ISSN 2039-1676


12 gennaio 2017 |

Dalla Corte di Strasburgo un chiarimento sull'obbligo positivo di protezione del diritto alla vita

Nota a Corte E.D.U., sez. II, sent. 4 ottobre 2016, Cevrioğlu c. Turchia

Contributo pubblicato nel Fascicolo 1/2017

Per leggere il testo della sentenza in commento (in lingua inglese), clicca qui.

 

1. In questa sentenza, la Corte di Strasburgo affronta nuovamente il tema degli obblighi strumentali alla tutela del diritto alla vita, in particolare in relazione alla sicurezza delle aree a rischio come i cantieri edili. I giudici affermano che è incompatibile con l’art. 2 Cedu un sistema che, pur prevedendo un’adeguata normativa a tutela della sicurezza all’interno dei cantieri, non preveda poi un adeguato meccanismo di verifica e controllo sulla sua attuazione.

 

2. La pronuncia nasce dal ricorso di un cittadino turco, padre di un bambino trovato morto, insieme ad un amico, all’interno di una buca piena di acqua piovana situata in un cantiere privo di barriere perimetrali. Sul fatto, all’interno dell’ordinamento nazionale, si svolgono una serie di procedimenti diversi.

Innanzitutto, nel giudizio penale di primo grado innanzi ai giudici turchi, nel corso del quale vengono svolte ben tre differenti perizie tecniche con esiti in parte contrastanti, è riconosciuta la responsabilità tanto del proprietario dell’area in costruzione quanto del responsabile dell’urbanistica del comune in cui si trova il cantiere; il giudice ritiene, accogliendo la ricostruzione espressa nella terza perizia tecnica, che sia da escludere un concorso di colpa dei due bambini, e addossa l’intera responsabilità della loro morte ai due soggetti citati. La decisione di primo grado, però, viene annullata dalla Cassazione turca, la quale indica uno ius superveniens applicabile nel caso di specie, in base al quale il processo deve essere sospeso per un periodo di cinque anni, al termine del quale, se gli imputati non avranno commesso altri reati di uguale o maggiore gravità, dovrà essere chiuso definitivamente. Attenendosi alle indicazioni della Cassazione, il giudice di merito sospende il processo e applica questa forma di messa alla prova.

In sede civile, poi, il giudice riconosce la sola responsabilità del proprietario del cantiere e lo condanna a risarcire i danni patrimoniali e non patrimoniali subiti dal ricorrente, quantificati rispettivamente in 5 ed in 3 miliardi di lire turche. Nel corso del giudizio civile si svolge un’ulteriore perizia tecnica, che attribuisce l’85% della responsabilità per il fatto al proprietario dell’area in costruzione ed il restante 15% ai bambini stessi; la responsabilità del comune deve invece essere esclusa, dice la perizia, altrimenti “il comune dovrebbe essere ritenuto responsabile per tutti gli incidenti che accadono in ogni costruzione”. Il giudice di primo grado civile accoglie tale ricostruzione e assolve l’ente territoriale per assenza di colpa. Anche in questo caso però, interviene la Cassazione, che annulla la parte della sentenza relativa all’assenza di responsabilità del comune, affermando che l’accertamento al riguardo è estraneo alla giurisdizione del giudice civile e ricade, invece, all’interno di quella dei giudici amministrativi.

Il ricorrente adisce, dunque, il giudice amministrativo, il quale, basandosi unicamente sulla perizia tecnica condotta in sede civile e senza fornire ulteriori motivazioni circa i criteri di attribuzione della responsabilità al comune, dichiara che quest’ultimo dev’essere assolto in quanto non può essergli ascritta alcuna colpa per la morte dei due bambini.

Risulta infine che, al momento del giudizio, il proprietario dell’area in costruzione non avesse ancora pagato il debito derivante dal risarcimento dei danni accordato, in sede civile, a favore del ricorrente; tuttavia questi dichiara di non aver intrapreso alcuna azione esecutiva nei suoi confronti.

 

3. Sulla base di questi fatti, il ricorrente lamenta una duplice violazione dell’art. 2 Cedu: da un lato, infatti, lo Stato ha mancato di vigilare adeguatamente sulla sicurezza del cantiere all’interno del quale sono morti il figlio del ricorrente stesso e l’altro bambino; dall’altro, lo Stato ha violato anche l’obbligo di porre rimedio alla violazione già verificatasi, in quanto alle stesse autorità pubbliche non è stata attribuita alcuna responsabilità. Il Governo obietta che la legislazione interna attribuisce al solo responsabile del cantiere il compito di garantirne la messa in sicurezza e, per quanto riguarda gli obblighi di ristoro della violazione, un accertamento sul fatto è stato compiuto ed è stato individuato un responsabile.

 

4. Facendo riferimento alla sua consolidata giurisprudenza precedente, la Corte europea ribadisce anzitutto che l’art. 2 della Convenzione impone agli Stati un obbligo positivo di protezione della vita dei consociati in numerose situazioni. Tra queste non rientrano solo le ipotesi relative a singoli individui esposti ad un rischio specifico, ma anche tutti i casi in cui debba essere protetta la società nel suo complesso per i rischi derivanti da singole persone o da determinate aree ed attività; un esempio tipico in tal senso è certamente costituito dai cantieri edili (§§ 49-50)[1].

Tali obblighi positivi comportano in primo luogo l’adozione, oltre che di una normativa che preveda specifiche misure calibrate sul tipo di rischio creato dal contesto concreto, anche di procedure adeguate a verificare l’effettivo rispetto degli obblighi in questione da parte dei loro destinatari (§ 51). In secondo luogo, qualora un evento lesivo del diritto alla vita si verifichi, gli obblighi positivi imposti dalla Convenzione comportano per lo Stato il dovere di predisporre adeguate investigazioni e un sistema giudiziario indipendente che accerti l’accaduto e individui (e sanzioni) gli eventuali responsabili (§ 53). Tale obbligo, tuttavia, non comporta necessariamente che lo Stato sia tenuto ad apprestare – e ad applicare concretamente – sanzioni di natura penale, salvo che nelle ipotesi di violazioni dolose.

 

5. A questo punto la Corte passa ad analizzare il caso di specie alla luce dei principi fin qui ricostruiti (§§ 56 ss.). Innanzitutto, riconosce che le circostanze concrete del fatto non sono oggetto di disputa tra le parti, e che l’applicabilità dell’art. 2 Cedu non può essere messa in discussione. Quindi, individuata la legislazione turca rilevante in materia di sicurezza sul lavoro, evidenzia come questa preveda, tra l’altro, l’obbligo per il costruttore di delimitare il perimetro dell’area edificanda prima di iniziare i lavori e di mantenere la delimitazione fino alla fine degli stessi. Infine, la sentenza si sofferma sugli obblighi facenti capo al comune, che è responsabile in generale di rilasciare i permessi di edificazione e di ritirarli per gli edifici abusivi.

A detta della Corte, tale insieme di discipline in astratto è sufficiente a soddisfare gli obblighi positivi posti in capo agli Stati dall’art. 2 Cedu; ciò che è venuto meno, nel caso in esame, è il controllo pubblico sull’attività del proprietario del cantiere, al fine di garantire il rispetto della normativa di sicurezza. La Corte evidenzia in proposito come il sito all’interno del quale è avvenuto l’incidente non risulti essere mai stato oggetto di ispezioni da parte di alcun funzionario del comune o di un altro ente pubblico; e sottolinea come manchi addirittura una norma, nell’ordinamento turco, che preveda e disciplini le procedure di controllo, dal momento che le uniche disposizioni al riguardo prevedono un generico obbligo per lo Stato di controllare le attività a rischio, senza specificare né quali siano le attività da controllare né chi sia responsabile del controllo (in particolare, § 69). L'incertezza della disciplina è resa ancor più evidente, secondo la Corte, dalla confusione in cui versano gli stessi esperti del settore, rappresentati dai quattro consulenti che hanno reso i loro pareri davanti ai giudici turchi, i quali, come detto sopra, hanno raggiunto esiti confliggenti tra di loro.

Tale insieme di considerazioni conduce i giudici a ritenere violato l’art. 2 Cedu, in particolare per la carenza di effettività della disciplina preventiva adottata dalla Turchia. Come i giudici si premurano di precisare, ciò non comporta l’automatica responsabilità civile dello Stato per il caso concreto, in quanto la prova del nesso causale tra omissione dei controlli pubblici ed evento illecito è oggetto di un accertamento meno rigoroso, da parte della Corte europea, di quello necessario per accertare la responsabilità statuale.

 

6. Il ricorrente lamentava inoltre di aver subito una violazione dei diritti garantiti dagli artt. 1, 5 § 3 e 8 della Convenzione, non avendo ricevuto alcun risarcimento per i danni pecuniari e non pecuniari subiti, nonostante la sentenza civile che condannava il proprietario del cantiere a pagare una consistente somma a favore del ricorrente stesso. Egli assumeva, a sostegno della propria tesi, l’inutilità di un’eventuale azione esecutiva, in quanto nel frattempo la controparte aveva reso insolvente la sua società.

La Corte, dopo aver riqualificato il motivo di ricorso ai sensi dell’art. 13 Cedu, afferma che l’obbligo di risarcire le violazioni impone agli Stati di prendere misure idonee a tale scopo, ma lascia agli stessi un vasto margine di apprezzamento nella declinazione concreta del contenuto di tale obbligo. Analizzando il caso di specie, i giudici ritengono che lo Stato turco abbia offerto al ricorrente una concreta possibilità di ottenere un risarcimento per i danni subiti – che anzi gli sono stati riconosciuti in sede civile – e che l’effettività di tale risarcimento sia garantita dai rimedi esecutivi messi a disposizione dall’ordinamento interno, oltre che dalla responsabilità solidale della società di costruzioni e del proprietario dell’area in costruzione, titolare della società stessa.

Per tale motivo, la Corte ritiene che il ricorrente non possa lamentare una violazione dell’art. 13 Cedu, e rigetta il ricorso su questo punto in quanto manifestamente infondato.

 

7. Una brevissima osservazione conclusiva: ad un primo sguardo, può apparire incoerente che la Corte ritenga violato l’art. 2 Cedu nonostante lo Stato abbia offerto al ricorrente un risarcimento sufficiente a garantire il diritto ad un rimedio effettivo ai sensi dell’art. 13 della Convenzione. Se la violazione è stata risarcita ai sensi dell’art. 13 – o avrebbe potuto esserlo se il ricorrente avesse adottato la diligenza necessaria in sede civile ed esecutiva –, lo status di vittima dovrebbe essere venuto meno anche con riferimento alla violazione sostanziale, e con esso dovrebbe venir meno anche la legittimazione a ricorrere a Strasburgo.

Tuttavia, in questo caso la Corte, pur ritenendo il risarcimento in sede civile sufficiente ad integrare un “rimedio effettivo” ai sensi dell’art. 13 Cedu, afferma che lo Stato deve innanzitutto rendersi responsabile di sorvegliare in via preventiva che il diritto alla vita venga rispettato da tutti i consociati, siano essi agenti dello Stato medesimo o privati cittadini. Questo significa che l’art. 2 Cedu impone un obbligo “strumentale” molto penetrante in capo agli organi pubblici, obbligo che non può essere in nessun modo scaricato sui privati mediante l’attribuzione di un semplice diritto al risarcimento in denaro a carico dell’individuo o della persona giuridica responsabile della violazione.

Riassumendo: dalla pronuncia in esame si può dedurre che lo Stato deve innanzitutto predisporre una normativa che tuteli adeguatamente la vita dei consociati, imponendo eventualmente obblighi in carico ai privati; deve quindi garantire, mediante un adeguato sistema di controlli e sanzioni, che gli obblighi medesimi siano effettivamente rispettati; e, nel caso in cui una violazione si verifichi ugualmente, deve assicurare che i fatti siano oggetto di un’indagine adeguata, eventualmente anche in sede penale, che consenta di accertare se vi è o meno un responsabile e di riconoscere, se del caso, un risarcimento alla vittima. Ciò detto, se la violazione è frutto dell’inosservanza di uno dei due obblighi sostanziali sopra menzionati facenti capo allo Stato, il mero riconoscimento di un risarcimento in denaro a carico del privato riconosciuto responsabile non sgrava lo Stato stesso della sua responsabilità ai fini della Convenzione, e specificamente dell’art. 2.

 

[1] La Corte cita al riguardo alcuni precedenti specifici:  C. eur. dir. uomo, dec. 26 agosto 2003, Pereira Henriques and Others v. Luxembourg; C. eur. dir. uomo, sent. 18 giugno 2012, Banel v. Lithuania, §§ 67-73; C. eur. dir. uomo, dec. 14 aprile 2014, Kostovi v. Bulgaria.