12 febbraio 2016 |
La Corte d'Appello di Milano sulla responsabilità dell'ente in materia di sicurezza sul lavoro
Nota a Corte d'Appello di Milano, Sez. V, sent. 24 novembre 2015, Pres. Carfagna
1. La V Sezione della Corte d'Appello di Milano ha confermato la sentenza assolutoria pronunciata dal Tribunale di Milano nei confronti di tutti gli imputati e di tutti gli enti coinvolti in un processo che è già stato oggetto di commento in questa Rivista[1].
La contestazione dei reati di omicidio colposo (art. 589, comma 2, c.p.) e degli illeciti amministrativi di cui agli artt. 5, 6, 7 e 25 septies, D.Lgs. 231/01 riguardava i profili di responsabilità conseguenti ad una presunta violazione della normativa in tema di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro concernenti l'evento mortale occorso ad un dipendente di una società operante su un cantiere ferroviario, investito da un treno in transito.
In particolare, secondo l'impostazione accusatoria, la responsabilità delle persone fisiche imputate sarebbe stata correlata alla colpa (specifica o generica) di queste ultime, individuata: a) nella mancata predisposizione di un Piano di Sicurezza e Coordinamento (P.S.C.) idoneo; b) nell'omissione di un adeguato coordinamento tra il Piano operativo di Sicurezza (P.O.S.) della subappaltatrice e il P.S.C.; c) nell'aver consentito la prassi di allestire il cantiere in presenza del binario attivo; d) nel non aver valutato il rischio di investimento nella fase di approntamento di cantiere.
Agli enti chiamati in giudizio veniva invece addebitata la violazione degli artt. 5, 6, 7, 25 septies, D.Lgs. 231/2001, in relazione al delitto di omicidio colposo, il quale sarebbe stato commesso nell'interesse o a vantaggio degli enti medesimi (individuato nella scelta di una politica societaria tesa al risparmio dei costi da destinare alla predisposizione di adeguate misure di sicurezza e prevenzione) per l'inosservanza degli obblighi di adozione di modelli di organizzazione idonei a prevenire l'infortunio mortale verificatosi.
Il Tribunale di Milano assolveva tutti gli imputati persone fisiche, non ravvisando profili di colpa in capo agli stessi, in particolare circa la scelta operativa della modalità di approntamento del cantiere, avvenuta in conformità di una consuetudine regolamentata dal c.d. IPC "Istruzione Protezione Cantieri" e non di una mera prassi (come sostenuto dal Pubblico Ministero). L'assenza di colpa si riconnetteva altresì al giudizio di idoneità del coordinamento, nonché alla idoneità della strumentazione di comunicazione tra gli operatori presenti sul cantiere. Veniva poi affrontato il comportamento della vittima definito "inspiegabile e imprevedibile" poiché tenuto in violazione delle regole cautelari previste per il cantiere e, a sostegno del giudizio controfattuale, veniva citata la nota sentenza Franzese[2].
Per quel che riguarda gli enti veniva esclusa la responsabilità amministrativa ex D.Lgs. 231/01 in considerazione i) dell'adeguatezza sostanziale dei modelli organizzativi adottati dalle società coinvolte; ii) dell'assenza di un interesse o vantaggio che gli enti avessero potuto conseguire dalla morte del dipendente.
2. La decisione della Corte d'Appello in esame, nel confermare le argomentazioni assolutorie del giudice di prime cure, ha il pregio di apportare talune ulteriori considerazioni sia in merito alla scelta operativa della modalità di approntamento del cantiere (risultata essere in conformità con "una vera e propria fase operativa proceduralizzata, regolata da norme"), sia in relazione al comportamento adottato dal dipendente/vittima la cui imprevedibilità della condotta viene posta in relazione alla provata esperienza maturata dallo stesso, circostanza che rende ancor più grave l'accertata inosservanza da parte di quest'ultimo delle regole di cantiere.
Ma ciò che principalmente si vuole evidenziare in questa sede è l'ordine sistematico seguito dai giudici d'appello nell'affrontare il tema dell'accertamento della responsabilità amministrativa degli enti.
Il più recente orientamento della Suprema Corte di Cassazione[3] postula infatti che il sistema delineato dal D.Lgs. 231/01 debba essere ricondotto nei seguenti termini:
"l'ente è responsabile ove la pubblica accusa provi che il soggetto che ricopre al suo interno sia posizioni apicali, sia subordinate, ha commesso il reato presupposto nell'interesse (inteso come proiezione finalistica dell'azione) o a vantaggio (inteso come potenziale ed effettiva utilità anche di carattere non patrimoniale ed accertabile in modo oggettivo) dall'ente;
- se la suddetta prova non viene data o fallisce, l'ente, anche se non ha adottato alcun modello di organizzazione e di gestione idonei a prevenire reati, non può essere ritenuto responsabile di alcunché;
- se la suddetta prova, invece, viene fornita, l'unico modo per l'ente di sfuggire alla declaratoria di responsabilità per il reato presupposto, è quello di dimostrare di avere adottato un idoneo modello di organizzazione e di gestione idonei a prevenire reati".
Con la sentenza in commento la Corte di merito di Milano dimostra di conformarsi ai principi appena richiamati, dal momento che procede nell'ordine tracciato dalla Suprema Corte, ovverosia si sofferma innanzitutto sulla sussistenza o meno del reato presupposto addebitato ai soggetti che rivestono i ruoli delineati dall'art. 5 lett. a) e b) del Decreto e in via secondaria, provvede ad accertare se sia ravvisabile un interesse o vantaggio degli enti nella commissione del reato contestato, pur non essendone strettamente tenuta in considerazione della dichiarata insussistenza del fatto di reato.
Correttamente non si rinviene invece alcun accenno in sentenza circa l'adozione e l'idoneità dei modelli organizzativi da parte degli enti, ponendosi in tal modo la Corte meneghina in sostanziale difformità rispetto a quanto effettuato dal giudice di prime cure, che non solo aveva vagliato l'esistenza di un interesse o vantaggio degli enti nella commissione del reato presupposto (benché avesse previamente escluso la sussistenza del reato) ma era altresì entrato nel merito dell'adeguatezza dei modelli ex D.Lgs. 231/01.
La scelta dei giudici di secondo grado di omettere ogni forma di motivazione sul punto appare, a parere dello scrivente, del tutto consapevole e coerente proprio in ragione della dichiarata insussistenza del reato presupposto, oltre che in considerazione dell'assenza di prova dell'esistenza concreta di un interesse o vantaggio per gli enti nell'illecito; circostanze che rendono ultronea ogni valutazione circa l'adeguatezza dei modelli adottati a prevenire reati della specie di quello contestato rectius circa la c.d. "imputazione soggettiva" di cui agli artt. 6 e 7 D.Lgs. 231/01.
3. Quanto invece al criterio della c.d. "imputazione oggettiva", la sentenza in parola aderisce alle conclusioni tracciate dalla nota sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione c.d. ThyssenKrupp[4] e confermate da una più recente pronuncia sempre della Suprema Corte[5]. I giudici d'appello chiamati ad affrontare il tema della compatibilità logica tra la non volontà dell'evento, tipica degli illeciti colposi, e il finalismo sotteso alla nozione di interesse dell'ente, hanno precisato come i concetti di interesse o vantaggio nei reati colposi d'evento "devono essere riferiti alla condotta e non all'evento".
A tal proposito la Corte di Appello conclude affermando come il quadro seguito dal Pubblico Ministero, secondo il quale l'interesse o il vantaggio dell'ente sarebbero da individuarsi nella presunta "scelta volontaria" degli enti "di risparmiare in mezzi e strumenti, risorse umane a scapito della salute e sicurezza dei lavoratori", si sia dimostrato "privo di prova", ponendosi, anche sotto questo aspetto, in continuità con l'approdo delle Sezioni Unite che in tema di onere della prova avevano affermato che "grava sull'accusa l'onere di dimostrare l'esistenza dell'illecito penale in capo alla persona fisica inserita nella compagine organizzativa della societas e che abbia agito nell'interesse di questa"[6].
[1] P. De Martino, Una sentenza assolutoria in tema di sicurezza sul lavoro e responsabilità degli enti ex D.Lgs. 231/01, in questa Rivista, 14 novembre 2014.
[2] Cass. pen., SS.UU., n. 30328, 11 settembre 2002, in Cass. pen. 2002, 3643.
[3] Cass. pen., Sez. II, n. 29512, 10 luglio 2015, in www.rivista231.it.
[4] Cass. pen., SS.UU., n. 38343, 18 settembre 2014, in www.rivista231.it.
[5] Cass. pen., Sez. IV, n. 2544, 21 gennaio 2016, in www.aodv231.it.
[6] Sul punto le Sezioni Unite nella c.d. sentenza ThyssenKrupp giungono ad affermare che "nessuna inversione dell'onere della prova è, pertanto, ravvisabile nella disciplina che regola la responsabilità da reato dell'ente, gravando comunque sull'accusa la dimostrazione della commissione del reato da parte della persona che rivesta una delle qualità di cui al d.lgs. n. 231, art. 5, e la carente regolamentazione interna dell'ente, che ha ampia facoltà di offrire prova liberatoria".