridico e attenuante dei motivi di particolare valore morale e sociale

Nota a Cass., sez. I, 12.11.2015 (dep. 31.3.2016), n.12928, rel. Esposito

1.  Con la sentenza in commento la Corte di Cassazione torna a pronunciarsi sul delicato tema della configurabilità della fattispecie di omicidio del consenziente ex art. 579 c.p. e della circostanza attenuante dei motivi di particolare valore morale e sociale prevista dall'art. 62, n.1, c.p. nelle ipotesi di c.d. eutanasia attiva pietatis causa.

 

2. Questo, per sommi capi, il caso di specie. H. risultava colpevole, per sua stessa ammissione, di aver posto fine alla vita della propria moglie - gravemente malata - con un'unica coltellata, dopo che con la somministrazione di una potente dose di sedativo non era riuscito ad ottenere l'effetto letale sperato.

Pacifica l'illiceità penale della condotta dell'imputato, il thema decidendum convergeva sulle problematiche relative alla qualificazione giuridica del fatto e al trattamento sanzionatorio applicabile.  

L'imputato, in particolare, aveva spiegato il proprio gesto come rispondente alla volontà manifestata dalla moglie di porre fine alle proprie sofferenze, giustificando così la propria condotta in nome di esclusive ragioni di carattere altruistico e "pietoso". La moglie, infatti, era affetta da dieci anni da una grave patologia irreversibile - una forma acuta di artrite reumatoide - che l'aveva dapprima privata di ogni facoltà di deambulazione e, successivamente, le aveva impedito persino di stare seduta, cagionandole gonfiori alle articolazioni, bolle dolorose e lesioni sanguinanti.

Il g.u.p. , tuttavia, condannava l'imputato - con sentenza riformata in secondo grado solo in relazione al quantum di pena - per il reato di omicidio volontario ex art. 575 c.p. disattendendo la tesi difensiva circa la sussumibilità del caso di specie nell'ambito di applicazione della fattispecie privilegiata dell'omicidio del consenziente di cui all'art. 579 c.p., non essendo stata adeguatamente provata la sussistenza di un valido consenso della moglie a morire. Il g.u.p.  negava, altresì, la concessione della circostanza attenuante dei motivi di particolare valore morale e sociale di cui all'art. 62, n.1, c.p., ritenendo che nel caso di specie fossero ravvisabili "oltre ai motivi altruistici di porre fine alla sofferenza, anche motivazioni egoistiche dell'autore, non più costretto ad una lunga, probante e faticosa assistenza per effetto del decesso del coniuge"[1].

La difesa dell'imputato proponeva ricorso in cassazione lamentando, per quanto qui interessa: a) da un lato, la mancata sussunzione della condotta dell'imputato nella fattispecie più favorevole dell'omicidio del consenziente di cui all'art. 579 c.p.;

b) dall'altro, la mancata concessione dell'attenuante dei motivi di particolare valore morale e sociale ai sensi dell'art. 62, n.1, c.p.

3. La Corte di Cassazione rigetta entrambi i motivi del ricorso, confermando così la precedente condanna per omicidio volontario e negando la concessione dell'attenuante dei motivi di particolare valore morale e sociale.

Quanto alla sussumibilità della condotta dell'imputato nell'ambito di applicazione della fattispecie dell'omicidio del consenziente di cui all'art. 579 c.p., la Corte esclude tale inquadramento giuridico sulla scorta di tre ordini di considerazioni: a) l'assenza di una prova "univoca, chiara e convincente" della sussistenza di una volontà della donna di essere uccisa per porre fine alle proprie sofferenze; b) l'assenza, in ogni caso, dei requisiti stringenti necessari ai fini della validità del consenso stesso; c) l'inapplicabilità, in caso di errore sul consenso, dell'art. 59, comma 4, c.p.

Quanto al primo profilo, in particolare, a parere della Corte, il solo dato probatorio rappresentato "dalle generiche invocazioni della vittima, affinché cessasse la propria sofferenza o dall'auspicio, dalla stessa espresso in precedenza, di adozione di modelli eutanasici propri di altri paesi"- circostanze peraltro emerse solo sulla base di quanto riferito dall'imputato - è insufficiente a provare la sussistenza di un valido consenso della vittima a morire. Ciò anche in quanto in senso contrario alla prestazione di un siffatto consenso deponeva anche l'appartenenza della moglie al credo religioso dei mormoni, contrario alle pratiche eutanasiche.

Quanto al secondo profilo, la Corte ha in ogni caso escluso che l'eventuale consenso manifestato in precedenza dalla moglie fosse connotato dai requisiti di validità necessari ai fini di una rilevanza dello stesso. In particolare, ruolo centrale nella breve motivazione sul punto assume il requisito della perduranza del consenso fino al momento in cui l'agente commette il fatto, quale requisito imprescindibile ai fini della validità del consenso stesso.

In conclusione, dunque, a parere degli ermellini, "è configurabile il delitto di omicidio volontario, e non l'omicidio del consenziente, in caso di mancanza di una prova univoca, chiara e convincente della volontà di morire manifestata dalla vittima, dovendo in tal caso riconoscersi assoluta prevalenza al diritto alla vita, quale diritto personalissimo, che non attribuisce a terzi (nella specie ad un familiare) il potere di disporre, anche in base alla propria percezione della qualità della vita, dell'integrità fisica altrui".

Parimenti la Corte di Cassazione disattende la tesi difensiva circa l'applicabilità della fattispecie più favorevole dell'omicidio del consenziente ai sensi dell'art. 59, comma 4, c.p. sulla base dell'erronea convinzione dell'imputato di aver agito in presenza del consenso della moglie. Il ragionamento seguito dalla Corte prende le mosse dalla considerazione in base alla quale il consenso rilevante ai fini dell'applicazione dell'art. 579 c.p. differisce - eccezion fatta per il profilo strutturale - dal consenso previsto dall'art. 50 c.p. quale causa di giustificazione, incidendo la sua eventuale assenza solo sul piano della tipicità penale e non già su quello della sua antigiuridicità. Da ciò la Corte fa discendere la  non applicabilità dell'art. 59, comma 4, c.p. che conferisce rilievo alle c.d. cause di giustificazione putativa. In ultima analisi, a parere degli ermellini, l'erronea rappresentazione del consenso della vittima deve essere ricondotta al diverso paradigma normativo dell'art. 47, comma 2, c.p. in base al quale "l'errore sul fatto che costituisce un determinato reato non esclude la punibilità per un reato diverso". L'assenza dell'elemento specializzante del consenso, pertanto, secondo i giudici di legittimità, preclude la possibilità di applicare la fattispecie di cui all'art. 579 c.p. con la conseguenza che riacquista vigore, in virtù dell'art. 47 c.p., la fattispecie generale dell'omicidio volontario.

 

4. Quanto alla circostanza attenuante dei motivi di particolare valore morale e sociale di cui all'art. 62, n.1,c.p., la Corte di Cassazione - senza soluzione di continuità con le precedenti pronunce sul punto - ne esclude la configurabilità ritenendo che non sia sufficiente ai fini del riconoscimento dell'attenuante in parola "la generica apprezzabilità o positiva valutabilità da un punto di vista etico o sociale dei motivi del reato", dovendosi al contrario trattare di "principi generalmente approvati dalla società". Tali non possono essere considerati, a parere della Corte, i c.d. motivi di pietà che soggiacciono alle pratiche eutanasiche, poiché non condivisi dalla generalità dei consociati. L'assenza di un consenso unanime e le discussioni tutt'ora esistenti intorno alla condivisibilità dell'eutanasia sarebbero, a parere della Corte, "sintomatiche della mancanza di un suo attuale apprezzamento positivo pubblico" sì che "l'assenza di una generale valutazione positiva da un punto di vista etico-morale" preclude in radice la possibilità di qualificare i motivi pietosi come di particolare valore morale e sociale.

 

***

 

5. Qualche breve riflessione conclusiva, rinviando ad altra sede per più meditati commenti.

Innanzitutto, non convince la motivazione spesa dalla Corte di Cassazione nell'escludere la possibilità di sussumere il caso di specie nella fattispecie privilegiata dell'omicidio del consenziente in virtù dell'erronea rappresentazione, da parte dell'imputato, della sussistenza del consenso della vittima a morire. Preferibile ci pare infatti l'orientamento che propende per l'applicazione analogica dell'art. 59, comma 4, c.p. in caso di errore sugli elementi specializzanti (nella specie, il consenso della vittima a morire che, ove effettivamente esistente, ha l'effetto di "degradare" il titolo di reato) [2]. A tale analogia non osta né, da un lato, l'art. 25, comma 2, Cost., trattandosi di analogia in bonam partem, né, dall'altro, l'art. 14 delle Preleggi, poiché l'art. 59, comma 4, c.p. non costituisce norma eccezionale, trattandosi al contrario di un'applicazione delle regole generali in tema di responsabilità per dolo. Pertanto, se l'imputato ha agito nell'erronea convinzione di trovarsi in presenza di una c.d. quasi giustificante o c.d. quasi scriminante, così rappresentandosi e volendo un fatto parzialmente giustificato dall'ordinamento giuridico - e tale circostanza risulta provata nel corso del procedimento - potrà rispondere solo per il reato meno grave, difettando il dolo del reato più grave: in questo caso il dolo dell'omicidio volontario[3].

Solo un accenno, poi, a una prospettiva di carattere processuale.

Da un punto di vista probatorio, non appare affatto peregrino interrogarsi circa la possibilità di estendere in via analogica l'applicazione dell'articolo 530, comma 3, c.p.p. - che impone al giudice di assolvere l'imputato in caso di dubbio in ordine alla sussistenza di una causa di giustificazione - alle ipotesi in cui, all'esito del giudizio, vi sia un dubbio in ordine alla sussistenza di un elemento specializzante (il consenso della vittima a morire). Se, infatti, la regola probatoria sottesa a tale norma è quella per cui - quantomeno a fronte di una seria allegazione da parte dell'imputato in ordine alla sussistenza di una causa di giustificazione - grava sulla pubblica accusa l'onere di provare - al di là di ogni ragionevole dubbio - la sua insussistenza, la medesima logica dovrebbe valere nelle ipotesi in cui l'imputato abbia introdotto un serio principio di prova in ordine all'esistenza di un elemento privilegiante, o quantomeno abbia instillato un ragionevole dubbio in ordine alla sua sussistenza. E analoghi dovrebbero esserne gli esiti: il mancato raggiungimento della prova - da valutarsi, si ribadisce, secondo il canone dell'al di là di ogni ragionevole dubbio - dovrebbe implicare, nel primo caso, l'assoluzione dell'imputato e, nel secondo caso, l'affermazione della sussistenza dell'elemento privilegiante con conseguente condanna dell'imputato per il reato meno grave. La ragion d'essere di una tale applicazione analogica potrebbe, forse, essere ricostruita - oltreché in termini di coerenza - laddove si consideri come l'art. 530 c.p.p. sia espressione di un principio di più ampio respiro, quello dell'in dubio pro reo, il quale garantisce, sul piano probatorio, il principio di presunzione di non colpevolezza di cui all'art. 27, comma 1, Cost. e a cui fa da contraltare l'"al di là di ogni ragionevole dubbio" quale canone legale di motivazione.

 

6. Ancor di più, non convince la motivazione spesa dalla Corte di Cassazione nel negare in radice la possibilità di concedere l'attenuante dei motivi di particolare valore morale e sociale di cui all'art. 62, n.1, c.p. nelle ipotesi di omicidi pietosi.

In primo luogo, infatti, alla luce del pluralismo ideologico, culturale e religioso che caratterizza la società democratica contemporanea, non appare condivisibile l'idea che possano essere elevati al rango di "motivi di particolare valore morale e sociale" solo quei motivi che trovino unanime eco nella generalità dei consociati[4]. A tale orientamento "generalizzante"[5], sembrerebbe infatti preferibile un orientamento che, sempre sulla scorta di parametri di natura obiettiva, ammetta la possibilità - se le circostanze del caso concreto lo consentano - di concedere l'attenuante anche laddove "il movente esprima una concezione della vita o della società da meritare diritto di cittadinanza nel nostro ordinamento giuridico, obbedendo a valori non già conformi alle concezioni della generalità degli individui, ma anche solo compatibili con la Costituzione, improntata del resto ad una sostanziale indifferenza di principio, quanto al trattamento degli atteggiamenti ideologici e morali"[6].

L'idea che i c.d. motivi di pietà possano giustificare la concessione dell'attenuante in parola, peraltro, è tutt'altro che peregrina. Già nella Relazione al Progetto definitivo di un nuovo codice penale del 1929 si legge infatti: "se ragioni di pietà, oltre il consenso, concorrano come moventi del delitto, il sistema comporta che si applichi un'ulteriore attenuante, ossia quella comune stabilita nel n. 1 dell'art. 66 (= art. 62). Considerazione quest'ultima che vale a chiarire, come anche l'ipotesi di un omicidio non consentito dalla vittima possa, in qualche modo, venir punito meno gravemente, allorché sia ispirato da motivi di pietà [...]"[7].

In secondo luogo, poi, l'orientamento costante espresso dai giudici di legittimità nel negare l'attenuante in parola - e ribadito nella pronuncia in commento - in base al quale solo principi generalmente approvati dalla società possono "sminuire l'antisocialità dell'azione criminale"[8]  sembrerebbe essere altresì il frutto della sovrapposizione tra il piano della "immoralità del fatto tipico" e quello della "possibile meritevolezza dei motivi ispiratori del fatto concreto"[9]. Ammettere la configurabilità dell'attenuante in parola, laddove - si ribadisce -  le circostanze del caso concreto lo consentano, non incide infatti sulla illiceità della condotta, che resta penalmente rilevante, ma eventualmente sul diverso piano della colpevolezza e della rimproverabilità dell'autore.

Tali considerazioni, a nostro modesto avviso, si impongono a maggior ragione nelle ipotesi in cui, come nella vicenda in esame, l'assenza degli stringenti requisiti ai fini della validità del consenso - ovvero l'orientamento sopra criticato in merito alla impossibilità di applicare l'art. 579 c.p. in caso di erronea rappresentazione della sussistenza del consenso - conduce ad escludere l'applicabilità della fattispecie privilegiata dell'omicidio del consenziente, con conseguente applicazione della disposizione generale dell'omicidio volontario. Tale conseguenza implica, infatti, l'applicazione di un trattamento sanzionatorio che appare davvero sproporzionato rispetto a vicende, come quella in esame, riconducibili all'omicidio pietatis causa e connotate da evidenti tensioni drammatiche.

E se in definitiva, a nostro avviso, "la soluzione non può che passare da una modifica normativa che anche nei casi di consenso non valido riconosca il minor disvalore delle ipotesi di omicidio pietoso, prevedendo per esse uno specifico spazio edittale o almeno una circostanza attenuante speciale"[10], l'attenuante dei motivi di particolare valore morale e sociale potrebbe rappresentare, medio tempore, un'adeguata valvola di apertura per consentire al giudice una maggiore personalizzazione della pena "in contesti di ridotta esigibilità dell'accettazione della sofferenza e quindi del comportamento giuridicamente osservante"[11].

 

 


[1] V. sentenza qui commentata, nella parte in cui richiama le sentenze di merito.

[2] Cfr. P. Nobili, sub art. 47 c.p., in Dolcini-Marinucci (a cura di), Codice penale commentato, 4a ed., Milano, 2015, 750 e ss. In tal senso anche L. Masera, "Delitti contro la vita", in Reati contro la persona, Estratto dal VII volume del Trattato Teorico-Pratico di Diritto Penale, a cura di F. Viganò e C. Piergallini, 2015, Torino, Giappicchelli, p. 49. Contra, invece, F. Stella, L'errore sugli elementi specializzanti della fattispecie criminosa, RIDPP, 1964, pp. 81 e ss.

[3] Così, G. Marinucci - E. Dolcini, Manuale di Diritto Penale, 5a edizione, Milano, 2015, p. 77.

[4] In tal senso, ex plurimis, Cass., sez I, 8.4.2015 (dep. 18.5.2015 ), n. 20433; Cass., sez. I, 29.4.2010 (dep. 28.5.2010) n. 20312; Cass.,  sez. I, 7.4.1989, (dep. 22.2.1990), n. 2501.

[5] Così in merito all'aggravante dei "futili motivi", F. Basile, "Motivi futili ad agire: ma futili per chi quando il reato e' ''culturalmente'' motivato?", in Giurisprudenza Italiana, 2014, pp. 980 e ss.

[6] Così, P. Veneziani, Motivi e Colpevolezza, Torino, Giappichelli, 2000, p. 235.

[7] Relazione al Progetto definitivo per un nuovo codice penale, in Lavori preparatori del codice penale e del codice di procedura penale, 1929, p. 374, citata da S. Seminara, Riflessioni in tema di suicidio e di eutanasia, RIDPP, 1995, p. 709.

[8] Così si legge nella motivazione della sentenza in commento, p. 11.

[9] Così, S. Seminara, Riflessioni in tema di suicidio e di eutanasia, RIDPP, 1995, p. 712.

[10] Così, L. Masera, "Delitti contro la vita", in Reati contro la persona, Estratto dal VII volume del Trattato Teorico-Pratico di Diritto Penale, a cura di F. Viganò e C. Piergallini, 2015, Torino, Giappicchelli, p. 55. In tal senso anche, S. Canestrari, Principi di biodiritto penale, 2015, Bologna, Il Mulino, pp. 97 e ss.

[11] Così P. Veneziani, Motivi e Colpevolezza, op.cit., p. 253, nt. 39.