ISSN 2039-1676


27 aprile 2011 |

Cass., Sez. un., 31.3.2011 (dep. 22.04.2011), n. 16085, Pres. Lupo, Rel. Macchia, Ric. Khalil (proporzionalità  e durata della custodia in carcere)

Depositata la sentenza delle Sezioni Unite: è illegittima la revoca della misura cautelare della custodia in carcere disposta per il solo fatto del decorso di un periodo predeterminato di tempo (nella specie identificato nei 2/3 della pena inflitta con sentenza di condanna), indipendentemente dalla valutazione di persistenza delle esigenze cautelari

1. È stata risolta finalmente dalle Sezioni unite della Corte di cassazione la questione concernente l’eventuale revoca della misura della custodia cautelare che, secondo una suggestiva opzione interpretativa, si dovrebbe disporre, a prescindere dalla permanenza di esigenze cautelari, ove la durata della detenzione già sofferta abbia raggiunto il limite di due terzi della pena inflitta con sentenza di condanna, in base al principio di proporzionalità di cui all’art. 275, comma 2, c.p.p.
 
 
2. Per una migliore intelligenza del problema si deve premettere che da alcuni anni il tribunale della libertà di Bologna ripeteva il principio in virtù del quale, allorché la custodia cautelare sia durata per un tempo pari ai due terzi della pena inflitta, sarebbe raggiunta la soglia di quella proporzionalità che, a meno di non avallare, in caso contrario, una inammissibile anticipazione della pena alla fase cautelare, deve connotare la detenzione preventiva rispetto alla sanzione definitiva, e, conseguentemente, dovrebbe disporsi la revoca della custodia stessa; e ciò indipendentemente dall’eventuale sussistenza di esigenze cautelari il cui rilievo, pur nel concorso dei gravi indizi di colpevolezza – assurti oramai, con la condanna, al rango di prove di colpevolezza –, sarebbe destinato a cedere di fronte alla durata della detenzione, riguardata nel suo rapporto aritmetico con la condanna.
 
Secondo il tribunale della libertà felsineo l’esigenza di evitare che la coercizione preventiva trasmodi in espiazione anticipata della pena sarebbe rinvenibile in varie disposizioni del codice di rito, sia pure dettate ad altri fini (artt. 303, comma 4; 304, comma 6) e troverebbe, poi, esplicito riferimento testuale nell’art. 300, comma 4, e nello stesso art. 275, comma 2, nel quale è evidente il richiamo, oltre che alla pena prevedibilmente da irrogare, anche, per il caso di già intervenuta condanna, a quella in concreto inflitta.
Resterebbe così individuato un preciso aggancio legislativo, oltre che al momento genetico, anche agli sviluppi della cautela; d’altronde, l’attenzione normativa, e di riflesso giurisdizionale, al principio di proporzionalità, con riferimento ai profili dinamici della vita della misura cautelare, sarebbe consacrata nell’art. 299 c.p.p., là dove questo individua, tra le situazioni che giustificano l’intervento favorevole del giudice cautelare, anche quella in cui la misura applicata non appare più proporzionata all’entità del fatto o alla sanzione che si ritiene possa essere irrogata (comma 2); sicché non si potrebbe fondatamente ritenere che il principio in esame riguardi esclusivamente un criterio di scelta iniziale del presidio cautelare.
 
Sempre secondo il tribunale bolognese, la disciplina in questione trarrebbe fondamento dalla direttiva n. 59 della legge delega per l’emanazione del codice di procedura penale, che prescriveva al legislatore delegato la «previsione della sostituzione o della revoca della misura della custodia in carcere, qualora l’ulteriore protrarsi di questa risulti non proporzionato alla entità del fatto e alla sanzione che si ritiene possa essere irrogata»; e avrebbe trovato riconoscimento in sede di legittimità anche sotto lo specifico profilo del rapporto aritmetico fra presofferto cautelare e pena da espiare (Cass. pen., sez. VI, 29 marzo 1995, n. 1227, in C.E.D. Cass., n. 201200).
 
In ogni caso un parametro di riferimento orientativo potrebbe individuarsi nella norma, dettata in ambito diverso, di cui all’art. 304, comma 6, c.p.p., che pone, come sbarramento estremo della custodia, il limite dei due terzi del massimo edittale dal legislatore comminato per il reato per cui si procede: previsione dalla quale emergerebbe una tendenziale indicazione di volontà – intesa appunto ad evitare scompensi del necessario equilibrio quantitativo fra coercizione preventiva ed espiazione – nel senso della non superabilità, in ogni caso, in sede cautelare, di quella determinata aliquota del risultato sanzionatorio astrattamente raggiungibile.
 
In più l’applicazione del principio di proporzione nei termini sopra descritti non sarebbe idoneo a vanificare, secondo il tribunale, la portata dell’art. 300, comma 4, c.p.p., il cui disposto, lungi dal rimanere privo di campo di applicazione, opererebbe invece come necessaria norma di chiusura, funzionale a scongiurare – una volta constatata a posteriori l’intervenuta obiettiva frustrazione del principio di proporzionalità (per essersi la pena inflitta con sentenza, ancorché sottoposta a impugnazione, attestata a livelli non superiori alla durata della custodia) – l’espiazione, in sede cautelare, di una frazione (o di una maggior frazione) di pena aggiuntiva rispetto a quella inflitta (e quindi da scontare).
 
 
3. La questione aveva dato luogo a contrastanti soluzioni interpretative nella giurisprudenza di legittimità, orientata in misura largamente prevalente in senso opposto alla prospettiva fatta propria dal tribunale bolognese; prospettiva, per altro, che lo stesso orientamento ad essa favorevole aveva ritenuto priva di testuale e specifico aggancio normativo nel vigente codice di rito (nel primo senso, tra le altre, Cass. pen., sez. I, 3 febbraio 2009, n. 9233, inedita; sez. I, 14 gennaio 2009, n. 4436, inedita; sez II, 12 dicembre 2008, n. 531/09, inedita; sez. II, 12 dicembre 2008, n. 47608, inedita; sez. I, 26 novembre 2008, n. 48173, inedita; sez. I, 18 novembre 2008, n. 44364, in C.E.D. Cass., n. 242038, cit.; sez. VI, 9 ottobre 2008,  n. 38868, ivi, n. 241549; in senso contrario, Cass. pen., sez. V, 19 settembre 2007, n. 35791, inedita; sez. V, 11 luglio 2007, n. 36685, inedita; sez. V, 6 luglio 2007, n. 38927, inedita, nonché, in obiter – avendo ritenuto la carenza di legittimazione al ricorso del Procuratore generale e, ad abundantiam, aggiunto la non irragionevolezza del parametro assunto dal tribunale del riesame ai fini della revoca della misura cautelare – sez. II, 3 luglio 2008, n. 35179, in C.E.D. Cass., n. 240661).
 
Il 1° aprile 2009, la sesta sezione penale della Corte di cassazione aveva già rimesso la questione alle Sezioni unite penali, non senza sollecitare la loro attenzione su due altri problemi controversi, rilevanti nella decisione sul relativo ricorso, delle quali preliminare quella della legittimazione del Procuratore generale della Repubblica presso la Corte d’appello a impugnare l’ordinanza di revoca della misura cautelare personale deliberata nella specie, in difformità dalla pronuncia della Corte d’appello, dal tribunale nella sua veste di giudice d’appello sui provvedimenti de libertate (l’altra, abbastanza singolare, concerneva l’eventualità di un automatico ripristino della misura cautelare revocata, per effetto dell’annullamento con rinvio della Corte suprema).
 
Ma le Sezioni unite avevano dovuto rinunciare a dirimerla per la rilevata inammissibilità del ricorso, stante la carenza di legittimazione ad esso del Procuratore generale della Repubblica (Sez. un., 28 maggio 2009, n. 31011, in Cass. pen., 2009, p. 4603): principio assolutamente incontroverso nella giurisprudenza della Corte, enunciato anche, e più volte, a Sezioni unite (tra le altre Sez. un., 31 maggio 1991 n. 8, in Giur. it., 1992, II, c. 219; Sez. un., 19 gennaio 2000 n. 3, in Cass. pen., 2000, p. 1578).
 
 
4. L’occasione per affrontare il merito della questione si è presentata nel caso testé esaminato, che vedeva ricorrente il legittimato Procuratore della Repubblica presso il tribunale.
 
È stato facile per le Sezioni unite, anche muovendo dalla sopravvenuta giurisprudenza costituzionale (Corte cost., 21 luglio 2010, n. 265), ricordare che la disciplina della coercizione fisica prima della condanna in tanto è compatibile con il dettato costituzionale, in quanto rifugga da qualsiasi elemento che introduca al suo interno fattori idonei a comprometterne la flessibilità mediante automatismi o presunzioni. E tale elasticità, funzionale all’individualizzazione delle misure, non può che assumere connotazioni “bidirezionali”, nel senso di precludere tendenzialmente gli automatismi non soltanto in funzione repressiva, ma anche sul versante “liberatorio” (del resto anche la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo è costantemente orientata nel senso l’art. 5, § 3, della CEDU impone una valutazione di concretezza, collegata alle vicende di ogni singolo procedimento e di funzionalità effettiva all’interesse pubblico e che la ragionevole durata della custodia cautelare assume rilievo solo nell’ambito del processo di primo grado, in quanto la detenzione successiva alla condanna, anche di primo grado, non è qualificabile come custodia cautelare, quale che sia il nomen iuris dato dai diversi ordinamenti processuali nelle fasi processuali successive a quella pronuncia: così, tra le tante, Corte eur. dir. uomo, 12 dicembre 2006, Ocalan c. Turchia; 14 novembre 2006, Osuch c. Polonia; 4 maggio 2006, Michta c. Polonia; 17 febbraio 2005, Sardinas c. Italia; 6 aprile 2000, Labita c. Italia).
 
Un primo, immediato corollario della citata premessa delle Sezioni unite è quello per cui adeguatezza e proporzionalità devono assistere la misura adottata non soltanto nella fase genetica, ma per l’intero arco della sua “vita” nel processo: diversamente, si assisterebbe a una compressione della libertà personale qualitativamente o quantitativamente inadeguata alla funzione che essa deve soddisfare (e in tal senso viene smentito l’insegnamento di Cass. pen., sez. VI, 10 luglio 1998, n. 33859, in C.E.D. Cass., n. 240800, secondo cui il criterio della valutazione della proporzionalità della misura alla pena irrogata o irrogabile si riferisce esclusivamente al momento applicativo della misura, e non a ciascun momento della sua esecuzione). La proporzionalità, dunque, è un canone di commisurazione della ragionevole durata della misura restrittiva non soltanto al momento della scelta “se” adottarne una e “quale” concretamente scegliere, ma anche nel corso della relativa applicazione, in rapporto alla durata della privazione della libertà già subita, da orientare non soltanto sul quomodo, bensì sull’an della coercizione. Sicché sarebbe del tutto irrazionale un sistema che, in presenza di una misura divenuta sproporzionata, ne permettesse soltanto un’attenuazione, mediante la sostituzione con altra meno grave o l’applicazione con modalità meno gravose, ma non la rimozione radicale.
 
Dunque, il canone della proporzionalità non può semplicisticamente risolversi sulla base di una supposta, quanto arbitraria, verifica di tipo aritmetico tra la durata della misura e l’entità della pena che in via di prognosi potrà essere applicata all’esito del giudizio: una interpretazione del genere, oltre a non trovare alcun appiglio testuale nella legge, muterebbe completamente il significato logico-sistematico del limite finale dei due terzi della pena (come previsto dall’art. 304, comma 6, c.p.p.), trasformandolo in un correttivo verso il basso dei termini di fase e complessivi, svincolato da ogni evento “anomalo” di sfondamento degli stessi termini e tale da comportarne un drastico abbattimento (in tal senso esplicitamente Corte cost., 28 luglio 2000, n. 397). Inoltre esso, come parametro di apprezzamento, è solo principio tendenziale cui non si addicono automatismi aritmetici, perché, se così fosse, sarebbe chiamato ad operare soltanto in chiave di durata della misura e non anche in fase di prima applicazione di essa.
 
Invece, l’adeguamento della durata della custodia cautelare alla pena concretamente inflitta viene garantito dalla disciplina ordinaria dei termini di fase (art. 303, comma 1, lett. c e d, c.p.p., intesi ad ancorare la durata massima della custodia cautelare nel giudizio di secondo grado e nella fase successiva, fino alla sentenza definitiva, proprio all’entità della condanna inflitta in concreto all’imputato).
 
Da sottolineare che le Sezioni unite, nell’annullare il provvedimento impugnato per consentire al tribunale di Bologna di valutare la persistenza delle esigenze cautelari, hanno implicitamente dato soluzione all’ulteriore quesito espressamente posto nella precedente circostanza, più sopra ricordata, della prima rimessione della questione, escludendo l’automatico ripristino della custodia come effetto della sentenza di annullamento (affermato solo da dieci decisioni rese tutte nella medesima udienza del 9 ottobre 2008 dalla VI sezione penale, delle quali solo la n. 38868 reperibile nell’archivio C.E.D. Cass., al n. 241549).