ISSN 2039-1676


11 dicembre 2013 |

La subornazione del consulente tecnico del Pubblico ministero tra istigazione alla corruzione e intralcio alla giustizia: le Sezioni Unite rimettono la questione al vaglio della Corte costituzionale

Cass., Sez. un., ord. 27 giugno 2013 (dep. 23 ottobre 2013), n. 43384, Pres. Santacroce, rel. Rotundo

1. L'ordinanza di rimessione alla Corte costituzionale pronunciata dalle Sezioni Unite della Cassazione prende le mosse dal complesso problema relativo alla esatta qualificazione giuridica della proposta corruttiva rivolta al consulente tecnico del Pubblico ministero al fine di far predisporre una consulenza falsa.

Le potenziali soluzioni alternative - puntualmente recepite o prospettate (anche) dai diversi attori intervenuti nel procedimento a quo - oscillano tra l'inquadramento di tale fattispecie concreta come tentativo di corruzione in atti giudiziari (art. 319-ter c.p.), come istigazione alla corruzione (art. 322 c.p.), come istigazione - penalmente irrilevante ex art. 115 c.p. - a commettere falsa consulenza (art. 380 c.p.) o, infine, come intralcio alla giustizia (art. 377 c.p.).

Proprio a tale ultima tesi ha ritenuto di aderire - giudicando lo specifico caso qui in esame - la VI Sezione della Corte di Cassazione (Cass., 20 marzo 2013, n. 12901), che tuttavia, alla luce di un risalente precedente difforme (Cass., 7 gennaio 1999, n. 4062, Pizzicaroli), ha deciso nondimeno di rimettere la questione alle Sezioni Unite, affinché queste chiarissero definitivamente "se sia configurabile il reato di intralcio alla giustizia di cui all'art. 377 cod. pen. nel caso di offerta o di promessa di denaro o di altra utilità al consulente tecnico del pubblico ministero al fine di influire sul contenuto della consulenza qualora il consulente tecnico non sia stato ancora citato per essere sentito sul contenuto della consulenza".

Con la pronuncia in esame, le Sezioni Unite riprendono per molti versi le argomentazioni e le conclusioni della VI sezione, sebbene con un importante distinguo, che - come vedremo - conduce alla ulteriore rimessione della questione al giudizio della Corte Costituzionale.

 

2. In primo luogo, le Sezioni Unite sgombrano il campo dalla possibile qualificazione del fatto come tentativo di corruzione in atti giudiziari (soluzione accolta dal Cassazione, nella medesima vicenda, in sede cautelare: cfr. Cass., sez. VI, 6 febbraio 2007) o come istigazione alla falsa consulenza (soluzione prospettata dalla difesa):

(i) quanto alla possibile rilevanza ai sensi degli artt. 56 e 319-ter c.p. la pronuncia sottolinea come "in mancanza di un accordo corruttivo, la condotta dell'istigatore, diretta a un soggetto che non l'accoglie, non può che essere ricondotta alla fattispecie di cui all'art. 322 cod. pen. (la quale, pur riferendosi formalmente alle ipotesi corruttive di cui agli artt. 318 e 319 cod. pen., si attaglia anche a quella di cui all'art. 319-ter cod. pen., posto che quest'ultimo articolo richiama "i fatti indicati negli articoli 318 e 319") ovvero, trattandosi di condotta rivolta a soggetti destinati ad assumere una veste processuale, all'art. 377 o all'art. 377-bis cod. pen.";

(ii) quanto al possibile inquadramento ai sensi degli art. 115 e 380 c.p., le Sezioni Unite precisano che "l'attività svolta dal consulente tecnico del Pubblico ministero (...) assume caratteristiche particolari e non si presta ad essere definita come attività di parte, trattandosi di pubblico ufficiale che, una volta nominato, assume un ufficio che non può rifiutare ed esercita una funzione pubblica, collaborando non a tutelare gli interessi di una parte processuale ma ad accertare la verità. Inoltre l'inapplicabilità dell'art. 115 cod. pen. discende dalla clausola di riserva con cui si apre proprio questa disposizione («salvo che la legge disponga altrimenti»): l'istigazione, mediante offerta o promessa di denaro o di utilità ad un pubblico ufficiale è, infatti, punibile ai sensi dell'art. 322 cod. pen. e dell'art. 377 cod. pen.".

 

3. La Corte passa quindi a valutare la sussumibilità del fatto nell'art. 377 c.p., che - come già aveva sottolineato la sentenza Pizzicaroli - costituisce fattispecie speciale, quindi prevalente ex art. 15 c.p., rispetto all'art. 322 c.p.: specialità riscontrabile "in relazione sia al profilo soggettivo, per la specificità della persona coinvolta (sempre che abbia già assunto la veste di testimone per effetto di citazione a comparire), sia al profilo oggettivo, per la specificità dell'atto contrario ai doveri di ufficio, mirante, in sostanza, alla manipolazione dell'accertamento tecnico".

Dopo aver svolto una puntuale ricostruzione evolutiva del quadro normativo di riferimento e delle rationes sottese ai numerosi interventi modificativi del tessuto legislativo, le Sezioni Unite giungono ad una conclusione sostanzialmente analoga a quella della sezione rimettente in merito alla potenziale applicabilità della fattispecie di intralcio alla giustizia anche in relazione alle condotte di subornazione poste in essere nei confronti del consulente tecnico nominato in sede penale. La Corte precisa come - in tale ipotesi - la fattispecie "indotta" dalla condotta subornatrice non debba essere individuata tanto nell'art. 373 c.p. (False perizia o interpretazione), quanto in quella dell'art. 371-bis c.p. (False informazioni al pubblico ministero), in fase di indagini, o in quella dell'art. 372 c.p. (Falsa testimonianza), in fase dibattimentale.

In particolare, secondo i giudici della Cassazione, il consulente tecnico (anche quello del pubblico ministero) "non è un perito e non produce dunque una perizia", quindi non può commettere il reato tipizzato dall'art. 373 c.p. Secondo la Corte "è ben possibile pensare che vi sia stato un difetto di coordinamento tra l'inserimento nell'art. 377 cod. pen. ad opera del d.l. n. 306 del 1992 del riferimento al consulente tecnico e la mancata previsione di tale figura soggettiva nell'art. 373 cod. pen., ma il rispetto del principio di tassatività del precetto penale rende impossibile considerare il riferimento alla «perizia» come estensibile alla «consulenza tecnica»".

Al consulente tecnico può essere invece riconosciuta la "sostanziale qualità di testimone" e, conseguentemente, la possibilità di commettere i delitti di cui agli artt. 372 e 371-bis c.p., rispetto ai quali è dunque configurabile il reato di intralcio alla giustizia. L'art. 501 c.p.p. prevede espressamente l'estensione al consulente tecnico delle disposizioni sull'esame dei testimoni "in quanto compatibili". Le Sezioni Unite precisano che il consulente tecnico che collabora con la parte privata gioca un ruolo di ausilio alla difesa, che lo rende equiparabile, "quanto a funzione e garanzie, al difensore"; il consulente del pubblico ministero, in particolare, "sia pure prestando un'attività di ausilio a una 'parte' del processo, si staglia dalla figura generale e presenta specifiche peculiarità, ripetendo dalla funzione pubblica dell'organo che coadiuva i relativi connotati. Egli acquista, quindi, natura di pubblico ufficiale o di incaricato di un pubblico servizio nel momento in cui compie le sue attività incaricate dal pubblico ministero, secondo la distinzione funzionale di cui agli artt. 357 e 358 cod. pen.". Ciò risulta pienamente coerente (e "compatibile") con la ritenuta applicabilità ai consulenti tecnici degli artt. 372 e 371-bis c.p. e quindi con il possibile utilizzo anche dell'art. 377 c.p. per punire la condotta subornatrice di tali soggetti.

Secondo la Corte, tale conclusione trova decisiva conferma nel dato letterale dell'art. 377 c.p., il cui riferimento al "consulente tecnico" non pare poter essere limitato - come invece vorrebbe il prevalente orientamento dottrinale - al consulente nominato dal giudice civile, al quale per espressa previsione legislativa (art. 64 c.p.c.) si applicano tutte le disposizioni del Codice penale riferite ai periti; anzi, proprio l'applicabilità dell'art. 377 c.p. alle condotte di subornazione indirizzate a tale soggetto anche nell'originaria versione codicistica (modificata per la prima volta nel 1992) costituisce prova ulteriore, sul piano sistematico, del fatto che il richiamo al "consulente tecnico" inserito nel testo della fattispecie incriminatrice sia inequivocabilmente da interpretare in relazione ai consulenti tecnici del processo penale.

 

4. Un ulteriore problema si pone tuttavia quando - come nel caso in esame - il consulente tecnico del Pubblico ministero non abbia ancora assunto le vesti (sostanziali) di 'testimone', "non essendo ancora stato citato come tale o come persona informata sui fatti al momento della realizzazione della condotta subornatrice"; è infatti consolidato l'orientamento giurisprudenziale che ritiene necessaria l'assunzione formale della qualità di testimone - che si acquista al momento dell'autorizzazione del giudice alla citazione del soggetto in tale veste - affinché si possa configurare il delitto dell'art. 377 c.p. Proprio per questa ragione, d'altra parte, la sentenza Pizzicaroli aveva escluso che, nel caso concreto, potesse trovare applicazione l'art. 377 c.p. ("in quanto il consulente tecnico del Pubblico ministero, nel momento in cui era stata realizzata la condotta illecita, non aveva già assunto la veste di testimone per effetto di citazione a comparire").

Le Sezioni Unite, tuttavia, sposano sul punto il diverso orientamento adottato dal Collegio rimettente: considerata la peculiare posizione del consulente tecnico del Pubblico ministero - che, come detto, in qualità di pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio è sottoposto tra l'altro a doveri di obiettività e di imparzialità -, costui a seguito della nomina (da parte del Pubblico ministero) "riveste già una precisa veste processuale, potenzialmente destinata a rifluire sull'assunzione della qualità 'testimoniale' ex artt. 371-bis o 372 cod. pen. Questa qualità, anche se non ancora formalmente assunta, può dunque ritenersi immanente, in quanto prevedibile e necessario sviluppo processuale della funzione assegnata al consulente tecnico nominato dalla parte pubblica". Conseguentemente, la Corte conclude nel senso che "il reato di cui all'art. 377 c.p. è in astratto configurabile nella fattispecie in esame".

 

5. Il fatto concreto sottoposto a giudizio, proseguono le Sezioni Unite, non può tuttavia essere sussunto in tale fattispecie: leggendo l'art. 377 c.p. in relazione alla condotta descritta dagli artt. 371-bis e 372 c.p., risulta infatti come, per integrare il fatto tipico di intralcio alla giustizia, il "testimone" (al quale - come visto - può essere legittimamente equiparato, sin dalla nomina, il consulente tecnico del Pubblico ministero) debba essere indotto ad "affermare il falso o a negare il vero" oppure a "rendere dichiarazioni false". Ciò è possibile solo quando il consulente è chiamato ad esprimersi "sulla natura o sulla consistenza dei fatti che egli ha accertato e che sono posti a fondamento delle sue valutazioni tecniche, in quanto in relazione alla descrizione di meri fatti la sua posizione in nulla differisce da quella del testimone. Ciò però non vale, ovviamente, per le vere e proprie valutazioni tecnico-scientifiche, in quanto il consulente, allorquando formula un proprio personale giudizio, esprime una opinione, che, come tale, è incompatibile con un apprezzamento in termini di verità-falsità". Pertanto, quando il consulente del Pubblico ministero riferisce "propri giudizi" non può certamente rendersi responsabile del reato di falsa testimonianza e, conseguentemente, non potrà configurarsi il delitto di intralcio alla giustizia in relazione alle condotte che - come accaduto nel caso in esame - mirino a manipolare le valutazioni tecniche che tale soggetto è chiamato ad esprimere.

Conclusivamente, il fatto sub iudice viene pertanto inquadrato nella fattispecie di istigazione alla corruzione (art. 322 c.p.), conformemente alla soluzione propugnata dal Procuratore generale (e già adottata nel giudizio di appello). Nell'aderire a tale conclusione, le Sezioni Unite richiamano adesivamente le osservazioni svolte dalla sentenza Pizzicaroli in merito al rapporto di specialità che intercorre tra l'art. 377 e l'art. 322 c.p., per cui la seconda fattispecie (generale) deve trovare applicazione quando non ricorrono tutti gli elementi costitutivi della norma speciale.

 

6. E' su tale conclusione che si appuntano i dubbi di legittimità costituzionale che hanno indotto i giudici del Supremo Collegio a rimettere la questione al giudizio definitivo della Consulta. Le Sezioni Unite sottolineano infatti gli esiti paradossali derivanti dall'adesione a tale soluzione interpretativa: la condotta subornatrice indirizzata al consulente del Pubblico ministero risulta infatti sanzionata, a titolo di istigazione alla corruzione, con una pena - risultante dal combinato disposto degli artt. 322 e 319 c.p. - più elevata (reclusione da un anno e quattro mesi a tre anni e quattro mesi) rispetto a quella - risultante dal combinato disposto degli artt. 377 e 373 c.p. - comminata per la subornazione del perito del giudice (punita, a titolo di intralcio alla giustizia, con la reclusione da otto mesi a tre anni).

Parimenti irragionevole risulta il diverso trattamento sanzionatorio dell'offerta corruttiva nei confronti del consulente tecnico nel processo civile (art. 377 c.p.) e nel processo penale (art. 322 c.p.); nonché, rispetto al consulente tecnico del Pubblico ministero, la disparità sanzionatoria tra la condotta diretta a far manipolare le valutazioni tecnico-scientifiche (art. 322 c.p.) e quella diretta a far falsificare i fatti accertati (art. 377 c.p.).

Con l'ulteriore incoerenza sistematica di inquadrare i fatti qualificati come intralcio alla giustizia nei reati contro l'amministrazione della giustizia e quelli qualificati come istigazione alla corruzione tra i reati contro la pubblica amministrazione.

Si tratta, chiosano perentorie le Sezioni Unite, di "conseguenze paradossali e violatrici del principio di eguaglianza, posto che situazioni del tutto analoghe vengono inspiegabilmente disciplinate sul piano del trattamento sanzionatorio in termini differenti". D'altra parte, i giudici della Cassazione ritengono che l'art. 322 c.p. costituisca "l'unica disposizione applicabile alla particolare fattispecie sottoposta all'esame della Corte (...) con gli inevitabili profili di contrasto con l'art. 3 Cost.".

A conclusione di tale articolata argomentazione, alla Corte "non resta che rilevare la non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell'art. 322, comma secondo, cod. pen., in riferimento all'art. 3 Cost., sotto il duplice profilo della inspiegabile disparità di trattamento di situazioni analoghe e della irragionevolezza, nella parte in cui per l'offerta o la promessa di denaro o altra utilità al consulente tecnico del pubblico ministero per il compimento di una falsa consulenza prevede una pena superiore a quella di cui all'art. 377, comma primo, cod. pen., in relazione all'art. 373 cod. pen.".

 

7. La questione di legittimità sollevata dalle Sezioni Unite rappresenta un caso paradigmatico - quasi 'di scuola' - di violazione del parametro costituzionale della uguaglianza/ragionevolezza, essendo inquadrabile perfettamente nel classico schema triadico del giudizio funzionale a censurare il "trattamento diseguale di fatti uguali". L'indicazione del tertium comparationis (l'art. 377 c.p. in relazione all'art. 373 c.p.) rispetto alla norma specificamente censurata ed applicabile nel processo a quo (l'art. 322 c.p.) - che costituisce il profilo più delicato per la valida ed efficace formulazione di tali questione di costituzionalità - risulta infatti assolutamente pertinente, perché individua una situazione giuridica sostanzialmente identica a quella oggetto della fattispecie concreta, senza che sia possibile rintracciare una motivazione ragionevole a sostegno della differenza di trattamento sanzionatorio. Anzi, nel raffronto tra le due situazioni normative è quella punita in modo più lieve ex artt. 377 e 373 c.p., cioè la subornazione del perito del giudice, che potrebbe a limite giustificare un risposta punitiva più pesante, alla luce del ruolo ausiliario a quello decisorio che è proprio del perito (e non del consulente tecnico del Pubblico ministero).

In linea teorica, la Corte costituzionale - tradizionalmente refrattaria ad accogliere questioni di legittimità di tal fatta, per l'alto rischio di sconfinare in valutazioni politiche nella materia penale - potrebbe tentare di rintracciare e proporre un'interpretazione sistematica conforme al dettato costituzionale, ad esempio attraverso una forzatura ermeneutica in bonam partem della fattispecie di cui all'art. 377 c.p., che sarebbe estesa fino ad abbracciare nella propria sfera di tipicità anche le condotte subornatrici del consulente tecnico del Pubblico ministero. Simili scappatoie, tuttavia, sembrano difficilmente percorribili nel caso de quo, in cui l'interpretazione normativa oggetto di censura proviene direttamente dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, che nell'ordinanza di rimessione hanno sostanzialmente stabilizzato un "diritto vivente" al quale la Corte costituzionale attribuisce il massimo rilievo, in quanto "assume la disposizione censurata nel significato in cui essa attualmente «vive» nell'applicazione giudiziale", specialmente se "consacrato in una decisione delle Sezioni unite" (così, da ultimo, C. Cost. n. 230 del 2012).

Se la questione appare fondata nel merito, più complicate possono risultare invece le modalità attraverso le quali la Corte costituzionale potrà sanare il vizio oggetto di denuncia. Le Sezioni Unite, come illustrato, formulano il petitum censurando la legittimità della fattispecie di istigazione alla corruzione (art. 322 c.p. in relazione all'art. 319 c.p.), nella parte in cui prevede - per la condotta oggetto del giudizio - una pena più elevata rispetto a quella prevista, per fatti sostanzialmente analoghi, dalla fattispecie (tertium comparationis) di intralcio alla giustizia (art. 377 c.p. in relazione all'art. 373 c.p.). La Corte Costituzionale sembra quindi chiamata a pronunciare non una sentenza (parzialmente) ablativa ma, a ben vedere, una decisione manipolativa della disposizione di cui all'art. 322 c.p. (la cui pena dovrebbe essere rimodulata in relazione alla particolare sottofattispecie costituita dalla proposta corruttiva finalizzata ad ottenere una falsa consulenza da parte del consulente tecnico del Pubblico ministero). E' vero che la Corte, soprattutto nella materia penale, osserva un rigido self restraint rispetto a questa tipologia di pronunce, ma in questo caso la puntuale ed inequivoca indicazione del tertium comparationis dovrebbe agevolare un esito di accoglimento.

Una via alternativa poteva essere quella di censurare l'art. 373 c.p., nella parte in cui non prevede tra i soggetti attivi del reato anche il consulente tecnico del Pubblico ministero. In questa diversa prospettiva, la Corte sarebbe stata chiamata a pronunciare una sentenza additiva in bonam partem, che, attraverso l'estensione applicativa dell'art. 373 c.p. (e, mediatamente, dell'art. 377 c.p.) avrebbe sortito l'effetto sistematico di sottrarre le sottofattispecie relative alla corruzione del consulente tecnico del Pubblico ministero alla più grave sanzione dell'art. 319-ter c.p. (e mediatamente dell'art. 322 c.p.) al quale sono oggi sottoposte, equiparando coerentemente il complessivo trattamento punitivo del consulente tecnico a quello del perito.

Tuttavia, tale soluzione, che appare forse più lineare e che colpirebbe la fattispecie effettivamente viziata (art. 373 c.p.), in ragione della (irragionevole) omessa previsione dei consulenti tecnici tra i soggetti attivi del reato - "inerzia del legislatore" puntualmente evidenziata e stigmatizzata anche nell'ordinanza in esame -, rischierebbe tuttavia di esporsi a rilievi di inammissibilità sul piano dei possibili conseguenti effetti di ordine sistematico: tale soluzione, infatti, sarebbe percorribile solo qualora si inquadrassero con certezza i rapporti tra l'art. 373 c.p. e l'art. 319-ter c.p. (corruzione in atti giudiziari) in termini di concorso apparente di norme (per cui, in caso di falsità conseguente all'accettazione di un'offerta corruttiva ex art. 377 c.p., l'unica fattispecie applicabile sarebbe l'art. 373 c.p., per il quale sarebbe chiamato a rispondere, a titolo concorsuale, anche il privato corruttore); viceversa, qualora i rapporti tra le due figure delittuose fossero risolti - come sostiene una parte della dottrina - nel senso del concorso formale di reati, allora l'intervento additivo sull'art. 373 c.p. avrebbe anche un effetto, ad oggi assolutamente inammissibile, di estensione in malam partem di una fattispecie incriminatrice.