ISSN 2039-1676


27 ottobre 2015 |

Determinazione della pena ai fini cautelari in caso di concorso di circostanze aggravanti ad effetto speciale: obbligatorietà  dell'aumento di pena ex art. 63 co. 4 c.p. per le circostanze aggravanti speciali soccombenti

Cass., Sez. Un., 27 novembre 2014 (dep. 22 settembre 2015), n. 38518, Pres. Santacroce, Rel. Paoloni, ric. Ventrici

 

1. In data 22 settembre 2015 sono state depositate le motivazioni della sentenza delle Sezioni Unite[1] che, interpellate dalla Seconda Sezione della Corte di Cassazione con ordinanza n. 32419/2014, hanno risolto una questione di diritto di particolare rilevanza, vale a dire: "Se ai fini della determinazione della pena agli effetti dell'applicazione delle misure cautelari e, in particolare, della individuazione dei relativi termini di durata massima, nel caso di concorso di più circostanze ad effetto speciale, si debba tenere conto, oltre che della pena stabilita per la circostanza più grave, anche dell'ulteriore aumento complessivo di un terzo ai sensi dell'art. 63, quarto comma c.p.". Trattasi di una questione di particolare importanza in ragione delle conseguenze che ne potrebbero derivare, sul piano della libertà personale, a seconda della soluzione accreditata dal Collegio.

Sebbene la vicenda che ha dato origine alla quaestio iuris sia già stata anticipata nel Commento alla predetta ordinanza cui si rimanda, è opportuno richiamare i passaggi più salienti al fine di comprendere al meglio la questione.

Con ordinanza del 10 gennaio 2011 il GIP di Catanzaro applicava a V.F. la misura cautelare della custodia in carcere per due delitti, commessi nel settembre/ottobre 2009, di concorso in estorsione aggravata ai sensi dell'art. 629 co. 2 c.p. (in relazione all'art. 628 co. 3 n. 1 "più persone riunite") e dell'art. 7 d.l. 152 del 1991 (azione criminosa commessa con metodi e per fini di natura mafiosa). A distanza di un anno il GIP emetteva ai sensi dell'art. 456 c.p.p. decreto dispositivo di giudizio immediato nei confronti dell'imputato in vinculis avanti al Tribunale di Vibo Valentia.

In data 30 settembre 2013 i difensori del V.F. chiedevano al Tribunale, quale giudice della cognizione di merito, la declaratoria di inefficacia della misura cautelare per decorrenza dei termini massimi previsti per la fase del giudizio di primo grado. A parere della difesa, la quale ha fatto leva sull'orientamento delle Sezioni Unite sent. n. 20798 del 24/02/2011, il termine cautelare massimo andrebbe individuato nella misura complessiva di anni uno e mesi sei (sulla base del combinato disposto delle lettere b) n. 2 e lett. 3 bis) dell'art. 303 c.p.p.) in quanto i contestati delitti di estorsione aggravata dovevano considerarsi puniti con pena edittale non superiore a venti anni.  Posto infatti che le aggravanti contestate sono ad effetto speciale, a dire della difesa, i criteri di calcolo della pena per fini cautelari dettati dall'art. 278 c.p.p. dovrebbero essere integrati dal disposto dell'art. 63 co. 4 c.p. che, per il giudizio di merito, stabilisce che in caso di pluralità di aggravanti ad effetto speciale deve trovare applicazione la pena stabilita per la circostanza più grave, fatta salva la possibilità per il giudice di aumentarla in riferimento alle ulteriori aggravanti ad effetto speciale in misura non superiore a un terzo (a norma dell'art. 64 co. 1 c.p.). Nel caso specifico essendo più grave la circostanza aggravante di cui all'art. 629 co. 2 c.p. (pena edittale massima di venti anni) rispetto alla concorrente aggravante della "mafiosità" della condotta ex art. 7 d.l. 152 del 1991 (aumento pena base da un terzo alla metà), quest'ultima si trasformerebbe in aggravante comune diventando inapprezzabile agli effetti dell'art. 278 c.p.p.

In forza di tale ragionamento i reati contestati all'imputato risulterebbero puniti con una pena non superiore a venti anni pertanto il termine custodiale per la fase del giudizio di primo grado sarebbe pari ad anni uno, aumentato di sei mesi per la natura dei reati. Ciò premesso, tale termine era nel caso in questione largamente decorso dal decreto che ha disposto il giudizio immediato nei confronti del V.F..

Con ordinanza del 9 ottobre 2013 il Tribunale di Vibo Valentia rigettava l'istanza della difesa: in sostanza il termine custodiale dovrebbe determinarsi nella misura di anni due ai sensi del combinato disposto dell'art. 303 co. 2 n. 3 e 3 bis della lett. b) c.p.p., posta la non caducazione ai fini cautelari della aggravante speciale meno grave (art. 7 d.l. n. 152 del 1991). Tale aggravante dovrebbe computarsi in misura non eccedente un terzo della pena già stabilita in base alla aggravante speciale più grave determinando effetti sanzionatori superiori a venti anni di reclusione.

Avverso tale rigetto la difesa proponeva appello ex art. 310 c.p.p. ma ancora una volta l'istanza della difesa veniva rifiutata: il Tribunale di Catanzaro infatti con ordinanza del 20 febbraio 2014 respingeva il gravame cautelare valutando incongruo il richiamo della difesa alla decisione delle Sezioni Unite del 2011 in quanto le statuizioni in essa contenute sarebbero limitate alla definizione del trattamento sanzionatorio punitivo in concreto applicato al giudice di merito e non alla determinazione della pena ai fini del computo dei termini di durata massima della custodia cautelare.

A questo punto la difesa impugnava la predetta ordinanza per cassazione deducendo vizi di erronea applicazione della legge penale, processuale e sostanziale (artt. 278, 303 c.p.p. e art. 63 c.p.) e di mancanza e manifesta illogicità della motivazione del provvedimento nella parte in cui afferma l'inapplicabilità della disciplina dell'art. 63 co. 4 c.p. per il calcolo della pena rilevante ai fini cautelari ex art. 278 c.p.p.

Il ricorso veniva assegnato ratione materiae alla Seconda Sezione la quale, con ordinanza del 27 giugno 2014, lo ha rimesso ai sensi dell'art. 618 c.p.p. alle Sezioni Unite.

 

2. Prima di entrare nel merito della questione il Collegio ha messo in evidenza come il contrasto interpretativo in realtà sia solo "virtuale" in quanto in tema di computo della pena ai fini cautelari e di individuazione dei termini massimi di custodia cautelare inframurale, in forza del combinato disposto degli artt. 278 e 303 c.p.p., la giurisprudenza di legittimità conferma l'orientamento delle Sezioni Unite nella sentenza del 1998 (Cass. Sez. Un. Sent. 8 aprile 1998 n. 16, Vitrano).

Secondo tale pronuncia "per definire la durata massima dei termini di custodia cautelare per la fase delle indagini e in particolare per quella del giudizio di primo grado deve aversi riguardo alla pena edittale risultante dal cumulo delle sanzioni derivanti anche dalla compresenza di più circostanze aggravanti ad effetto speciale e non alla pena che in concreto potrà essere irrogata all'esito del giudizio di primo grado con sentenza che chiude tale fase processuale."

Tale cumulo delle sanzioni è temperato unicamente dalla regola di calcolo, ispirata al favor rei, dettata dagli artt. 63 co. 4 e 64 c.p. per il caso in cui coesistano più aggravanti ad effetto speciale: pena determinata in base all'aggravante più afflittiva aumentata per le altre in misura non superiore ad un terzo secondo il principio di computo delle aggravanti comuni.

Ciò premesso, il Collegio chiarisce che la questio iuris proposta dalla Sezione rimettente si pone unicamente per la fase delle indagini preliminari e per quella del giudizio di primo grado (incluso il subprocedimento relativo al giudizio che si svolga nelle forme del rito abbreviato) non potendo sorgere alcun problema per le fasi successive all'intervenuta decisione di condanna di primo grado, per le quali deve ai sensi dell'art. 303 co. 1 lett. c) c.p.p. aversi riguardo all'entità della pena in concreto inflitta all'imputato in primo e in secondo grado e, quindi, al reato "ritenuto in sentenza" come da questa giuridicamente qualificato.

La Corte poi precisa che l'esigenza di stabilire la durata massima della custodia cautelare discende dalla Carta costituzionale ed in particolare dall'art. 13 Cost., che, elevando a principio supremo la libertà personale, oltre a circoscrivere i casi di privazione della libertà, prevede anche una specifica riserva di legge in tema di durata massima della custodia cautelare (art. 13 co.5 Cost.: "la legge stabilisce i limiti massimi della carcerazione preventiva").

È evidente come la problematica dei termini di durata massima della custodia cautelare sia inscindibilmente connessa alla predefinizione della durata della carcerazione preventiva[2].

Ora, sul tema della determinazione dell'entità della pena ai fini dell'applicazione delle misure cautelari (coercitive ed interdittive) vengono in rilievo tre disposizioni, due di carattere processuale (gli artt. 278 e 303 c.p.p.) e una di carattere sostanziale (l'art. 63 c.p.)[3].

 

3. Nell'attuale formulazione l'art. 278 c.p.p., norma cardine del sistema processuale in materia di determinazione della pena ai fini dell'applicazione delle misure cautelari, statuisce che "Agli effetti dell'applicazione delle misure, si ha riguardo alla pena stabilita dalla legge per ciascun reato consumato o tentato. Non si tiene conto della continuazione, della recidiva e delle circostanze del reato, fatta eccezione della circostanza aggravante prevista al numero 5) dell'art. 61 del codice penale e della circostanza attenuante prevista dall'art. 62 n. 4 del codice penale nonché delle circostanze per le quali la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato e di quelle a effetto speciale."

Dalla lettera della norma si evince che essa individua, quale regola fondante per l'adozione della misura cautelare, il coefficiente di gravità attestato dal fatto-reato principale e non dai suoi eventuali connotati accessori (circostanziali), fatta eccezione per quelle circostanze che "modifichino in modo significativo l'indice di disvalore complessivo della condotta criminosa" e quindi per le circostanze ad effetto speciale o indipendenti.

Come detto, accanto all'art. 278 c.p.p. occorre prendere in considerazione gli artt. 303 c.p.p. e 63 c.p.

La prima disposizione disciplina l'estensione temporale delle misure coercitive prevedendo soglie predeterminate di durata massima della limitazione della libertà personale, per ogni fase processuale e per la durata complessiva della misura, distinte per tipologie di reati per i quali si procede o per entità della pena inflitta, oltrepassate le quali la misura cautelare perde effetto ex lege e impone l'immediata liberazione della persona sottoposta a misura cautelare (art. 306 c.p.p.).

Circoscrivendo l'attenzione all'art. 303 co. 1 lett. b) n. 2 e 3-bis) c.p.p. in quanto riferito alla durata massima della custodia cautelare nella fase del giudizio di primo grado come nel caso in esame, il termine per tale fase è determinato in ragione del delitto per cui si procede.

Il termine così individuato è esteso dall'art. 303 co. 1 lett. b) n. 3 bis) fino a sei mesi qualora si procede per uno dei delitti di cui all'art. 407 co. 2 lett. a) c.p.p.

Infine l'art. 63 c.p. impartisce la disciplina sul computo delle circostanze del reato nel corso del giudizio di merito una volta che sia affermata la responsabilità dell'imputato, distinguendo tra concorrenza di più circostanze comuni (secondo comma) e concorrenza di più circostanze ad effetto speciale (quarto e quinto comma).

Nel caso di coesistenza di più circostanze aggravanti comuni ovvero di più circostanze attenuanti comuni (fatto salvo il bilanciamento ai sensi dell'art. 69 c.p. quando concorrano circostanze aggravanti e attenuanti comuni) il legislatore ha predisposto il cumulo materiale, vale a dire incrementi o decrementi cumulativi della pena per ciascuna circostanza di cui il giudice di merito riconosca la sussistenza.

Nel caso di coesistenza, rispettivamente, di circostanze aggravanti o di circostanze attenuanti ad effetto speciale (fatto salvo anche in questa ipotesi l'eventuale bilanciamento ex art. 69 c.p. tra aggravanti e attenuanti concorrenti) la pena è aumentata in relazione alla circostanza speciale più grave ovvero diminuita in relazione alla "pena meno grave" risultante dalle attenuanti, con "facoltà" per il giudice di merito di apportare un aumento o una diminuzione ulteriori della pena per l'altra o le altre circostanze ad effetto speciale una sola volta, a prescindere dal numero delle altre circostanze, e in misura non eccedente un terzo della pena base individuata così come previsto dall'art. 64 co. 1 c.p[4].

Venendo alla soluzione della problematica, si tratta di individuare la disciplina del calcolo della pena ai fini cautelari in caso di concorrenza di due o più circostanze aggravanti omogenee: cumulo giuridico ai sensi dell'art. 63 co. 4 c.p. (con facoltà di aumento per le circostanze soccombenti), cumulo giuridico ai sensi dell'art. 81 c.p. (con obbligo di aumento per le circostanze soccombenti) oppure somma degli aumenti di pena delle singole aggravanti ai sensi dell'art. 278 c.p.p.?

 

4. Secondo un primo filone giurisprudenziale[5] per il calcolo della pena ai fini cautelari, in caso di concorso di circostanze aggravanti ad effetto speciale non possono trovare applicazione i criteri di cui all'art. 63 co. 4 c.p. dal momento che tale disposizione ha natura sostanziale e come tale attiene esclusivamente alla concreta entità del trattamento punitivo irrogabile all'esito del giudizio di merito.

Pertanto il computo della pena edittale funzionale alla durata della custodia cautelare nella fase ante iudicium andrebbe fatto calcolando tutte le eventuali circostanze ad effetto speciale in modo autonomo alla stregua del criterio del cumulo materiale dei vari segmenti di pena circostanziale.

Un secondo indirizzo della Cassazione[6] sostiene l'applicabilità dei criteri indicati dall'art. 63 co. 4 c.p. sul presupposto che, in ipotesi di concorso di più circostanze aggravanti ad effetto speciale, l'ulteriore circostanza di minore o pari gravità si trasformerebbe in un aggravante comune implicante un aumento di pena fino a un terzo, aumento peraltro facoltativo in quanto rimesso al potere discrezionale del giudice. Di conseguenza, tale aggravante sarebbe ininfluente per il calcolo cautelare.

In una posizione intermedia si colloca un terzo orientamento, condiviso peraltro dalla sentenza delle Sezioni Unite del 1998 sopracitata, che, partendo dalla applicabilità dell'art. 63 co. 4 c.p. ai fini del calcolo della pena in funzione cautelare, giunge ad affermare che il giudice deve individuare la pena applicando l'aumento derivante dalla più grave di tali aggravanti ed operando "obbligatoriamente" un ulteriore aumento di un terzo per le altre aggravanti, le quali non possono perdere "ontologicamente" la loro natura di circostanze ad effetto speciale[7].

 

5. A parere del Collegio tale contrasto ermeneutico è stato già risolto nel 1998[8] quando la Corte, intervenuta in un caso di rapina aggravata ai sensi degli artt. 628 co. 3 n. 1 c.p. e 7 d.l. 152 del 1991, aveva sposato l'interpretazione del terzo orientamento, analizzando criticamente gli altri due diversi indirizzi interpretativi.

In particolare con riferimento al primo orientamento che nega in radice l'applicabilità dell'art. 63 co. 4 c.p., il Collegio ha osservato che lo stesso confligge con i principi di legalità e tassatività dei casi di limitazione della libertà personale espressi dagli artt. 13 Cost. e 272 c.p.p. In assenza infatti di apposite regole del codice per il computo delle circostanze aggravanti ad effetto speciale concorrenti di cui è necessario tener conto proprio in forza dell'art. 278 c.p.p. tale orientamento non indica come debba operarsi la sommatoria di tali circostanze, stante l'autonomia sanzionatoria che impedisce di identificare una base di pena su cui apportare gli aumenti successivi per le ulteriori aggravanti speciali. In tal senso solo l'art. 63 co. 4 c.p. potrebbe soccorrere.

Con riguardo al secondo orientamento che ritiene pienamente applicabile l'art. 63 co. 4 c.p. determinando la "degradazione" delle circostanze aggravanti ad effetto speciale in circostanze comuni, le Sezioni Unite del '98 hanno messo in luce come "ogni circostanza conserva la sua natura" e che è irragionevole che una circostanza muti la propria natura "a seconda della sua collocazione nell'ordine di gravità delle altre che con essa concorrono."

Per il Collegio, dunque, la natura speciale della circostanza rileva su un duplice piano, edittale e discrezionale: nel primo ambito (quello di cui all'art. 278 c.p.p.) la pena deve essere "stabilita" in modo vincolato dalla legge a prescindere delle valutazioni discrezionali dell'autorità giudiziaria, nel secondo ambito si caratterizza per la discrezionalità nella applicazione della pena al caso concreto all'esito del giudizio.

Tale duplice piano, a dire del Collegio, è evidente nella lettera dell'art. 63 co. 4 c.p. che utilizza sia l'espressione "si applica" sia "pena stabilita".

Così nel 1998 le Sezioni Unite hanno enunciato il principio di diritto secondo cui: "Ai fini della determinazione dei termini di durata massima della custodia cautelare, nel caso concorrano più circostanze aggravanti ad effetto speciale, si deve tener conto, ai sensi dell'art. 63 co. 4 c.p. della pena stabilita per la circostanza più grave, aumentata di un terzo, e tale aumento costituisce cumulo giuridico delle ulteriori pene e limite legale dei relativi aumenti per le circostanze meno gravi del detto tipo che mantengono la loro natura."

La ragione di tale impostazione discende dalla consapevolezza che le aggravanti ad effetto speciale, essendo espressione di disvalore e offensività più elevati del fatto reato - dimostrata dalla previsione di incrementi di pena prevista per il reato-base superiori ad un terzo-, impongono in caso di loro pluralità l'applicazione del criterio temperato di computo di cui all'art. 63 co. 4 c.p.

Le altre aggravanti speciali meno gravi, considerate nel loro insieme come un'unica altra aggravante, determinano un aumento della pena non superiore ad un terzo.

Posto che tali aggravanti sono espressione di un più elevato coefficiente di gravità del reato non è ammissibile una loro degradazione ad aggravanti comuni.

 

6. A parere della difesa, tale approdo è stato superato dalla sentenza delle Sezioni Unite del 2011[9].

In tale occasione la Cassazione ha affermato che "la recidiva, che può determinare un aumento di pena superiore ad un terzo, è una circostanza aggravante ad effetto speciale e pertanto soggiace, ove ricorrano altre circostanze aggravanti ad effetto speciale, alla regola dell'applicazione della pena stabilita per la circostanza più grave, con possibilità per il giudice di un ulteriore aumento".

Pertanto ai fini della definizione del trattamento punitivo nell'ipotesi di concorso della recidiva qualificata con altre aggravanti ad effetto speciale si deve applicare il criterio di calcolo del cumulo giuridico dettato dall'art. 63 co. 4 c.p.

In tale prospettiva, il giudice determinerebbe la pena tenendo conto della circostanza speciale più grave applicando eventualmente un aumento di pena non superiore ad un terzo per le ulteriori aggravanti speciali globalmente apprezzate, risultando pertanto l'ulteriore o le ulteriori aggravanti speciali per così dire inglobate nell'omologa aggravante più grave; conseguentemente la circostanza aggravante soccombente, la quale consente al giudice discrezionalmente di applicare un ulteriore aumento di pena, si trasformerebbe da circostanza ad effetto speciale in circostanza facoltativa comune, non avendo il legislatore predeterminato l'entità della variazione della pena che il giudice può apportare.

Se è vero che la pronuncia del 2011 riguarda la determinazione della pena nel corso del giudizio di merito e non i profili afferenti all'incidente cautelare, è vero anche che richiama di tutta evidenza la tesi sostenuta dal primo orientamento giurisprudenziale di cui sopra.

 

7. Dopo aver tratteggiato i contributi giurisprudenziali più rilevanti il Collegio nella sentenza in commento afferma perentoriamente che "principi fissati dalla sentenza Vitrano delle Sezioni Unite del 1998 [...] vadano mantenuti fermi e ribaditi" non potendo le statuizioni enunciate nella più recente decisione delle Sezioni Unite del 2011 avere una valenza analogica o estensiva tale da farle assurgere a regola generale incidente anche sulla determinazione della pena agli effetti della applicazione di misure cautelari ex art. 278 c.p.p.

In primo luogo, il Collegio mette in luce che la sentenza Indelicato del 2011, avendo avuto come oggetto dell'analisi la natura della recidiva- la quale peraltro è espressamente esclusa dall'art. 278 c.p.p. dal novero degli elementi accessori del reato rilevanti per definire l'entità della pena funzionale all'applicazione di una misura cautelare-, ha circoscritto l'ambito dell'indagine al solo aspetto sostanziale della misura della pena applicabile nel giudizio.

In questo modo non si è preoccupato di valutare gli effetti processuali di tale presa di posizione e, in particolare, le conseguenze sul piano del quantum della pena legittimante l'emissione di una misura cautelare e le connesse implicazioni sui limiti dei termini massimi della custodia ex art. 303 c.p.p. negli stadi processuali antecedenti all'eventuale pronuncia di condanna di primo grado.

In secondo luogo, il Collegio evidenzia come anche dopo la sentenza del 2011 non è mai stato sollevato il problema della rilettura dell'indirizzo tracciato dalla pronuncia Vitrano del 1998 sul tema dell'individuazione della pena per fini cautelari in presenza di più aggravanti ad effetti speciali.

In particolare viene richiamata una pronuncia delle Sezioni Unite[10] in materia di calcolo dei termini di prescrizione ex art. 157 co.2 c.p. ove è stato riaffermato il principio secondo cui, in caso di concorso di aggravanti ad effetto speciale, deve aversi riguardo a tutte le aggravanti speciali nei limiti del cumulo giuridico ex art. 63 co. 4 c.p.

Sul punto il Collegio, a fronte della innegabile diversità tra gli istituti disciplinati rispettivamente agli artt. 278 c.p.p. e 157 co. 2 c.p., mette in luce le analogie e le affinità concettuali esistenti, sul piano sistematico, tra la nozione identificativa della pena edittale massima funzionale all'adozione delle misure cautelari e quella funzionale alla prescrizione.

In particolare, dal punto di vista lessicale sia la disposizione di cui all'art. 278 c.p.p. sia l'art. 157 c.p. richiamano la "pena stabilita dalla legge" in luogo della "pena applicabile" (e in concreto applicata dal giudice di merito) di cui all'art. 63 co. 4 c.p.; entrambe le norme sono poi riferibili a una fase "genetica" del procedimento penale "suscettibile di trasformarsi soltanto all'esito del giudizio di merito".

In aggiunta, il Collegio, precisa che se per un verso la sentenza del 2011 ha individuato gli effetti sanzionatori (discrezionali) del limite dell'incremento di sanzione consentito, per altro verso non ha legittimato una "trasformazione" genetica e strutturale della aggravante speciale soccombente.

Se così non fosse si giungerebbe alla conclusione paradossale di una circostanza aggravante ad effetto speciale dotata di una duplice natura: di aggravante ad effetto speciale, se contestata da sola; di "degradata" aggravante comune, se contestata unitamente ad altra aggravante ad effetto speciale più grave.  

Alla luce di tali considerazioni, riconfermando le statuizioni della sentenza Vitrano del 1998, il Collegio ha affermato il seguente principio di diritto:

"Ai fini della determinazione della pena agli effetti dell'applicazione di una misura cautelare personale e segnatamente della individuazione dei corrispondenti termini di durata massima delle fasi processuali precedenti la sentenza di merito di primo grado, deve tenersi conto, nel caso di concorso di più circostanze aggravanti ad effetto speciale, oltre che della pena stabilita dalla legge per la circostanza più grave, anche dell'ulteriore aumento complessivo di un terzo, ai sensi dell'art. 63 co. 4 c.p. per le ulteriori omologhe aggravanti meno gravi".

A fronte delle censure della difesa in ordine all'incompatibilità di tale impostazione rispetto al principio del favor libertatis di cui all'art. 13 Cost. e ai principi europei di legalità e di "ragionevole durata della custodia cautelare" (artt. 5 par. 3,7 CEDU) il Collegio risponde :"Le censure non colgono nel segno poiché non scalfiscono la coerenza logica e la ragionevolezza della esposta divaricazione valutativa tra entità della pena per il reato contestato con una misura cautelare ed entità della pena applicabile all'esito del giudizio di merito [...]"; e ancora "nella ritenuta configurabilità di una prognosi di colpevolezza ex art. 273 co. 1 c.p.p. dell'indagato e del giudicabile non ancora raggiunto dalla sentenza di condanna di primo grado (prognosi che costituisce presupposto applicativo di ogni misura cautelare), la gravità e pericolosità del reato contestato (id est la formazione del titolo cautelare) non può non essere apprezzata, se non valorizzando tutte le componenti costitutive e circostanziali del reato e in modo particolare, ove prefigurate in più di una, delle circostanze aggravanti ad effetto speciale, connotate, proprio in quanto tali, da un coefficiente rappresentativo di maggiore e più allarmante offensività sociale."

 

8. Contrariamente alle aspettative la soluzione sposata dalle Sezioni Unite si discosta dall'esito della pronuncia del 2011, la quale pur avendo ad oggetto la qualificazione della natura della recidiva diversa da quella semplice inerisce comunque il calcolo della pena in caso di concorso di circostanze aggravanti ad effetto speciale.

Se per un verso le asserzioni del Collegio sono comprensibili sotto il profilo della necessità di valorizzare tutte le componenti costitutive e circostanziali del reato, soprattutto laddove esse esprimano una maggiore gravità e pericolosità del reato, per altro verso non sembra condivisibile l'opzione scelta dell'obbligatorietà del computo delle circostanze aggravanti ad effetto speciale in caso di concorso delle stesse in sede di determinazione della durata massima della custodia cautelare.

Da un lato il Collegio riconosce che l'art. 278 c.p.p., pur statuendo la necessità di tener conto delle circostanze aggravanti speciali (a differenza di quelle comuni), non individua il criterio per la quantificazione delle stesse, dall'altro sembra non accettare l'applicabilità dell'art. 63 co. 4 c.p. in quanto il disposto di tale norma è trasparente e non lascia alcun dubbio: in caso di concorso di più circostanze ad effetto speciale si applica la pena stabilita per la circostanza più grave; ma il giudice può aumentarla."

Il legislatore è chiaro nell'attribuire una facoltà, un potere discrezionale al giudice nella scelta di applicare o meno un aumento di pena in considerazione della pluralità di aggravanti, e sulla base del principio "ubi lex voluit dixit ubi noluit tacuit", se avesse voluto imporre l'aumento prescindendo dalla discrezionalità del giudice lo avrebbe detto esplicitamente ma non lo ha fatto.

Detto questo, non si può che prendere atto delle conclusioni cui sono pervenute le Sezioni Unite e applicare in concreto il principio di diritto enunciato dalle stesse.

 


[1] Per un commento si veda: Grillo P., Le Sezioni Unite sulla valutazione delle aggravanti ai fini cautelari: tutto come prima (Nota a: Cassazione penale, 27 novembre 2014, n. 38518, sez. un.), in D&G, fasc. 33, 2015, p. 104. In tema di durata massima della custodia cautelare cfr: Ceresa-Gastalda, Riflessioni "de ire condendo" sulla durata massima della custodia cautelare, Riv. It. Dir. Proc. Pen., fasc. 2, 2014, p. 824; Amodio E., Inviolabilità della libertà personale e coercizione cautelare minima, in Cass. pen., n. 1 , 2014, p. 12.

[2] Sul punto si veda: Grevi V., La libertà personale dell'imputato e Costituzione, Milano, 1976; Grevi, Misure cautelari, in Conso G., Grevi V., Compendio di procedura penale, Padova, 2003.

[3] In tema di rilevanza delle circostanze ad effetto speciale sul computo della pena si veda in dottrina: De Amicis, Sulla rilevanza delle aggravanti ad effetto speciale ai fini della determinazione della durata massima della custodia cautelare, in Cass. Pen., 1997, p. 144; Fidelbo, Sul computo del termine di durata massima della custodia cautelare, in Cass. Pen. 1991, p 198; Ramajoli, Le misure cautelari (personali e reali) nel codice di procedura penale, Padova, 2003, p. 56.

[4] L'art. 64 co. 1 c.p. stabilisce che "Quando ricorre una circostanza aggravante, e l'aumento di pena non è determinato dalla legge, è aumentata fino a un terzo la pena che dovrebbe essere inflitta al reato commesso."

[5] Cfr. Cass. Sez. I, sent. n. 3470 del 21 maggio 1996; Cass. Sez. VI, sent., n. 824 del 6 marzo 1995.

[6] Cfr. Cass. Sez. I, sent. n. 1301 del 27 febbraio 1996.

[7] Cfr. Cass. sez. I, sent. n. 291 del 22 gennaio 1992; Cass. Sez. II, n. 2036 del 9 maggio 1996; Cass. Sez. I, sent. n. 2125 del 2 aprile 1996; Cass. Sez. V, sent. n. 1240 del 13 marzo 1997.

[8] Trattasi della già citata sentenza Cass. Sez. Un., sent. 8 aprile 1998, n. 16, Vitrano.

[9] Sez. Un. Sent. n. 20798 del 24 febbraio 2011, Indelicato. Si badi che in tale occasione la Corte era stata investita della questione attinente la natura della recidiva diversa da quella semplice ed implicante l'aumento superiore ad un terzo della pena (di cui al secondo, terzo, quarto e quinto comma dell'art. 99 c.p.), quale circostanza aggravante ad effetto speciale ovvero quale circostanza inerente la persona del colpevole ex art. 70 co. 2 c.p., idonea a determinare in questo secondo caso un aumento di pena pur in presenza di una o più circostanza aggravanti ad effetto speciale. Le Sezioni Unite hanno ravvisato nelle citate quattro ipotesi di recidiva circostanze aggravanti ad effetto speciale.

[10] Cfr. Cass. Sez. Un., sent. 10 maggio 2012 n. 31065 ove viene sottolineato che le circostanze aggravanti ad effetto speciale "mantengono tale loro natura" anche se concorrendo con altra o altre analoghe circostanze speciali, non possono comportare un aumento di pena superiore ad un terzo a norma dell'art. 63 co. 4 c.p. Sulla stessa scia: Cass. Sez. IV, sent. 10 maggio 2007 n. 27748; Cass. Sez. I, sent. 31 marzo 2005 n. 19841; Cass. Sez. I, sent. 20 maggio 1996, n. 3433.