9 dicembre 2013 |
Misure personali di prevenzione: nel caso di sospensione dell'esecuzione per lo stato di detenzione dell'interessato, la pericolosità va riverificata a sospensione esaurita
Corte cost., 2 dicembre 2013, n. 291, Pres. Silvestri, Rel. Frigo
1. Con la sentenza n. 291 del 2 dicembre 2013, depositata il 6 dicembre 2013, che qui di seguito tempestivamente pubblichiamo, la Corte costituzionale ha dichiarato parzialmente illegittimi l'art. 12 della legge 27 dicembre 1956, n. 1423 (recante disposizioni in materia di misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la sicurezza e per la pubblica moralità) e, in via consequenziale, l'art. 15 del d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159 (codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione), che la prima norma ha sostituito, nella parte in cui non prevedono che, nel caso in cui l'esecuzione di una misura di prevenzione personale resti sospesa a causa dello stato di detenzione per espiazione di pena della persona ad essa sottoposta, l'organo che ha adottato il provvedimento di applicazione debba valutare, anche d'ufficio, la persistenza della pericolosità sociale dell'interessato nel momento dell'esecuzione della misura.
2. Questo il caso che ha dato origine all'incidente di costituzionalità. Il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, giudice rimettente, è chiamato a decidere sulla proposta di applicazione della misura di prevenzione personale della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza, con obbligo di soggiorno nel comune di residenza o di dimora abituale, nei confronti di una persona indiziata di appartenere al sodalizio camorrista «clan dei casalesi». Al momento del giudizio il proposto si trova in stato di detenzione per espiazione di pena e, avendo riportato plurime condanne definitive a pena detentiva per delitti di stampo camorristico, la sua liberazione è prevista per il 2027 (ossia dopo circa quindici anni dal procedimento di applicazione della misura).
3. Innanzitutto, per comprendere i termini della questione sottoposta all'esame della Corte, occorre richiamare la soluzione offerta da una giurisprudenza ormai consolidata al problema - che non trova disciplina espressa ed esaustiva nel testo legislativo - della compatibilità delle misure di prevenzione personali con lo stato di detenzione per espiazione di pena.
Secondo l'orientamento affermato dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione con la sentenza n. 6 del 25 marzo 1993 (depositata il 14 luglio 1993) e che è stato seguito in modo costante dalla successiva giurisprudenza di legittimità, così da assurgere a «diritto vivente», le misure di prevenzione personali sono applicabili anche a soggetti ristretti in carcere. Non si può escludere, infatti, che anche il detenuto sia socialmente pericoloso e, d'altra parte, nulla autorizza a considerare certa la prognosi di esito positivo del trattamento penitenziario. In questo caso, però, l'esecuzione della misura resta sospesa ed è differita sino al momento in cui viene a cessare lo stato di detenzione, salva la possibilità per l'interessato di chiedere la revoca del provvedimento che ha disposto la misura qualora, medio tempore, la pericolosità precedentemente accertata sia venuta meno.
Secondo questa impostazione, perciò, occorre distinguere la fase nella quale la misura di prevenzione viene disposta, dalla fase della sua esecuzione. Mentre l'applicazione della misura non può essere considerata incompatibile con lo stato di detenzione per condanna definitiva, giacché l'unico presupposto richiesto dalla legge è la pericolosità sociale del proposto da accertare in relazione al momento in cui il provvedimento è adottato, diverso è a dirsi per la fase dell'esecuzione. Quest'ultima, infatti, è incompatibile con lo stato di detenzione e deve essere necessariamente differita al momento in cui detto stato sia venuto a cessare. Tale soluzione trova conferma nel disposto dell'art. 12 della legge n. 1423 del 1956 - oggi trasfuso nell'art. 15 del d.lgs. n. 159 del 2011 - dove si stabilisce che il tempo trascorso in custodia cautelare seguita da condanna o in espiazione di pena detentiva non è computabile nella durata dell'obbligo di soggiorno.
4. Poste queste premesse sul quadro normativo di riferimento in tema di misure di prevenzione personali, la Corte costituzionale è chiamata a verificare la legittimità del citato art. 12 della legge n. 1423 del 1956 (attualmente trasfuso, lo si ripete, nell'art. 15 del d.lgs. n. 159 del 2011) nella parte in cui non prevede l'obbligo per il giudice di valutare la persistenza della pericolosità sociale del proposto nel momento dell'esecuzione della misura di prevenzione nel caso in cui si determini uno iato temporale tra il momento di deliberazione e quello di esecuzione, iato dovuto alla necessità di sospendere l'esecuzione della misura per il tempo in cui il soggetto si trovi in stato di detenzione per espiazione di pena.
In estrema sintesi, secondo il giudice a quo, la disciplina in questione violerebbe l'art. 3 della Costituzione, in quanto riserva ai destinatari delle misure di prevenzione personali un trattamento irragionevolmente diverso e meno favorevole rispetto a quello stabilito per i destinatari delle misure di sicurezza. Come noto, infatti, l'art. 679 c.p.p. assicura, in relazione misure di sicurezza, la verifica ex officio della persistenza della pericolosità sociale nel momento di esecuzione della misura. Si tratterebbe, ad avviso del giudice rimettente, di una disparità di trattamento ingiustificata in quanto entrambe le misure hanno identica funzione, quella di impedire la commissione di reati da parte del destinatario e di contenerne la pericolosità sociale.
5. Come già anticipato, la Corte ritiene, nel merito, che la questione sia fondata.
Dopo aver richiamato la propria giurisprudenza in tema di legittimità costituzionale delle norme basate su presunzioni di persistenza nel tempo della pericolosità sociale (sentenze n. 1 del 1971, n. 139 del 1982, n. 249 del 1983, n. 1102 del 1988), la Corte rileva che, in relazione alle misure di sicurezza, il problema della verifica della persistenza della pericolosità sociale è stato definitivamente risolto dal legislatore con l'art. 679 del nuovo codice di procedura penale («quando una misura di sicurezza diversa dalla confisca è stata ... ordinata con sentenza, o deve essere ordinata successivamente, il magistrato di sorveglianza, su richiesta del pubblico ministero o di ufficio, accerta se l'interessato è persona socialmente pericolosa e adotta i provvedimenti conseguenti»).
Nella materia parallela delle misure di sicurezza, pertanto, la valutazione della pericolosità sociale deve essere effettuata due volte: in un primo momento dal giudice della cognizione, che deve verificarne la sussistenza al momento della pronuncia della sentenza; in un secondo momento dal magistrato di sorveglianza, che deve verificarne l'attualità nel momento in cui la misura, già disposta, deve avere concretamente inizio.
Il regime in vigore per le misure di prevenzione personali, osserva la Corte, è diverso e meno favorevole. L'accertamento della pericolosità sociale ha luogo una sola volta. L'accertamento svolto nel corso del procedimento di applicazione della misura è considerato sufficiente anche nel caso in cui si determini uno sfasamento temporale tra il momento di deliberazione e quello di esecuzione della misura, per essere l'interessato detenuto in espiazione di pena. Tale accertamento è considerato sufficiente, si osserva, sebbene nelle more la persona interessata sia sottoposta al trattamento penitenziario, trattamento specificamente finalizzato al reinserimento sociale.
La comune finalità delle misure di sicurezza e delle misure di prevenzione (volte entrambe a prevenire la commissione di reati da parte di soggetti socialmente pericolosi e a favorirne il recupero all'ordinato vivere civile, al punto da poter essere considerate come «due species di un unico genus») «non implica, di per sé sola, un'indiscriminata esigenza costituzionale di omologazione delle rispettive discipline»; tuttavia, rileva la Corte, tra i due modelli posti a raffronto (quello delle misure di sicurezza, che esige la reiterazione della verifica della pericolosità sociale anche al momento dell'esecuzione, e quello delle misure di prevenzione, che considera sufficiente la verifica operata in fase applicativa) «l'unico rispondente ai canoni dell'eguaglianza e della ragionevolezza è il primo».
Ne è una dimostrazione evidente, osserva la Corte, proprio il caso oggetto del giudizio a quo, nel quale il Tribunale è chiamato a disporre una misura che sarà eseguita solo dopo l'espiazione di una pena detentiva per un periodo di circa quindici anni. Già in linea generale, «il decorso di un lungo lasso di tempo incrementa la possibilità che intervengano modifiche nell'atteggiamento del soggetto nei confronti dei valori della convivenza civile»; ma a maggior ragione ciò vale quando si discuta di persona sottoposta ad un trattamento specificamente volto alla risocializzazione: «se è vero, in effetti, che non può darsi per scontato a priori l'esito positivo di detto trattamento, per quanto lungo esso sia, meno ancora può giustificarsi, sul fronte opposto, una presunzione - sia pure solo iuris tantum - di persistenza della pericolosità malgrado il trattamento, che equivale alla negazione della sua stessa funzione».
Non si tratta, in effetti, di presunzione assoluta di pericolosità in quanto è sempre accordata all'interessato la facoltà, prevista dall'art. 7 della legge n. 1423 del 1956, di chiedere la revoca della misura di prevenzione, nel caso in cui venga a mancare la pericolosità sociale. Tale possibilità, avverte comunque la Corte, presupponendo il trasferimento sull'interessato dell'onere di attivare un procedimento inteso a verificare, in negativo, l'attuale inesistenza del presupposto applicativo della misura, non può certo valere ad evitare il denunciato vulnus dell'art. 3 Cost.