ISSN 2039-1676


10 ottobre 2016 |

La Corte costituzionale sull’esclusione del responsabile civile dal rito abbreviato (e sul rito abbreviato in generale)

Corte cost., 7 ottobre 2016, n. 216, Pres. Grossi, Rel. Grossi

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1. Merita un’immediata segnalazione, pur nell’attesa di riflessioni più mature, la sentenza con la quale la Consulta ha dichiarato infondata la questione di legittimità costituzionale proposta dal Tribunale di Palermo riguardo all’art. 87, comma 3, c.p.p., con lo scopo di rimuovere l’attuale regola di esclusione del responsabile civile dal rito abbreviato.

Non v’è dubbio, in effetti, che il legislatore abbia inteso precludere la partecipazione al rito speciale del responsabile civile, stabilendo che la sua esclusione «è disposta senza ritardo, anche di ufficio, quando il giudice accoglie la richiesta di giudizio abbreviato»). Fine dichiarato (e solo parzialmente attuato), quello «di non gravare tale tipo di giudizio, che dovrebbe essere caratterizzato dalla massima celerità, della presenza, non indispensabile, di soggetti la cui posizione può restare incisa solo sul piano privatistico dalla decisione penale» (così la Relazione al progetto preliminare del codice vigente).

La giurisprudenza ha sempre ritenuto che, dovendosi escludere dal giudizio abbreviato il responsabile già citato, deve a maggior ragione negarsi la possibilità della sua citazione a rito già disposto. D’altra parte, perfino la volontaria partecipazione dell’interessato al giudizio non vale a produrre effetti in suo danno  (Cass., sez. V, 7 giugno 2011, n. 37370, in C.E.D. Cass., n. 250489; Cass., sez. III, 12 ottobre 2011, n. 5860/12, ivi, n. 252119; Cass., sez. II, 10 ottobre 2014, n. 44571, ivi, n. 260863). In altre parole, neppure l’inerzia del responsabile civile nel caso di prosecuzione del giudizio nei suoi confronti vale ad eludere il divieto normativo.

Ora, il divieto stabilito dalla legge può pregiudicare, in singoli casi concreti, un riconoscibile interesse dello stesso responsabile civile alla presenza nel processo contro il responsabile diretto del fatto dannoso. Non richiede poi particolare illustrazione l’utilità di un siffatto coinvolgimento  nell’ottica della parte civile. Lo stesso l’imputato può nutrire un interesse qualificato a far valere immediatamente, nel giudizio penale che lo riguarda, il dovere di “protezione” del responsabile civile, come la stessa Corte costituzionale ha riconosciuto mediante la nota sentenza n. 112 del 1998, che aveva introdotto appunto la possibilità per l’accusato di citare l’assicuratore nel caso di responsabilità nascente da contratto obbligatorio per i danni derivanti dalla circolazione stradale.

Occorreva ed occorre, dunque, che l’esclusione sia giustificata da una ratio che trascenda gli interessi delle singole parti. E questa ratio dovrebbe consistere, appunto, nella speciale celerità del rito abbreviato.

 

2. Non è strano, in queste condizioni, che ci si chieda quanto sia attuale la ratio enunciata dal legislatore e posta a fondamento dell’obiettiva compressione di aspettative e diritti delle parti.

Rileva al proposito, in particolare, la mutazione morfologica che il rito speciale ha subito con la legge n. 479 del 1999, e con i successivi assestamenti. L’esclusione del requisito della decidibilità sullo stato degli atti, e la correlata previsione di molteplici meccanismi di integrazione probatoria, dalla quale è discesa  con analoga consequenzialità la possibilità di nuove contestazioni all’interno del rito,  hanno chiaramente segnato la prevalenza dell’ambizione deflativa (e delle connesse esigenze di garanzia) sul modello di rito “istantaneo”, o comunque assai spedito, da consumarsi tendenzialmente nell’ambito dell’udienza preliminare.

Le «finalità  di economia processuale proprie del procedimento» sono rimaste relegate nel comma 5 dell’art. 438 c.p.p., a regolare solo le porte del cd. abbreviato condizionato, mentre sono rimaste programmaticamente escluse dal modello essenziale del rito, cioè quello introdotto da una domanda non correlata ad istanze istruttorie. E non basta, perché quelle finalità sono risultate tanto indefinite da produrre estenuanti discussioni sulla loro fisionomia e sulla loro portata, almeno fino a quando proprio la Consulta, nel solco di una giurisprudenza  storicamente mirata all’incentivazione del rito, non si è incaricata di notare che anche la più estesa delle istruttorie aggiuntive comporterebbe «il minor dispendio di tempo e di energie processuali rispetto al procedimento ordinario » (sentenza n. 115 del 2001). Con il che – notoriamente – l’autonomia del (confuso) segnale legislativo sulle caratteristiche del rito, rispetto al requisito concorrente della necessità dell’integrazione proposta dall’imputato, si è sostanzialmente vanificata (così come la prassi dimostra e la dottrina maggioritaria osserva). La logica è che, data la necessità di un atto istruttorio, sarà sempre più conveniente la sua assunzione secondo il rito speciale che quella in forma dibattimentale (con la considerazione aggiuntiva che solo nell’ambito del primo restano utilizzabili gli atti eventualmente già raccolti).

Insomma, come si accennava, è naturale ci si chieda se, nell’ambito di giudizi abbreviati che sembrano ormai dibattimenti, il sacrificio degli interessi convergenti sulla presenza del responsabile civile sia ancora ragionevole.

 

3. Il dubbio è stato proposto ormai più volte. Una questione sul punto era già stata definita dalla Consulta con l’ord. 2 luglio 2008, n. 247, nel senso della inammissibilità per irrilevanza (un tipico caso di questione tardiva: il rimettente aveva già escluso il responsabile civile dopo aver accolto la richiesta di giudizio abbreviato, ed aveva dunque già applicato la norma investita dalla questione di legittimità).

Nel caso di specie, il Tribunale di Palermo ha prospettato una violazione dell’art. 3 della Costituzione, per la disparità di trattamento, asseritamente ingiustificata, tra la posizione assicurata alla parte civile ed all’imputato, sul piano delle pretese risarcitorie, nel giudizio ordinario e la posizione nella quale le stesse parti vengono a trovarsi in sede di giudizio abbreviato.

La norma censurata violerebbe, altresì, l’art. 24 Cost., compromettendo il diritto di agire in giudizio dei predetti soggetti processuali, nonché l’art. 111 Cost., per contrasto con il principio di ragionevole durata del processo.

Con la sentenza qui segnalata, la Corte è entrata nel merito della questione. Non è vero anzitutto – ha osservato  – che le riforme attuate all’inizio dello scorso decennio abbiano mutato la natura del rito abbreviato ed attenuato le speciali esigenze di speditezza che l’avevano segnato ai suoi esordi: «[…] il rito abbreviato continua a costituire un modello alternativo al dibattimento che, da un lato, si fonda sull’intero materiale raccolto nel corso delle indagini preliminari – in base al quale l’imputato accetta di essere giudicato – e, dall’altro, consente una limitata acquisizione di elementi meramente integrativi, sì da mantenere la configurazione di rito “a prova contratta” […]  Solo in ciò, del resto, risiede la ragione giustificativa dell’effetto premiale annesso al rito, consistente in una significativa riduzione della pena inflitta nel caso di condanna». Dunque l’esclusione del responsabile civile continuerebbe ad essere giustificata dalla ratio originaria.

È questo uno dei profili fondanti della decisione, del quale occorre prendere atto. Ma interessa forse di più notare – in un’ottica generale che richiederebbe analisi ben più ampie di quella possibile nella sede presente – come la Corte abbia di fatto  compiuto un’irruzione nel dibattito che, ad oltre quindici anni dalla riforma, ancora divide gli interpreti sui presupposti di ammissibilità della domanda condizionata all’integrazione probatoria, ed in particolare registra posizioni oscillanti sull’incidenza del requisito concernente la compatibilità con le caratteristiche del rito. Il riferimento all’attività istruttoria da compiersi come ad una raccolta di «elementi meramente integrativi» non potrà rimanere senza esiti in quella discussione (si tratti o non di un mutamento di passo rispetto alla giurisprudenza precedente, della quale del resto si sono date letture dottrinali divergenti). Ed altrettanto va detto per il riferimento alla prestazione processuale dell’imputato che – sola – può giustificare la rinuncia ad una pena proporzionata al fatto (ché di questo si tratta, come non sempre appare chiaro), senza possibile legittimazione per le spinte che spesso si manifestano in favore d’una pretesa indifferenza tra forma abbreviata e forma ordinaria del giudizio, dal punto di vista della qualità e quantità della prova a difesa.

 

4. La Corte ha affrontato speditamente gli ulteriori argomenti del rimettente.

Quanto alla parte civile, si è notato che i   suoi diritti non vengono pregiudicati, restando intatta la possibilità di promuovere in altra sede il giudizio risarcitorio. Quanto all’imputato, la Corte ha preferito abbandonare il terreno dell’equivalenza degli strumenti, in effetti dubbio, mettendo in luce come l’impossibilità di citare il responsabile civile derivi dalla libera scelta dello stesso imputato di accedere al rito abbreviato. Insomma, la “rinuncia” alla citazione diviene una porzione del “prezzo” pagato dall’accusato, sul terreno della semplificazione,  in cambio della riduzione di pena. Un altro passaggio di valenza generale, che richiede forse approfondimento, perché, se è vero che il sinallagma evocato giustifica un diverso atteggiarsi delle garanzie nel rito speciale, è anche vero che, nella sua proiezione costituzionale, il patto riguarda la forma della prova, e non altro. Sarà dunque necessario verificare, anche alla luce dei precedenti già evocati,  se l’aspettativa ad una resistenza comune contro la pretesa risarcitoria resti o non modulabile a fronte dei diritti all’uguaglianza e alla difesa.

Efficace e suggestivo, ancora, l’argomento opposto dalla Corte all’ipotesi di una citazione che costringa il responsabile civile a subire un giudizio nelle forme meno garantite del rito speciale, restando oltretutto privo (a differenza dell’imputato) di una contropartita sul piano della risposta sanzionatoria. Sembra ovvio che una disciplina siffatta contrasterebbe con il diritto costituzionale alla  difesa. Per la verità, l’argomento non varrebbe se la legge contemplasse un meccanismo di accettazione analogo a quello predisposto per la parte civile. Ma si deve riconoscere che non era questa la questione posta alla Corte, e che il problema andrebbe comunque affrontato con la duttilità e la discrezionalità tipiche dell’intervento legislativo.

Per finire, la ricorrenza dell’argomento ha consentito alla Corte di trattare rapidamente il tema della ragionevole durata, concentrando l’attenzione sul processo penale e rilevando facilmente che lo stesso non è complicato, ma viene anzi semplificato, dall’assenza del responsabile civile. Naturalmente resta il dilemma, tipico delle grandi scelte politiche, sull’economia complessiva che il sistema guadagna dalla celebrazione di due procedimenti, sia pur assicurando una minore durata di uno o di entrambi tra essi. Ma  di questo la Corte non aveva ragione di occuparsi (non più di quanto sarebbe altrimenti necessario per ogni norma che condiziona l’unità o la pluralità dei procedimenti), e certo non ha senso discutere in questa sede.