ISSN 2039-1676


16 gennaio 2013 |

La sentenza della Corte costituzionale sul conflitto di attribuzione tra Presidente della Repubblica e Procura di Palermo

Corte cost., 15 gennaio 2013, n. 1, Pres. Quaranta, Rel. Silvestri e Frigo

 

1. E' stata depositata la sentenza con la quale la Corte costituzionale ha risolto il conflitto di attribuzione promosso dal Presidente della Repubblica nei confronti della Procura palermitana, riguardo all'intervenuta captazione di alcune comunicazioni telefoniche dello stesso Presidente nell'ambito delle indagini relative alla cd. «trattativa» tra Stato e mafia.

La decisione - come già era noto grazie al comunicato stampa diffuso dalla Consulta il 4 dicembre scorso - si è risolta nel sostanziale accoglimento del ricorso, sebbene non manchi qualche puntualizzazione sui comportamenti effettivamente esigibili dall'Autorità giudiziaria che si ritrovi, nel corso delle proprie indagini, a disporre di informazioni relative alle comunicazioni del Presidente della Repubblica.

La Corte ha, in particolare, stabilito che il Capo dello Stato non può essere soggetto ad intercettazioni telefoniche, e che neppure quando le sue conversazioni siano captate «casualmente» può essere fatto un legittimo uso processuale dei relativi contenuti (salvo quanto tra breve si dirà). Anche in tali casi, dunque, la documentazione relativa alle comunicazioni deve essere distrutta, in applicazione del comma 3 dell'art. 271 c.p.p. e senza previo deposito della medesima: le parti del processo, dunque, non devono essere portate a conoscenza del contenuto dei colloqui, né possono interloquire sulla richiesta di distruzione che il pubblico ministero deve rivolgere al giudice.

Contiamo di tornare con gli opportuni approfondimenti sui molti temi affrontati od evocati dalla sentenza. Queste note hanno il solo scopo di informare rapidamente il lettore sui contenuti essenziali del provvedimento.

 

2. Per prima cosa, sembra opportuno riassumere gli avvenimenti posti a base del conflitto promosso dalla Presidenza della Repubblica, così come emergono dalla parte «in fatto» della motivazione.

La Procura di Palermo indagava da tempo sulla cd. «trattativa» tra Stato e mafia, ed in tale contesto aveva provveduto ad intercettare le utenze in uso al sen. Nicola Mancino, indagato per il delitto di falsa testimonianza (ma il procedimento concerneva anche il delitto il reato di violenza o minaccia aggravata ad un Corpo politico, amministrativo o giudiziario). Nel periodo compreso tra il 7 novembre 2011 e il 9 maggio 2012 erano state intercettate circa 9300 conversazioni dell'ex  senatore. Quattro fra esse, intervenute tra il 24 dicembre 2011 ed il 6 febbraio 2012, avevano visto il Presidente della Repubblica come interlocutore. Il pubblico ministero aveva disposto che il loro contenuto non fosse trascritto nel cd. «brogliacci» della polizia giudiziaria.

Ad un certo punto la Procura di Palermo aveva deciso di promuovere l'azione nei confronti di dodici persone (tra le quali il citato sen. Mancino, imputato di falsa testimonianza, nonché alcuni altri ufficiali dell'Arma dei Carabinieri ed alcuni appartenenti all'organizzazione «cosa nostra»). Gli atti pertinenti erano stati trasfusi in un fascicolo di nuova creazione, nel quale non era stata inclusa la documentazione relativa ai colloqui del Presidente, per la ritenuta irrilevanza dei medesimi a fini di prova. Dunque, per quel che si comprende, la documentazione in discorso è rimasta tra gli atti del fascicolo originario, ancora pertinente ad un procedimento in fase di indagini, e non altrimenti depositato.

La Presidenza della Repubblica aveva appreso delle registrazioni grazie ai cenni contenuti in una intervista rilasciata da uno dei magistrati inquirenti, ed aveva chiesto chiarimenti tramite l'Avvocatura dello Stato. Il Procuratore di Palermo aveva sostanzialmente risposto che le intercettazioni erano considerate irrilevanti e che dunque sarebbero state avviate alla distruzione «con l'osservanza delle formalità di legge». Tuttavia lo stesso Procuratore, intervenendo nel dibattito pubblico di quegli stessi giorni (con comunicati e lettere ai giornali), aveva precisato che, trattandosi di captazioni occasionali, non vi sarebbe stato alcun limite alla utilizzabilità dei colloqui, e che dunque la distruzione dei supporti avrebbe potuto essere richiesta e disposta solo previa valutazione della loro irrilevanza.

Per brevità va detto che la stessa tesi è stata poi sostenuta dalla Procura lungo tutto il corso del giudizio innanzi alla Consulta. Non esiste né può esistere un divieto di tenere comportamenti «non prevedibili», e non esiste una norma costituzionale che inibisca l'uso processuale di colloqui del Capo dello Stato, almeno nel caso di captazione occasionale. Dunque, secondo la Procura si applicherebbero ai colloqui in questione le norme ordinarie: deposito a norma dell'art. 268 c.p.p., valutazione di rilevanza nell'ambito della cd. «udienza di stralcio», eventuale e successiva distruzione, su richiesta degli interessati e previo giudizio di irrilevanza, a norma del comma 2 dell'art. 269 c.p.p. È ovvio - ed in questo è consistita l'essenziale doglianza del Presidente della Repubblica - che una procedura siffatta  svelerebbe il contenuto dei colloqui alle parti ed ai loro difensori, con altissima probabilità di una diffusione generalizzata.

 

3. Preso atto della posizione (anche) ufficialmente assunta dalla Procura palermitana, il Capo dello Stato ha proposto ricorso per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato. Al di là di un equivoco sulla procedura di distruzione, lungamente discusso nel giudizio, la tesi essenziale della Presidenza si può riassumere come segue. Il Presidente della Repubblica, per le prerogative connesse al suo altissimo ruolo istituzionale (e desumibili dall'art. 90 Cost., oltreché dal «parametro integrativo» di cui dall'art. 7 della legge n. 219 del 1989), non può essere assoggettato ad intercettazioni telefoniche. Ciò comporta che anche le intercettazioni «casuali» sono vietate e comunque devono essere interrotte. Quando disponga di documentazione processuale al proposito, il pubblico ministero, a prescindere da qualunque (indebita) valutazione del relativo contenuto, deve chiederne al giudice la distruzione, a norma dell'art. 271 c.p.p.: una richiesta da formulare «immediatamente» e senza previo deposito degli atti secondo le procedure regolate dagli artt. 268 e 269 c.p.p.

 

4. Come anticipato, la Corte costituzionale ha sostanzialmente accolto le tesi della Presidenza della Repubblica. Va detto peraltro che l'addebito di una «illegittima» attività di documentazione dei colloqui presidenziali sembra essere stato escluso.

In primo luogo, è importante rimarcare come non sia insorta alcuna controversia sul carattere «occasionale» o «casuale» delle intercettazioni, e la Corte l'ha messo in opportuno rilievo. La Presidenza della Repubblica non ha mai prospettato l'eventualità di una violazione deliberata della prerogativa, neppure nella forma delle cd. intercettazioni «indirette» (cioè riguardanti utenze non riferibili al soggetto immune, ma sorvegliate proprio per la possibilità che costui divenga interlocutore del titolare). Infatti, a prescindere dall'assenza di riferimenti all'eventualità di indagini deliberatamente rivolte al Presidente nel ricorso e negli atti del giudizio, gran parte dello scontro tra le parti si è incentrato proprio sul regime delle intercettazioni «casuali», dando per scontato che di questo si trattasse.

Ciò premesso, la Procura di Palermo ha rilevato come, anche per le modalità tecniche di svolgimento, le registrazioni non possano (e, a suo parere, non debbano) essere interrotte, a maggior ragione quando riguardino un evento per definizione inaspettato, qual è quello della captazione casuale del colloquio con  un soggetto immune. In effetti la Corte sembra aver riconosciuto, pur senza compiere enunciazioni formali, che una «interruzione» della registrazione fosse inesigibile. Nell'economia della motivazione, il passaggio è immediatamente seguito, peraltro, da un giudizio di sostanziale irrilevanza del tema: casuali o no, le intercettazioni di colloqui del Presidente devono essere immediatamente distrutte. La Corte ha riconosciuto anche l'infondatezza della tesi che pure si era manifestata nel dibattito pubblico antecedente alla decisione (ma non era stata effettivamente propugnata dall'Avvocatura dello Stato), cioè che il pubblico ministero avrebbe dovuto comunque distruggere la documentazione, a propria cura, non appena avuta notizia della sua esistenza. Ciò che la Procura avrebbe dovuto fare, e non ha ancora fatto, è attivare la procedura di distruzione presso il giudice.

 

5. Nel ragionamento seguito dalla Corte si individuano agevolmente due nuclei essenziali.

Il primo attiene alla disciplina costituzionale delle prerogative, ed in particolare alla ritenuta previsione di immunità del Capo dello Stato da indagini condotte mediante intercettazioni telefoniche. Qui la Consulta si è decisamente ed esplicitamente distaccata dalle prospettazioni di entrambe le parti, che, con intenti opposti, avevano fondato la propria costruzione in rapporto alle immunità «sostanziali» del Presidente della Repubblica.

Certo, è stato ribadito che il Capo dello Stato è «liberamente» perseguibile per i reati commessi fuori dall'esercizio delle sue funzioni, mentre non è responsabile per i fatti posti in essere nell'esercizio di dette funzioni, salvo che si tratti di alto tradimento o di attentato alla Costituzione. Ma l'immunità dalle indagini invasive non è regolata dalla qualità del reato posto ad oggetto delle investigazioni, perché protegge il Presidente a prescindere da sue ipotetiche responsabilità (come del resto avviene, in termini diversi è più ristretti, quanto ai parlamentari ed ai componenti del Governo). La prerogativa trova il suo fondamento nel livello e nella natura delle funzioni assegnate al Capo dello Stato, che resta estraneo alla tripartizione dei poteri proprio perché deve assicurarne l'armonico contributo alla vita istituzionale, in larga parte con comportamenti e contatti informali. È chiaro d'altra parte, secondo la Corte, che le funzioni di Presidente del Consiglio superiore della magistratura o di Capo delle forze armate valgono per se stesse ad esigere «protezione» dei relativi colloqui contro ogni forma di divulgazione.

L'argomento principalmente utilizzato contro la tesi dell'immunità si fonda sul rilievo che la stessa non è espressamente prevista dalla Costituzione, e che, secondo la stessa giurisprudenza costituzionale, immunità e prerogative, che «rompono» il principio supremo dell'uguaglianza tra tutti i cittadini innanzi alla legge, devono essere identificate secondo un criterio di «stretta interpretazione» delle norme costituzionali. La Corte afferma, nella propria sentenza, che il divieto di applicazione analogica (che colpirebbe ad esempio una prerogativa presidenziale «costruita» sull'art. 68 Cost.) o di interpretazione estensiva non implica che una previsione costituzionale non possa essere desunta secondo le ordinarie tecniche ermeneutiche.

In sintesi. Sarebbe del tutto anomalo, anzitutto, che la tutela apprestata per le comunicazioni del Capo dello Stato fosse inferiore a quella che la legge costituzionale assicura ai membri del Parlamento (art. 68 Cost.) od ai componenti del Governo (art. 10 della legge cost. n. 1 del 1989). La Corte sviluppa il paradosso. Se rilevasse solo una norma espressa, dovrebbe ritenersi che il Presidente della Repubblica possa essere «liberamente» assoggettato a perquisizioni personali o domiciliari, e finanche arrestato ad iniziativa della polizia giudiziaria, poiché neppure la sua libertà personale  è presidiata dalla Costituzione mediante una norma esplicita. La conseguenza è così forte, in effetti, che raramente è stata resa esplicita e sostenuta. La stessa Procura di Palermo, come accennato, si è concentrata soprattutto sull'assunto di una «libera» utilizzazione delle intercettazioni casuali.

V'è poi un ulteriore argomento a fortiori. L'art. 7 della legge n. 219 del 1989 (norma di rango ordinario) consente il ricorso alle intercettazioni nei confronti del Presidente contro il quale si proceda per alto tradimento od attentato alla Costituzione solo dopo l'intervenuta sospensione dalla carica per disposto della Corte costituzionale. La limitazione non avrebbe alcun senso, in un quadro altrimenti segnato dall'assenza di tutele particolari. E d'altra parte, se perfino quando si tratti di accertare i reati più gravi tra quelli immaginabili nell'ottica di garanzia delle istituzioni democratiche, direttamente riferibili alla persona del Presidente, il parametro integrativo pone seri limiti alle intercettazioni, sarebbe arduo giustificare l'inesistenza di quei limiti per altro genere di reati, o addirittura quando nessun reato venga ipotizzato.

Per questa ragione, tra le altre, la Corte ha escluso il rilievo effettivo della distinzione tra intercettazioni «dirette o indirette» da un lato, e «casuali» dall'altro. Non rileva il diverso regime previsto, per i parlamentari, dall'art. 6 della legge n. 140 del 2003, in forza del quale è possibile che la Camera competente rilasci una autorizzazione ex post all'utilizzazione processuale di captazioni occasionali. La prerogativa presidenziale non è costruita su di una analogia con l'immunità assicurata ai parlamentari. E non casualmente, nell'ottica della Corte, non esiste alcun soggetto che potrebbe conferire una autorizzazione ex post per la valutazione processuale di captazioni concernenti il Capo dello Stato.

Insomma. L'intercettazione dei colloqui telefonici del Presidente della Repubblica è preclusa dalla Costituzione. Non è del resto la prima volta, come si rimarca dalla Corte, che la giurisprudenza costituzionale desume dai principi l'esistenza di una prerogativa: era avvenuto, ad esempio, quando si erano respinti i dubbi di legittimità a proposito della immunità accordata dalla legge ordinaria ai componenti del Consiglio superiore della magistratura, per le opinioni espresse nell'esercizio delle proprie funzioni (sent. n. 148 del 1983); ed era accaduto, ancora prima, a proposito del principio di inviolabilità delle sedi degli organi costituzionali dello Stato (sent. n. 231 del 1975).

Essendo preclusa dalla Costituzione, ogni intercettazione in danno del Capo dello Stato deve considerarsi effettuata «in violazione della legge».

 

6. Si apre a questo punto la parte «processuale» della motivazione.

La Procura di Palermo aveva sostenuto che non può esservi il divieto di tenere comportamenti «casuali», cioè non controllabili. La Corte ha replicato che il sistema della sanzioni processuali, nel quale si innesta l'art. 271 c.p.p., non si fonda sulla «rimproverabilità» del comportamento tenuto dall'inquirente, ma sulla necessità di garantire un interesse ritenuto meritevole di tutela, dal diritto di difesa al diritto alla riservatezza che assiste determinati colloqui.

Si nota, in sostanza, che la captazione di colloqui tra imputato e difensore, espressamente vietata dall'art. 103 c.p.p., non può essere sempre prevenuta, ma ciò non esclude che i relativi contenuti debbano essere esclusi dalla base cognitiva del giudizio. Un divieto espresso non esiste neppure quanto ai soggetti interessati dal segreto professionale, ma ugualmente i loro eventuali colloqui sono inutilizzabili (comma 2 dell' art. 271 c.p.p.).

Di qui la conclusione che le captazioni occasionali compiute a Palermo sono inutilizzabili, e sottratte (come tali, si direbbe) a qualsiasi giudizio di rilevanza. Esse, anzi, vanno immediatamente distrutte, su richiesta del pubblico ministero e su disposizione del giudice (comma 3 del citato art. 271).

La Corte ha condiviso l'assunto del ricorrente, secondo il quale la documentazione non può essere oggetto di deposito, né a fini di valutazione della rilevanza (e di questo già si è detto) né a fini di distruzione ex art. 269 c.p.p. (procedura che - anche a seguito di una sentenza interpretativa di rigetto della stessa Corta costituzionale - deve svolgersi nel contraddittorio tra le parti).

L'argomento è duplice. Entrambe le procedure non riguardano le intercettazioni inutilizzabili, e d'altra parte, quando l'inutilizzabilità si fonda su una esigenza di tutela «rafforzata» della segretezza dei contenuti, la pubblicità endoprocessuale si risolverebbe in un paradosso, in una negazione della ratio sottesa alla sanzione. Del resto - prosegue la Corte - l'art. 271 c.p.p. non  richiede espressamente né deposito né contraddittorio, e non richiama, a differenza dell'art. 269, il modello generale del procedimento camerale (art. 127 c.p.p.). La natura partecipata della procedura la renderebbe di fatto indistinguibile da quella che concerne le intercettazioni regolarmente effettuate.

La Corte si premura peraltro di precisare che in via generale l'art. 271 c.p.p. non impone, ma nemmeno esclude la fissazione di un'udienza camerale "partecipata". Ciò dipende dalla varietà delle situazioni che ricadono nella previsione dell'art. 271: laddove, infatti, l'inutilizzabilità dipenda dall'inosservanza di regole procedurali, che prescindono dalla qualità dei soggetti coinvolti, la loro distruzione potrà secondo la Corte seguire l'ordinaria procedura camerale, nel contraddittorio tra le parti, trattandosi qui non già di conversazioni inconoscibili, bensì di conversazioni che avrebbero potuto essere legittimamente captate se fosse stata seguita la procedura corretta. Diverso il discorso che concerne i divieti di intercettazioni posti in funzione di salvaguardia di valori e diritti di rilievo costituzionale che si affiancano al generale interesse alla segretezza delle comunicazioni, come nei casi - espressamente menzionato nel comma 2 dell'art. 271 - delle conversazioni dei soggetti indicati dall'art. 200, comma 1, c.p.p. (ministri di confessioni religiose, avvocati, investigatori privati, medici ed altro), nonché nel caso non regolato dei colloqui del Presidente della Repubblica. In questa seconda classe di ipotesi, osserva testualmente la Corte, "l'accesso delle altre parti del giudizio, con rischio concreto di divulgazione dei contenuti del colloquio anche al di fuori del processo, vanificherebbe l'obiettivo perseguito, sacrificando i principi e i diritti di rilievo costituzionale che si intende salvaguardare. Basti pensare alla conoscenza da parte dei terzi - o, peggio, alla diffusione mediatica - dei contenuti di una confessione resa ad un ministro del culto, ovvero all'ostensione al difensore della parte civile del colloquio riservato tra l'imputato e il suo difensore".

Nei casi da ultimo menzionati, spetterà dunque esclusivamente al giudice, su (doverosa) richiesta del pubblico ministero, procedere alla distruzione delle intercettazioni. In particolare nell'ipotesi di distruzioni di intercettazioni di conversazioni del capo dello Stato, il controllo del giudice risponderà a una esigenza di "garanzia di legalità con riguardo anzitutto alla effettiva riferibilità delle conversazioni intercettate al Capo dello Stato, e quindi, più in generale, quanto alla loro inutilizzabilità, in forza delle norme costituzionali ed ordinarie" evocate in precedenza dalla Corte.

Spetterà altresì al giudice, in questo caso, il delicato compito di "tenere conto della eventuale esigenza di evitare il sacrificio di interessi riferibili a principi costituzionali supremi: tutela della vita e della libertà personale e salvaguardia dell'integrità costituzionale delle istituzioni della Repubblica (art. 90 Cost.)". "In tali estreme ipotesi" - afferma la Corte nel suo criptico passaggio conclusivo, sul quale è prevedibile che gli interpreti dovranno a lungo esercitarsi - "la stessa Autorità adotterà le iniziative consentite dall'ordinamento": eventualmente, par di comprendere, disponendo la conservazione delle conversazioni, anche ai fini di un'eventuale incriminazione del Capo dello Stato per alto tradimento o attentato alla Costituzione.