14 gennaio 2015 |
L'offerta "corruttiva" al consulente tecnico del p.m. intralcia la giustizia
Cass., Sez. un., ud. 25.09.14 (dep. 12.12.2014), n. 51824, Pres. De Roberto, Rel. Rotundo
1. La sentenza in epigrafe rappresenta l'epilogo della complicata vicenda 'qualificatoria' della condotta allettatrice del consulente tecnico del p.m. non ancora citato per essere sentito sul contenuto della consulenza.
In essa, la Corte di cassazione, nella sua massima composizione, ha enunciato il principio di diritto seguente: "L'offerta o la promessa di denaro o di altra utilità al consulente tecnico del pubblico ministero finalizzata ad influire sul contenuto della consulenza integra il delitto di intralcio alla giustizia di cui all'art. 377 cod. pen. in relazione alle ipotesi di cui agli artt. 371-bis o 372 cod. pen."
Ai fini della riferita presa di posizione è risultato dirimente, come meglio si dirà, il ripensamento maturato dalle Sezioni unite in ordine alla circostanza che anche in relazione a giudizi di natura squisitamente tecnico-scientifica possa essere svolta una valutazione in termini di verità-falsità.
Ma procediamo con ordine, ancorché con la dovuta sintesi.
2. Come si ricorderà, la questione traeva origine dalla condotta tenuta da taluni soggetti che consegnavano ad un consulente tecnico nominato ai sensi dell'art. 359 c.p.p. una somma di denaro (simulatamente accettata) perchè egli predisponesse una falsa consulenza, favorevole alla compagnia coinvolta nell'incidente aereo oggetto delle indagini preliminari in corso.
A dispetto della semplicità dei fatti, complessa si rivelava la qualificazione giuridica della fattispecie concreta, variamente inquadrata, nelle diverse tappe e dai diversi protagonisti del procedimento a quo, come corruzione in atti giudiziari (art. 319-ter c.p.), come tentativo di corruzione in atti giudiziari (ex artt. 56 e 319-ter c.p.), come istigazione alla corruzione (ex art. 322, co. 2, c.p.), come istigazione - penalmente irrilevante ex art. 115 c.p. - a commettere falsa consulenza (ex art. 380 c.p.), e, infine, come intralcio alla giustizia (ex art. 377 c.p.).
In particolare, la diatriba qualificatoria si polarizzava sulla riconducibilità della condotta considerata all'ambito di operatività dell'art. 377 c.p. o, piuttosto, a quello dell'art. 322 c.p. e, più in dettaglio, sulla ravvisabilità o meno, nella fattispecie data, delle note 'specializzanti' di cui all'art. 377 c.p.[1], che ne avrebbero impedito la sussunzione nella 'generale' previsione incriminatrice dell'istigazione alla corruzione.
Due le peculiarità esibite dalla fattispecie concreta che rendevano problematica una piana sussunzione dei fatti sub iudice alla fattispecie delittuosa dell'intralcio alla giustizia (già subornazione): da un lato, il consulente tecnico del pubblico ministero non aveva ancora assunto le vesti (formali) di 'testimone', non essendo stato ancora citato come tale o come persona informata sui fatti al momento della realizzazione della condotta subornatrice; dall'altro, l'ausiliario del magistrato inquirente era stato chiamato non solo (e non tanto) ad esprimersi sulla natura e sulla consistenza dei fatti da accertare, ma anche (e soprattutto) a formulare una valutazione tecnico-scientifica, in particolare circa la idoneità dell'addestramento ricevuto dal copilota dell'aereo.
In virtù delle predette circostanze, in effetti, la prospettiva di concepire il consulente tecnico del p.m. come soggetto attivo dei reati di cui agli artt. 371-bis e 372 c.p. - cui, tra gli altri, fa riferimento l'art. 377 c.p. nel connotare finalisticamente la condotta allettatoria - si trovava, da una parte, a fronteggiare il consolidato orientamento giurisprudenziale che, ai fini della configurabilità del delitto di cui all'art. 377 c.p., riteneva necessaria l'assunzione formale della qualità di testimone; dall'altra, a misurarsi con la difficoltà di esprimere, nei confronti di una valutazione tecnico-scientifica, un apprezzamento in termini di verità o falsità.
3. La Sesta sezione penale della Cassazione, nell'ipotesi data, aveva sposato la tesi favorevole alla configurabilità del reato di intralcio alla giustizia.
In particolare, il Collegio affermava che il consulente tecnico del p.m. debba considerarsi esposto alle conseguenze penali previste per l'ipotesi di false dichiarazioni, in sede di esame, dall'art. 372 c.p. o, in sede di indagini, dall'art. 371-bis c.p.: ciò in virtù del dovere di verità sullo stesso incombente, conseguenza sia della natura pubblicistica del munus di ausiliario della parte pubblica sia dell'assoggettamento di costui, ex art. 501 c.p.p., alle regole sull'esame dei testimoni - tra cui quella diretta al soggetto esaminato, e considerata per nulla incompatibile con la funzione assegnata al consulente tecnico, di «rispondere secondo verità alle domande che gli sono rivolte» (art. 198 c.p.p.).
Ad avviso della Sesta sezione penale, all'accoglimento dell'opzione esegetica prospettata non sarebbe stata d'ostacolo neppure la assenza, al momento di riferimento, della (autorizzazione alla) citazione a comparire del consulente tecnico. Con soluzione 'innovativa', si affermava, infatti, che la qualità "testimoniale", ex artt. 371-bis o 372 c.p., anche se non ancora formalmente assunta, è da ritenersi immanente al soggetto in questione, in quanto prevedibile sviluppo processuale della funzione assegnatagli.
L'originalità della conclusione da ultimo riferita, nondimeno, consigliava il Collegio giudicante a rimettere la questione all'attenzione delle Sezioni Unite, evidenziando al contempo le criticità di ordine costituzionale che avrebbe esibito, per converso, la riconduzione del caso di specie al perimetro applicativo dell'art. 322 c.p. [cfr. Cass. pen., Sez. VI, ord. 14.3.2013 (dep. 20.3.2013), n. 12901, in questa Rivista, con nota di M. Ricci; e, altresì, B. Romano, Istigare un consulente tecnico del pubblico ministero a predisporre una falsa consulenza costituisce reato? Alle Sezioni unite vecchie certezze e nuovi dubbi, in Cass. pen., n. 4/2013, pp. 1304 ss.].
Investite della quaestio iuris, le Sezioni unite condividevano la prospettiva ermeneutica secondo cui nella proposta corruttiva avanzata al consulente tecnico del p.m. sarebbero ravvisabili, in astratto, gli estremi dell'intralcio alla giustizia. In particolare, si esprimevano in senso adesivo quanto alla possibilità di considerare immanente all'ausiliario della pubblica accusa la qualità di testimone, affermazione che, nella prospettiva della Sezione rimettente, come accennato, poteva rischiare di suscitare perplessità a motivo delle diverse conclusioni cui in passato era giunta la giurisprudenza di legittimità.
Per converso, agli effetti della qualificazione della fattispecie concreta in termini di intralcio alla giustizia, alle stesse Sezioni appariva insuperabile il carattere squisitamente valutativo dell'oggetto della consulenza affidata (idoneità dell'addestramento ricevuto dal copilota deceduto).
Si osservava, in effetti, che il consulente tecnico del p.m. - senz'altro tenuto, al pari del testimone, a rispondere secondo verità sulla natura e sulla consistenza dei fatti che egli abbia accertato e posto a fondamento delle sue valutazioni tecniche - non può, viceversa, rendersi responsabile del reato di falsa testimonianza allorquando riferisca propri giudizi (solo a lui consentiti e, invece, rigorosamente preclusi al testimone), giudizi che sono, come tali, incompatibili con un apprezzamento in termini di verità-falsità.
Per le ragioni esposte, le Sezioni unite concludevano nel senso che l'unica disposizione applicabile al caso in esame fosse l'art. 322, co. 2, c.p. (istigazione alla corruzione). Sulla base di un tale assunto, tuttavia, esse sollevavano, al contempo, questione di costituzionalità della norma appena citata, in riferimento all'art. 3 Cost., "nella parte in cui per l'offerta o la promessa di denaro o altra utilità al consulente tecnico del pubblico ministero per il compimento di una falsa consulenza prevede una pena superiore a quella di cui all'art. 377, comma primo, cod. pen., in relazione all'art. 373 cod. pen.", cioè a dire a quella riservata a condotta allettatrice diretta al perito del giudice penale/consulente tecnico del giudice civile [cfr. Cass., Sez. un., ord. 27 giugno 2013 (dep. 23 ottobre 2013), n. 43384, in questa Rivista, con scheda di M. Scoletta e nota di G. Oss, Situazioni analoghe, pene differenti: le Sezioni Unite chiedono l'intervento della Corte Costituzionale. Qualche riflessione sulle discrasie dell'ordinamento penale e sul principio di ragionevolezza; e, ancora, B. Romano, L'istigazione nei confronti del consulente tecnico del pubblico ministero: le Sezioni Unite investono la Corte costituzionale, in Cass. pen., n. 2/2014, pp. 462 ss.; P. Bartolo, Disparità di trattamento sanzionatorio per l'istigazione alla corruzione, tra consulente del p.m. e perito del giudice, ivi, n. 3/2014, pp. 897 ss.].
La Corte costituzionale, però, con sentenza, dichiarava inammissibile la questione reputando l'intervento invocato non risolutivo, se non addirittura disfunzionale. Inoltre, i giudici costituzionali evidenziavano l'irrilevanza della questione sollevata rispetto al procedimento a quo, non condividendo la conclusione delle Sezioni rimettenti secondo cui all'applicabilità dell'art. 377 c.p. al caso di specie avrebbe ostato il carattere eminentemente valutativo della consulenza tecnica affidata all'ausiliario del pubblico ministero [cfr. Corte cost., 10 giugno 2014, n. 163, in questa Rivista, con scheda di L. Romano e con nota di A.M. Piotto, Il consulente tecnico del pubblico ministero tra intralcio alla giustizia ed istigazione alla corruzione. La Corte costituzionale ''decide di non decidere''; da ultimo, B. Romano, La Corte costituzionale e la "subornazione" nei confronti del consulente tecnico del pubblico ministero: ancora in nuce il processo di parti?, in Cass. pen., n. 10/2014, pp. 3230 ss.].
A questo punto, la 'parola' tornava nuovamente alle Sezioni unite, chiamate a misurarsi, in definitiva, con tre alternative: 1) confermare l'inquadramento del fatto concreto come istigazione alla corruzione, prediligendo, tuttavia, un'opzione qualificatoria denunciata come incostituzionale dallo stesso Massimo consesso; 2) sollevare una nuova quaestio legitimitatis, ma, probabilmente, esposta al rischio di una ennesima declaratoria di inammissibilità; 3) rivedere, anche alla luce dei rilievi della Corte costituzionale, le conclusioni in punto di non sussumibilità del fatto sub iudice all'ipotesi delittuosa dell'intralcio alla giustizia.
4. Nel dare conto della relativa informazione provvisoria (cfr. G. Leo, Le Sezioni unite configurano il reato di «intralcio alla giustizia» per l'offerta «corruttiva» al consulente del pubblico ministero, in questa Rivista, 29 settembre 2014), si era già anticipato che, infine, le Sezioni unite hanno ritenuto configurabile l'ipotesi di intralcio alla giustizia di cui all'art. 377 c.p. per il caso di offerta o promessa di denaro o di altra utilità al consulente tecnico del pubblico ministero fatta con l'intento di influire sul contenuto della consulenza.
È ora possibile dare conto dell'iter argomentativo alla base dell'enunciato principio di diritto.
In prima battuta, le Sezioni unite ripercorrono le modifiche di cui è stato fatto oggetto, nel corso del tempo, l'art. 377 c.p., evidenziando come il problema qualificatorio della condotta allettatrice del consulente tecnico del p.m. sia scaturito da un difetto di adeguamento delle norme in materia di delitti contro l'amministrazione della giustizia, di cui al codice penale del '30, al rinnovato assetto processuale introdotto dal codice di rito del 1988.
In particolare, l'art. 377 c.p., modulato sull'impianto inquisitorio del coevo codice di procedura, avrebbe denunciato la sua inadeguatezza una volta venuta meno, con il passaggio ad un sistema di tipo accusatorio, la sostanziale equiparazione tra prove raccolte in contraddittorio e risultati delle indagini dell'accusa.
L'opera legislativa di riallineamento dei delitti in questione al mutato quadro processuale, che pure conosceva tappe importanti, segnatamente nel 1992 e nel 2000, non veniva portata a compimento, restando ad essa estranea la figura del consulente tecnico nominato dal pubblico ministero ex art. 359 c.p.p., consulente non più equiparabile al perito nominato dal giudice[2] e, di conseguenza, non annoverabile tra i soggetti attivi del delitto di falsa perizia ex art. 373 c.p.
Da qui il precipitato della non ascrivibilità dell'offerta o promessa indirizzata al c.t. del p.m., con lo scopo di orientarne gli esiti della consulenza, all'ambito di operatività dell'art. 377 c.p. nella parte in cui fa riferimento al 'delitto-fine' di cui all'art. 373 c.p.
A questo punto, le Sezioni unite procedono ad accertare che la subornazione del consulente tecnico del pubblico ministero non sia punibile a diverso titolo, all'uopo valorizzando non già il richiamo alla falsa perizia contenuto nell'art. 377, co. 1, c.p., quanto quello alla falsa testimonianza e alle false informazioni al pubblico ministero (artt. 372 e 371-bis c.p.).
La verifica ha esito positivo in considerazione del fatto che il consulente di cui si discute, sentito in dibattimento nelle forme dell'esame testimoniale e, ancora prima, eventualmente, chiamato a rendere dichiarazioni al p.m. che l'ha nominato, ben potrebbe essere indotto, a mezzo di offerta o di promessa di denaro o di altra utilità, ad "affermare il falso e negare il vero". E non v'è dubbio, ad avviso delle Sezioni unite, che sul c.t. del p.m. incomba un dovere di verità: egli, infatti, ancorché chiamato a prestare un'attività di ausilio ad una 'parte' del processo, presenterebbe tratti peculiari rispetto al consulente tecnico chiamato a collaborare con una parte privata, "ripetendo dalla funzione pubblica dell'organo che coadiuva i relativi connotati".
Del resto, che il consulente tecnico del p.m. sia esposto alle conseguenze penali previste, in caso di false dichiarazioni, dall'art. 372 c.p. o, in sede di indagini, dall'art. 371-bis c.p. verrebbe confermato da elementi di ordine testuale e sistematico.
In particolare, l'art. 384 c.p., nell'escludere la punibilità, nei casi previsti dagli artt. 371-bis, 371-ter, 372 e 373 c.p., del consulente tecnico che abbia commesso il fatto, ma che per legge non avrebbe dovuto essere assunto come tale o avrebbe dovuto essere avvertito della facoltà di astenersi dal rendere consulenza, riferirebbe a tale figura soggettiva proprio i reati di cui agli artt. 371-bis e 372 c.p., risultando inapplicabili, viceversa, l'art. 373 c.p., per le ragioni già esposte, e l'art. 371-ter c.p., concernente le false dichiarazioni rese al difensore.
D'altro canto, lo stesso art. 377 c.p., nella parte in cui menziona il consulente tecnico, non potrebbe leggersi come relativo al (solo) consulente tecnico del giudice civile, dal momento che questi - assoggettato ex art. 64, co. 1, c.p.c. alle disposizioni del codice penale relative ai periti - sarebbe già ricompreso nella sfera di operatività dell'art. 377 c.p. proprio in ragione del riferimento, ivi contenuto, alla figura del perito.
Risolta negli anzidetti termini la questione della astratta riconducibilità all'art. 377 c.p. della condotta induttiva o violenta esercitata nei confronti del consulente tecnico del pubblico ministero, le Sezioni unite confermano poi l'impostazione, già abbracciata nell'ordinanza di rimessione alla Corte costituzionale, circa la problematica posta dal fatto che, nel caso di specie, "il consulente tecnico del pubblico ministero non si era ancora, per così dire, 'trasformato' in testimone, non essendo stato citato come tale o come persona informata sui fatti al momento della realizzazione della condotta subornatrice".
Si ribadisce, in altre parole, che, a motivo delle caratteristiche esibite, il consulente tecnico, con la nomina ad opera del p.m., rivestirebbe già una precisa veste processuale, potenzialmente destinata a rifluire sull'assunzione della qualità "testimoniale" ex artt. 371-bis e 372 c.p., qualità da ritenersi, sebbene non ancora formalmente assunta, immanente allo stesso, poichè costituente prevedibile e necessario sviluppo processuale della funzione allo stesso assegnata.
In tal modo, il Collegio sèguita a misurarsi con l'ulteriore profilo problematico - risultato protagonistico nella fattispecie sub iudice - della compatibilità o meno del tenore prettamente valutativo della consulenza con una qualificazione in termini di verità o di falsità della medesima, ai fini e per gli effetti delle fattispecie di cui agli artt. 371-bis e 372 c.p. e, di conseguenza, di quella di cui all'art. 377 c.p.
Sul punto, le Sezioni unite, anche alla luce dei rilievi operati dal Giudice costituzionale, rimeditano le conclusioni cui erano approdate in prima battuta e in base alle quali la natura soggettiva delle opinioni tecnico-scientifiche richieste al consulente sarebbe stata d'ostacolo all'integrazione degli estremi del delitto di intralcio alla giustizia.
A supporto della diversa opzione ermeneutica sposata nella sentenza de qua, i giudici di legittimità evidenziano che, in base ad un orientamento giurisprudenziale significativamente esteso, "quando intervengano in contesti che implicano l'accettazione di parametri di valutazione normativamente determinati o tecnicamente indiscussi, gli enunciati valutativi assolvono certamente una funzione informativa e possono dirsi veri o falsi".
La Corte attinge, in particolare, a taluni precedenti in tema di falsa perizia o interpretazione (art. 373 c.p.) e di falsità ideologica in atto pubblico (art. 479 c.p.) in cui è stata asseverata l'analogia sussistente tra enunciato valutativo o qualificatorio ed enunciato constativo o descrittivo, allorquando l'enunciato del primo tipo si fondi su criteri predeterminati, tanto più alla luce della circostanza che la falsità della conclusione può dipendere altresì dalla "falsità di una delle premesse".
Se ne ricava così che anche in riferimento ai giudizi di natura squisitamente tecnico-scientifica possa essere svolta una valutazione in termini di verità-falsità.
Alla stregua di tali coordinate, le Sezioni unite concludono, pertanto, che il consulente del pubblico ministero va equiparato al testimone anche quando formuli giudizi tecnico-scientifici, "sicché il caso in esame (in cui il consulente del pubblico ministero era chiamato ad accertamenti che postulavano sia il riscontro di dati oggettivi sia profili valutativi), deve essere inquadrato, a seconda delle fasi processuali in cui viene fatta l'offerta (rifiutata) nel combinato disposto di cui agli art. 377 e 371-bis c.p. (intralcio alla giustizia per far rendere false dichiarazioni al pubblico ministero) o in quello di cui agli art. 377 e 372 c.p. (intralcio alla giustizia per far rendere falsa testimonianza)".
5. Nella presente sede, non è possibile sviluppare riflessioni che meriterebbero ben altro approfondimento. Ci limitiamo, quindi, a qualche minuta considerazione 'a caldo'.
Intanto, va detto che le Sezioni unite hanno optato per la soluzione che, all'indomani della sentenza della Corte costituzionale appariva quella più prevedibile (e, probabilmente, quella che offriva maggiori garanzie di praticabilità).
Peraltro, abbiamo la sensazione che la prospettiva dischiusa dai rilievi dei giudici costituzionali - soprattutto circa gli incongrui esiti cui si sarebbe addivenuti in ipotesi di consulenze a carattere 'misto'[3] - abbia propiziato la massima acquiescenza alla pronuncia della Consulta.
Ci riferiamo al ripensamento maturato dalla Cassazione quanto alla compatibilità, con valutazioni di carattere tecnico-scientifico, di un apprezzamento declinato in termini di verità-falsità.
Le Sezioni unite, in effetti, avrebbero forse potuto limitarsi ad una mera riqualificazione della specifica 'consulenza' (idoneità dell'addestramento), considerando come oggettivo ciò che in prima battuta avevano reputato esibire connotati prettamente valutativi. Ciò non sarebbe valso, tuttavia, a scongiurare gli anzidetti risvolti applicativi evocati dalla Corte costituzionale, risvolti tanto più irragionevoli in quanto concernenti un'ipotesi di istigazione, certo qualificata, ma pur sempre derogatoria rispetto alla regola di cui all'art. 115 c.p.
Ci sembra che le Sezioni unite siano state così 'costrette' ad operare una radicale inversione di marcia, fissando il principio generale per cui anche i giudizi di natura squisitamente tecnico-scientifica sarebbero passibili di una valutazione secondo verità o falsità.
Un principio che, sebbene con i limiti tratteggiati nella giurisprudenza richiamata a supporto, consentirebbe di ritenere recessiva, in linea di principio, l'ipotesi che l'autore della condotta allettatoria possa essere chiamato a rispondere sia del reato di intralcio alla giustizia (in relazione ai contenuti propriamente descrittivi delle sue dichiarazioni) sia del reato di istigazione alla corruzione (per quanto invece concerne le sue valutazioni), laddove il p.m., al consulente tecnico, abbia dato incarico sia di fornire informazioni che di formulare valutazioni.
Resta la tentazione - cui è difficile resistere - di chiedersi il perchè le Sezioni unite abbiano ravvisato l'esigenza di chiamare in causa la Corte costituzionale, quando, sin dall'inizio, dunque, avrebbero potuto abbracciare un'opzione ermeneutica scevra da obiezioni di illegittimità costituzionale, argomentando in base alla stessa giurisprudenza di legittimità. Peraltro, a voler essere rigorosi, ci sembra che la difficoltà di sussumere la condotta allettatoria del consulente tecnico del p.m. al combinato disposto di cui agli art. 377 e 371-bis c.p. o a quello di cui agli art. 377 e 372 c.p. non stia tanto nella possibilità o meno di apprezzare una valutazione come vera o falsa - lo stesso legislatore parla di parere mendace nell'art. 373 c.p. - quanto nella possibilità o meno, a monte, di ricondurre la valutazione all'area semantica dei termini 'dichiarazione' e/o 'affermazione' di cui, rispettivamente, agli artt. 371-bis e 372 c.p.
Un'ulteriore considerazione che ci sentiamo di fare riguarda quello che, probabilmente a ragione, la Sesta sezione penale aveva identificato come il vero punctum crucis agli effetti di una piana sussunzione del fatto concreto nella fattispecie delittuosa di intralcio alla giustizia, ovverosia la circostanza che, al momento di realizzazione della condotta subornatrice, il consulente non fosse stato ancora citato come persona informata sui fatti né, tantomeno, come teste.
In effetti, è in un'ipotesi siffatta che più si avverte l'assenza di un'incriminazione ad hoc della falsa consulenza redatta dall'ausiliario dell'organo dell'accusa e, di conseguenza, il disallineamento tra la prima parte della norma («chiunque offre o promette denaro o altra utilità (...) a persona chiamata a svolgere attività di consulente tecnico» e interpretata dai giudici di legittimità come riferita al consulente tecnico del p.m.) e la seconda parte della previsione incriminatrice, in cui si elencano i reati-fine della condotta induttiva (e, per come interpretata dai giudici di legittimità, riferibile al c.t. del p.m. nella parte in cui richiama gli artt. 371-bis e 372 c.p.).
Nel caso prospettato, la 'sufficienza' della nomina ad opera del pubblico ministero ai fini dell'assunzione della qualità di persona chiamata a svolgere attività di consulente tecnico si trova a fare i conti con le peculiarità di struttura delle fattispecie gli artt. 371-bis e 372 c.p., che, coniate in relazione alle persone chiamate a rendere dichiarazioni all'Autorità giudiziaria, evocano l'esigenza di una citazione a comparire, citazione che, nell'ipotesi data, è insussistente.
Le Sezioni unite - avallando l'impostazione già suggerita dalla Sesta sezione - hanno superato l'impasse ravvisando nella mera nomina dell'ausiliario tecnico del magistrato inquirente l'attitudine all'investitura di costui (anche) a 'immanente' testimone. La tesi potrebbe non persuadere fino in fondo.
Nondimeno, le perplessità suscitate da una tale forzatura ermeneutica potrebbero riuscire sdrammatizzate in considerazione della mitigazione del trattamento sanzionatorio che ne deriverà al subornatore, altrimenti chiamato a rispondere ai sensi dell'art. 322 c.p.
Ad ogni modo, resta, quale sfrido dell'operazione, il fatto che il legislatore - molto probabilmente - si sentirà dispensato dall'intervenire in materia, alla dissimmetria sanzionatoria e sistematica avendo posto rimedio, per il momento, la giurisprudenza.
[1] L'art. 377, co. 1, c.p. prevede, infatti, che «Chiunque offre o promette denaro od altra utilità alla persona chiamata a rendere dichiarazioni davanti all'Autorità giudiziaria o alla Corte penale internazionale ovvero alla persona richiesta di rilasciare dichiarazioni dal difensore nel corso dell'attività investigativa, o alla persona chiamata a svolgere attività di perito, consulente tecnico o interprete per indurla a commettere i reati di cui agli articoli 371-bis, 371-ter, 372 e 373, soggiace, qualora l'offerta o la promessa non sia accettata, alle pene stabilite negli articoli medesimi, ridotte dalla metà ai due terzi».
[2] Come, viceversa, era a dire per il perito nominato dal p.m. nel corso dell'istruzione sommaria ai sensi dell'art. 391 del codice di rito del '30.
[3] Si ricorderà che, secondo la Corte costituzionale, sviluppando con rigore la linea interpretativa adottata dalle Sezioni unite, si sarebbe pervenuti, tra gli altri, all'esito, certamente incongruo, per cui, nell'ipotesi ordinaria, in cui l'indagine tecnica affidata all'ausiliario del pubblico ministero postuli tanto il riscontro di dati oggettivi che l'espressione di valutazioni, il soggetto che offre o promette denaro o altra utilità al consulente per influire sulla sua attività avrebbe dovuto rispondere, non già di uno solo, ma di due reati, in concorso formale tra loro: da un lato, del reato "speciale" di intralcio alla giustizia, in rapporto ai contenuti "descrittivi" della consulenza; dall'altro, del reato "generale" di istigazione alla corruzione, in rapporto ai contenuti valutativi.