ISSN 2039-1676


03 ottobre 2017 |

Le conclusioni dell'Avvocato Generale sul caso Taricco: aspettando la Corte di Giustizia…il dialogo (non) continua

Conclusioni dell'Avvocato Generale Yves Bot presentate il 18 luglio 2017 nella causa C‑42/17, proc. pen. a carico di M.A.S. e M.B.

Contributo pubblicato nel Fascicolo 10/2017

Per leggere il testo delle conclusioni dell'Avvocato generaler Yves Bot nella causa C-42/17, clicca qui.

Su tali conclusioni cfr. anche A. Ruggeri, Rapporti interordinamentali e conflitti tra identità costituzionali (traendo spunto dal caso Taricco), in questa Rivista, 2 ottobre 2017.

 

1. Dopo l’udienza di discussione tenutasi lo scorso 29 maggio[1], e nell’attesa della (nuova) sentenza della Corte di Giustizia a seguito del rinvio pregiudiziale della Corte costituzionale, il caso Taricco si arricchisce di un ulteriore tassello, prodromico alla decisione: le conclusioni dell’Avvocato generale Yves Bot, rassegnate il 18 luglio[2]. Si tratta di un documento che, seppure non vincolante per i giudici di Lussemburgo, assume un notevole rilievo, sotto un duplice punto di vista: contenutistico, per il divario quasi insanabile che palesa nell’interpretazione di principi e istituti richiamati nella vicenda rispetto alla lettura dei giudici italiani; politico, per l’atteggiamento di totale chiusura nei confronti delle istanze avanzate dalla Corte costituzionale.

Vale dunque la pena ripercorrerne sinteticamente taluni passaggi essenziali, non prima di avere richiamato, in estrema sintesi, i termini generali della querelle.

 

2. Sono ormai ben noti i dubbi di legittimità costituzionale avanzati, con distinte ordinanze, dalla Terza Sezione penale della Corte di Cassazione e della Corte d’appello di Milano: al cospetto dell’obbligo per il giudice nazionale – affermato dalla Corte di Giustizia dell’Unione europea nella prima sentenza Taricco dell’8 settembre 2015[3] - di disapplicare la disciplina interna in materia di atti interruttivi della prescrizione allorquando ritenga che essa, fissando un limite massimo al corso della prescrizione, impedisca allo Stato italiano di adempiere agli obblighi di effettiva tutela degli interessi finanziari dell’Unione, imposti dall’art. 325 del TFUE, nei casi di frodi tributarie di rilevante entità altrimenti non punite in un numero considerevole di casi, si è ritenuto vulnerato il principio di legalità in materia penale di cui all’art. 25, co. 2 Cost in una duplice prospettiva: da una parte, per l’aggravamento del regime della punibilità di natura retroattiva derivante dalla disapplicazione delle norme relative agli atti interruttivi della prescrizione; dall’altra, per la carenza di una normativa adeguatamente determinata, non essendo chiaro né quando le frodi debbano ritenersi gravi, né quando ricorra un numero considerevole di casi di impunità da imporre la disapplicazione, essendo la relativa determinazione rimessa all’apprezzamento discrezionale del giudice[4].

 

3. La Corte costituzionale, con l’ordinanza 26 gennaio 2017, n. 24, anziché azionare l’invocata arma dei ‘controlimiti, ha optato per una soluzione (almeno all’apparenza) dialogica; rinviando in via pregiudiziale la questione alla Corte di Giustizia, le ha in pratica chiesto di avallare una lettura ‘costituzionalmente conforme’ della sentenza Taricco che consentirebbe di superare i dubbi avanzati dai giudici italiani rimettenti[5].

Tale lettura si basa su taluni punti fermi, ribaditi con estrema chiarezza. In particolare:

a) la riaffermazione del “primato del diritto dell’Unione” quale dato acquisito nella giurisprudenza costituzionale, ai sensi dell’art. 11 Cost., condizionato all’osservanza dei “principi supremi dell’ordine costituzionale italiano e dei diritti inalienabili della persona”;

b) la consacrazione della legalità in materia penale, di cui all’art. 25, co. 2 Cost., quale “principio supremo dell’ordinamento”, posto a presidio “dei diritti inviolabili dell’individuo, per la parte in cui esige che le norme penali siano determinate e non abbiano in nessun caso portata retroattiva”, ma anche quale suggello del principio-cardine della riserva di legge e della separazione dei poteri, “di cui l’art. 25 co. 2 Cost. declina una versione particolarmente rigida nella materia penale”, in stretto collegamento con i limiti dei poteri del giudice, “al quale non possono spettare scelte basate su discrezionali valutazioni di politica criminale";

c) il riconoscimento della natura sostanziale dell’istituto della prescrizione e della conseguente soggezione al principio di legalità in materia penale, non solo con riferimento al divieto di retroattività ma anche alla sufficiente determinatezza della norma relativa al regime di punibilità, dovendo pertanto essere analiticamente descritta, al pari del reato e della pena, da una norma vigente al tempo di commissione del fatto.

Sulla base di tali puntualizzazioni, la Corte di Giustizia è stata dunque sollecitata a chiarire se l’art. 325 TFUE “debba essere interpretato nel senso di imporre al giudice penale di non applicare una normativa nazionale sulla prescrizione che osta in un numero considerevole di casi alla repressione di gravi frodi in danno degli interessi finanziari dell’Unione, ovvero che prevede termini di prescrizione più brevi per frodi che ledono gli interessi finanziari dell’Unione di quelli previsti per le frodi lesive degli interessi finanziari dello Stato”:

- anche quando tale omessa applicazione sia priva di una base legale sufficientemente determinata;

- anche quando nell’ordinamento dello Stato membro la prescrizione è parte del diritto penale sostanziale e soggetta al principio di legalità;

- anche quando tale omessa applicazione sia in contrasto con i principi supremi dell’ordine costituzionale dello Stato membro o con i diritti inalienabili della persona riconosciuti dalla Costituzione dello Stato membro.

 

4. In questo contesto, l’Avvocato generale, nelle sue conclusioni, non mostra particolari aperture alle argomentazioni prospettate nell’ordinanza di rinvio, chiudendo anzi la porta alle sollecitazioni che provengono dai giudici italiani.

Ricalcando (e approfondendo) l’impostazione generale della sentenza Taricco, invita la Corte di Giustizia a dare risposta negativa ai tre quesiti formulati dai giudici costituzionali italiani, limitandosi unicamente – senza peraltro particolare convinzione – a segnalare potenziali margini di indeterminatezza dei presupposti che giustificano l’obbligo di disapplicazione.

Per ricapitolare i passaggi essenziali dell’argomentazione, il percorso motivazionale può essere idealmente scomposto in 5 parti: un’ampia introduzione, l’analisi delle tre questioni sollevate e le conclusioni vere e proprie.

 

4.1. Nella parte introduttiva, ricostruiti i termini della questione e il quadro normativo di riferimento e segnalati i limiti e le ripercussioni in termini di effettività della disciplina italiana in materia di prescrizione (§§. 52-64), l’Avvocato generale mette subito in chiaro il suo punto di vista: “non si tratta di rimettere in discussione il principio stesso stabilito dalla Corte di giustizia nella sentenza Taricco”, quanto piuttosto, e semmai, “di precisare i criteri in base ai quali tale obbligo deve essere attuato (§. 71).

Con specifico riguardo alla prescrizione, ribadisce poi che “non è il principio in quanto tale, bensì il suo regime ad essere incompatibile, nella fattispecie, con il diritto dell’Unione, anche a causa delle particolarità introdotte dalla legislazione italiana, considerata alla luce del meccanismo delle due modalità costituite dalla sospensione e dall’interruzione della prescrizione” (§. 77). In particolare, ritiene che il regime dell’interruzione della prescrizione enucleabile dal combinato degli art. 160 e 161 c.p., fissando “un limite assoluto al termine di prescrizione applicabile” che diviene intangibile, assuma i connotati di un vero e proprio “termine di decadenza”; termine che, in ragione dell’alto rischio di impunità che ne può derivare, appare incompatibile “con la nozione stessa di prescrizione” e con “il principio di effettività sul quale si fonda, in particolare, l’art. 325 TFUE” (§. 83), potendo per giunta ingenerare, quale “effetto perverso”, una sorta di “diritto all’impunità” (§§. 92-93), contrastante con il principio del termine ragionevole del procedimento di cui all’art. 6, par. 1 CEDU, che invece “impone che la durata del procedimento sia proporzionata alla complessità oggettiva della causa, alla rilevanza della controversia nonché al comportamento delle parti e delle autorità competenti” (§. 90). Non manca la segnalazione di come il sistema contestato, assimilato a un termine di decadenza, sia stato in qualche modo riprodotto anche nella proposta di Direttiva PIF (nel frattempo approvata in via definitiva: Direttiva 2017/1371 del Parlamento europeo e del Consiglio del 5 luglio 2017 relativa alla lotta contro la frode che lede gli interessi finanziari dell’Unione mediante il diritto penale, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale dell’Unione europea del 28 luglio 2017).

Per ovviare a tali guasti, l’Avvocato generale si spinge a enucleare una “nozione autonoma” di interruzione della prescrizione, invitando la Corte di Giustizia a “definirla nel senso che ogni atto diretto al perseguimento del reato nonché ogni atto che ne costituisce la necessaria prosecuzione interrompe il termine di prescrizione; tale atto fa quindi decorrere un nuovo termine, identico al termine iniziale, mentre il termine di prescrizione già decorso viene cancellato” (§§. 101 e 109).

 

4.2. Partendo dalla prima questione sollevata dalla Corte costituzionale – il contrasto del dictum Taricco con il principio di legalità in materia penale per l’eccessiva vaghezza e genericità delle condizioni (gravità delle frodi; prescrizione in un numero considerevole di casi) che obbligano il giudice interno alla disapplicazione -, l’Avvocato generale non può non riconoscere l’assoluta indeterminatezza del requisito della sistematicità del rischio d’impunità, che rischia di “introdurre un elemento di soggettività nella valutazione richiesta” (§§. 113-115). Propone così di fondare l’obbligo di disapplicazione “esclusivamente sulla natura del reato”, la cui definizione è rimessa al legislatore dell’Unione (§. 116), se del caso avvalendosi di quanto elaborato nell’ambito dei negoziati finalizzati all’adozione della ricordata proposta di Direttiva PIF, nella quale sono considerati “reati gravi lesivi degli interessi finanziari dell’Unione” quei “reati aventi un collegamento con il territorio di due o più Stati membri e che comportano un danno di importo totale superiore alla soglia di 10 milioni di euro, soglia soggetta a una clausola di revisione” (§. 117).

 

4.3. La disamina della seconda questione – l’estensione dell’obbligo di disapplicazione anche ai procedimenti in corso e la frizione, sul punto, con l’art. 25, co. 2 Cost., sub specie divieto di applicazione retroattiva di una modifica peggiorativa del regime di prescrizione – è preceduta da un’analisi della portata del principio di legalità dei reati e delle pene nel diritto dell’Unione, imperniata, al pari della sentenza Taricco, sull’art. 49 della Carta e sul corrispondente art. 7 della CEDU, che non annoverano la disciplina della prescrizione nell’alveo del principio di legalità, circoscritto unicamente alla definizione dei reati e delle relative pene applicabili (§§. 123 – 125).

Richiamando a supporto la giurisprudenza della Corte EDU relativa proprio all’art. 7 (§§. 128 – 140), s’insiste sulla natura processuale della prescrizione (§. 131 ss.), arrivando all’esito che “nulla osti a che il giudice nazionale, nell’attuazione degli obblighi ad esso incombenti ai sensi del diritto dell’Unione, disapplichi le disposizioni di cui all’art. 160, ultimo comma, e 161, secondo comma, c.p. nell’ambito dei procedimenti in corso” (§. 141).

Viene quindi liquidata sbrigativamente la problematica compatibilità, messa in evidenziata dalla Corte costituzionale, dei principi stabiliti nella sentenza Taricco con il requisito della prevedibilità, pure riconducibile allo stesso art. 7 CEDU: all’osservazione che gli interessati non potevano assolutamente prevedere, alla luce del quadro normativo in vigore all’epoca dei fatti, che il diritto dell’Unione, e in particolare l’articolo 325 TFUE, avrebbe imposto al giudice di disapplicare gli artt. 160 e 161 c.p., si oppone che gli interessati non potevano di certo “ignorare che i fatti ad essi attualmente addebitati potevano far sorgere la loro responsabilità penale e sfociare, in caso di condanna definitiva, nell’applicazione della pena stabilita dalla legge”, dal momento che “tali atti si configuravano come reati nel momento in cui sono stati commessi, e le pene non saranno più severe di quelle applicabili all’epoca dei fatti” e dunque che, a causa dell’attuazione di tale obbligo da parte del giudice nazionale, gli interessati non subiranno un pregiudizio maggiore di quello cui erano esposti all’epoca della commissione del reato (§. 143).

Maggiore spazio è invece dedicato all’art. 53 della Carta (a tenore del quale “nessuna disposizione della presente Carta deve essere interpretata come limitativa o lesiva dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali riconosciuto, nel rispettivo ambito di applicazione, dalle costituzioni degli Stati membri”) e in particolare al “margine di discrezionalità di cui dispongono gli Stati membri per fissare il livello di tutela dei diritti fondamentali che essi intendono garantire nell’attuazione del diritto dell’Unione” (§. 147).

Come si ricorderà, proprio sull’art. 53 la Corte costituzionale basa la possibilità di interpretare l’art. 325 TFUE in maniera da consentire a uno Stato membro, la cui Costituzione preveda un livello di tutela del principio di legalità in materia penale superiore rispetto a quello garantito dall’art. 49 della Carta e dall’art. 7 CEDU, di attenersi al livello di tutela superiore; nel caso di specie, ciò consentirebbe al giudice italiano – in virtù del più elevato livello di tutela interna in materia di prescrizione, ricompresa nel perimetro del principio di legalità penale - di sottrarsi all’obbligo di disapplicazione nell’ambito dei procedimenti in corso.

Ebbene, pur riconoscendo che, nei casi come quello in esame, in cui cioè non sia stato definito un livello di protezione uniforme, gli Stati membri beneficiano di un margine di discrezionalità più ampio (§. 161) rispetto a quello concesso laddove – come nel caso Melloni - il livello di protezione sia stato fissato in modo da rispondere agli obiettivi dell’azione dell’Unione considerata (§. 160) – l’Avvocato generale rigetta l’interpretazione più ampia e garantista dell’art. 53 prospettata dal rimettente, in quanto essa comprometterebbe “il principio del termine ragionevole” (§. 165), “il primato del diritto dell’Unione (§. 166) e “l’effettività del diritto dell’Unione” (giacché “i reati di cui trattasi, che ledono gli interessi finanziari di quest’ultima, non potranno essere oggetto di una condanna definitiva tenuto conto del termine di prescrizione assoluto, e resteranno quindi impuniti”; §. 167).

 

4.4. Nell’esaminare la terza questione – nella quale la Corte costituzionale, qualificando il principio di legalità di cui all’art. 25, co. 2 Cost. quale “principio supremo dell’ordinamento costituzionale” invocava l’art. 4.2 TUE e la possibile lesione dell’identità nazionale italiana per sterilizzare l’obbligo di disapplicazione - l’Avvocato generale contesta in radice la riconducibilità della legalità penale nel novero dei “principi supremi” o “fondamentali” dell’ordinamento costituzionale italiano, attestandosi su una visione estremamente formalistica, in base alla quale “nella Costituzione italiana, i principi qualificati come «fondamentali» sono elencati agli articoli da 1 a 12 della stessa, e il principio di legalità dei reati e delle pene ne è quindi, a priori, escluso” (§. 181).

La conseguenza, coerente e immediata, è che l’obbligo stabilito nella sentenza Taricco non lederebbe “l’identità nazionale della Repubblica italiana” (§. 186). Il messaggio sotteso è invece di portata più ampia: non spetterebbe ai singoli Stati membri né alle rispettive Corti stabilire quali siano i principi fondamentali che connotano la propria identità costituzionale e conseguentemente invocare l’art. 4.2 TUE a tutela della stessa.

 

5. Nessuna sorpresa nella parte conclusiva, ove vengono riepilogati gli approdi sin qui illustrati. La Corte di Giustizia è dunque invitata:

i) a interpretare l’art. 325 TFUE nel senso già indicato nella sua precedente sentenza dell’8 settembre 2015, ribadendo l’obbligo di disapplicazione che se ne ricava;

ii) a considerare la nozione di interruzione della prescrizione quale “nozione autonoma del diritto dell’Unione”, definita nel senso che “ogni atto diretto al perseguimento del reato nonché ogni atto che ne costituisce la necessaria prosecuzione interrompe il termine di prescrizione” e “tale atto fa quindi decorrere un nuovo termine, identico al termine iniziale, mentre il termine di prescrizione già decorso viene cancellato”;

iii) a leggere l’art. 49 della Carta nel senso che esso non osta a che le autorità giudiziarie italiane disapplichino, anche nell’ambito dei procedimenti in corso, il regime degli atti interruttivi della prescrizione stabilito nel codice penale italiano;

iv) a escludere che l’art. 53 della Carta e l’art. 4.2 TUE consentano all’autorità giudiziaria di uno Stato membro di opporsi all’esecuzione dell’obbligo stabilito nella sentenza dell’8 settembre 2015, con la motivazione che tale obbligo non rispetti il livello di tutela più elevato dei diritti fondamentali garantito dalla Costituzione di tale Stato ovvero che l’applicazione immediata a un procedimento in corso di un termine di prescrizione più lungo di quello previsto dalla legge in vigore al momento della commissione del reato sia tale da compromettere l’identità nazionale di tale Stato.

 

* * *

 

6. Rinviando ad altre occasioni per più meditate riflessioni, si può accennare in questa sede a talune perplessità che la lettura del documento suscita.

Come si è detto in apertura, le conclusioni non assumono alcun valore vincolante per la Corte di Giustizia, chiamata proprio in questi giorni a pronunciarsi sul caso Taricco. Tuttavia, dal tenore delle argomentazioni proposte - ben distante da quello adottato dall’Avvocato generale Bobek nelle Conclusioni presentate il 13 luglio nella causa Scialdone[6] - si coglie un segnale poco incoraggiante nella prospettiva di un approccio dialogico tra le Corti da sempre auspicato e in qualche modo tentato, almeno sul piano formale, dalla nostra Corte costituzionale nell’ordinanza n. 24. L’Avvocato generale Bot sembra volere quasi provocatoriamente acuire la latente propensione al non dialogo[7], come dimostra il fatto che non solo insiste nella richiesta di integrale conferma della posizione espressa nella prima sentenza Taricco, ma si spinge addirittura oltre. In particolare:

- invitando in maniera poco convinta (solo nel corpo del testo: scompare ogni riferimento nella parte conclusiva) la Corte di Giustizia a precisare meglio i criteri disapplicativi, facendo peraltro ambiguamente riferimento a un parametro - la natura del reato - che spetterebbe al futuro legislatore europeo definire, ma che viene poi ricondotto a quanto già indicato nella proposta di direttiva PIF (“tutti i reati aventi un collegamento con il territorio di due o più Stati membri e che comportano un danno di importo totale superiore alla soglia di EUR 10 milioni”); con l’ulteriore rischio di cadere in una paradossale contraddizione, considerato che, nonostante l’obiettivo sia quello di ampliare il novero delle ipotesi in cui il regime della prescrizione andrebbe disapplicato, si rischierebbe di ingenerare l’effetto opposto, e cioè una “sostanziale vanificazione dell’obbligo di disapplicazione”[8], tenuto conto del fatto che, nella pratica, la soglia di 10 milioni di euro possa risultare estremamente difficile da raggiungere;

- sollecitando l’individuazione di una discutibile nozione autonoma d’interruzione della prescrizione, che si sostituisca a quella adottata in ciascuno Stato membro, aggravando per tale via il denunciato vulnus alla legalità penale interna[9];

- ribadendo – ad onta delle ampie e persuasive precisazioni rese sul puto dalla Corte costituzionale – la natura processuale (e dunque retroattiva) della prescrizione, basata su una lettura restrittiva dell’art. 49 della Carta e sul richiamo a una non del tutto conferente elaborazione giurisprudenziale maturata con riguardo all’art. 7 CEDU[10];

- richiamando più volte il principio del termine ragionevole di cui all’art. 47.2 della Carta in un’insolita – e poco digeribile - accezione di norma invocabile direttamente contra reum da parte del giudice penale o della stessa Unione[11];

- prospettando una lettura restrittiva della portata dell’art. 53 della Carta e dell’art. 4.2 TUE, che da un lato rende difficile (se non impossibile) enucleare un residuo spazio applicativo che non si ponga in contrasto con l’effettività e il principio del primato del diritto dell’Unione e dall’altro sottrae ai giudici costituzionali nazionali la prerogativa di stabilire quali principi siano da considerare fondamentali per il proprio ordinamento.

A questo punto, se davvero si vuole evitare un’escalation della crisi tra le Corti[12], i giudici europei, vincendo la tentazione della primazia a tutti i costi, dovranno sforzarsi di comprendere le ragioni costituzionali interne e provare a immaginare una soluzione di onorevole compromesso. Nell’immediato, la carta a sorpresa per uscire dall’impasse potrebbe essere quella di valorizzare (o quantomeno approfondire) le potenziali ricadute della recente riforma del regime della prescrizione realizzata con la legge 23 giugno 2017, n. 103 sulla tutela degli interessi finanziari comunitari; ciò, tuttavia, lascerebbe irrisolto il nodo di fondo, ben più complesso del sistema della prescrizione: la problematica convivenza tra differenti e apparentemente inconciliabili modelli di garanzia e di legalità che rende malfermi i rapporti interordinamentali in materia penale.

 


[1] Un’efficace ricostruzione dell’udienza in M. Aranci, Cronaca da Lussemburgo: l’udienza di discussione nella causa c.d. Taricco-bis, in Eurojus.it, 6 giugno 2017.

[2] Un primo commento in L. Daniele, Il seguito del caso Taricco: l’Avvocato generale Bot non apre al dialogo tra Corti, European papers. European forum, 7 settembre 2017; F. Capotorti, Le conclusioni dell’Avvocato generale Bot nella causa c.d. Taricco bis stentano a trovare un’auspicabile soluzione di compromesso: verso un conflitto tra le Corti?, in Eurojus.it, 8 agosto 2017; R. Lucev, Le conclusioni dell’Avvocato generale Bot nella causa sul rinvio pregiudiziale Taricco: verso uno scontro frontale, in Giurisprudenza Penale Web, 2017, 7-8; riferimenti alle Conclusioni dell’Avvocato generale Bot anche in A. Ruggeri, Rapporti interordinamentali e conflitti tra identità costituzionali (traendo spunto dal caso Taricco), in questa Rivista, 2 ottobre 2017, p. 9 ss. e in T. E. Epidendio, Prescrizione, legalità e diritto giurisprudenziale: la “crisi” del diritto penale tra le Corti, ivi, 28 settembre 2017, p. 26 ss.

[3] Sulla sentenza, oltre ai numerosi commenti pubblicati in questa Rivista, si vedano, in particolare, gli Atti del Convegno Dal giudice garante al giudice disapplicatore delle garanzie. I nuovi scenari della soggezione al diritto dell’Unione europea: a proposito della sentenza della Corte di Giustizia Taricco”, svoltosi a Firenze il 30 ottobre 2015 e ora confluiti nel volume, curato da C. Paonessa e L. Zilletti, dal medesimo titolo, Pisa, 2016; del Convegno "Aspettando la Corte costituzionale. Il caso Taricco e i rapporti tra diritto penale e diritto europeo”, svoltosi a Roma, il 4 ottobre 2016 (in Rivista AIC, n. 4/2016) e del Convegno “I controlimiti. Primato delle norme europee e difesa dei principi costituzionali”, tenutosi presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Ferrara il 7-8 aprile 2016 (ora raccolti nel volume, curato da A. Bernardi, I controlimiti. Primato delle norme europee e difesa dei principi costituzionali, Napoli, 2017).

[4] Ulteriori riferimenti, volendo, in C. Cupelli, Il caso Taricco e l’ordinanza 24 del 2017: prove di dialogo a senso unico, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2017, p. 266 ss. e, prima ancora, in Id., Il caso Taricco e il controlimite della riserva di legge in materia penale, in Giur. cost., 2016, p. 419 ss.

[5] Ampio il dibattito suscitato dall’ordinanza; si rinvia, per una panoramica, ai contributi raccolti nel volume collettaneo Il caso Taricco e il dialogo tra le Corti. L’ordinanza 24/2017 della Corte costituzionale, a cura di A. Bernardi e C. Cupelli, Napoli, 2017.

[6] Conclusioni dell'Avvocato generale Michal Bobek, presentate il 13 luglio 2017 nella causa C‑574/15, proc. pen. a carico di M.S., a seguito di domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dal GIP presso il Tribunale di Varese (ordinanza 30 ottobre 2015, n. 588, in questa Rivista, 15 aprile 2016, con nota di L. Zoli, La disciplina dei reati tributari al vaglio della UE), con riferimento alla compatibilità della modifica introdotta dal d. lgs. 24 settembre 2015, n. 158 all’art. 10-ter del d. lgs. n. 74 del 2000, che ha innalzato la soglia di punibilità per la fattispecie di omesso versamento IVA, con l’articolo 4, paragrafo 3, TUE, l’articolo 325 TFUE, la direttiva IVA e la Convenzione relativa alla tutela degli interessi finanziari delle Comunità europee; si chiede, in particolare, di valutare se il nuovo regime sanzionatorio per l’omesso versamento IVA rispetti l’obbligo di prevedere sanzioni per violazioni del diritto dell’Unione in forme analoghe a quelle previste per violazioni simili nel diritto interno e se sia conforme all’obbligo degli Stati membri di imporre sanzioni dissuasive ed effettive.

Ebbene, in questo caso l’Avvocato generale ha posto – a ragione - l’accento sull’incondizionato rilievo assunto dal divieto di retroattività, dal principio della lex mitior e dalla certezza del diritto; si legge infatti nelle Conclusioni che, da un lato, “il principio di legalità osta alla possibilità di mettere da parte le disposizioni penali più favorevoli durante procedimenti penali in corso, anche se queste ultime dovessero essere ritenute incompatibili con il diritto dell’Unione. In altri termini (…), il primato delle disposizioni di diritto dell’Unione, che impone agli Stati membri l’obbligo di rendere esecutive sanzioni effettive, dissuasive e simili, deve essere applicato in modo coerente con altre norme di pari rango all’interno dell’ordinamento giuridico dell’Unione: il principio della lex mitior, previsto dall’articolo 49, paragrafo 1, della Carta, unitamente alla tutela del legittimo affidamento e alla certezza del diritto, considerati nel contesto specifico del diritto penale” (§. 142); dall’altro, che “le conseguenze pratiche del primato nei singoli casi devono essere, tuttavia, controbilanciate e armonizzate con il principio generale di certezza del diritto e, in modo più specifico nel settore del diritto penale, con il principio di legalità. L’obbligo degli Stati membri di garantire l’efficace riscossione delle risorse dell’Unione non può dopotutto contrastare con i diritti della Carta, che prevede anche i principi fondamentali di legalità, lex mitior e certezza del diritto” (§. 144). Si giunge così a ritenere che “il principio di legalità, il quale deve essere correttamente inteso non solo in modo minimalista ma, in senso più ampio, come comprendente anche la regola della lex mitior assieme all’imperativo della maggiore certezza del diritto in materia penale, implica che, nel caso in esame, le disposizioni più favorevoli del decreto legislativo 158/2015 non possono essere disapplicate” (§. 145).

[7] Da più parti segnalata, anche leggendo tra le righe dell’ordinanza n. 24 del 2017 della nostra Corte costituzionale; in tal senso, da ultimo, A. Ruggeri, Rapporti interordinamentali e conflitti tra identità costituzionali (traendo spunto dal caso Taricco), cit., p. 9, nonché prima, volendo, C. Cupelli, La posta è in gioco. Il caso Taricco nel dialogo tra le Corti, in Il caso Taricco e il dialogo fra le Corti, cit., p. 81 ss.

[8] F. Capotorti, Le conclusioni dell’Avvocato generale Bot nella causa c.d. Taricco bis stentano a trovare un’auspicabile soluzione di compromesso: verso un conflitto tra le Corti?, cit., p. 4.

[9] In questo senso, L. Daniele, Il seguito del caso Taricco: l’Avvocato generale Bot non apre al dialogo tra Corti, cit., p. 7.

[10] Una disamina approfondita delle incongruenze e dei limiti della giurisprudenza richiamata dall’Avvocato generale rispetto alla possibilità che i termini di prescrizione siano prolungati dopo la Commissione del reato, in L. Daniele, Il seguito del caso Taricco: l’Avvocato generale Bot non apre al dialogo tra Corti, cit., p. 15 ss.; nello stesso senso, più sinteticamente, anche F. Capotorti, Le conclusioni dell’Avvocato generale Bot nella causa c.d. Taricco bis stentano a trovare un’auspicabile soluzione di compromesso: verso un conflitto tra le Corti?, cit., p. 4; R. Lucev, Le conclusioni dell’Avvocato generale Bot nella causa sul rinvio pregiudiziale Taricco: verso uno scontro frontale, cit., p. 4.

[11] L. Daniele, Il seguito del caso Taricco: l’Avvocato generale Bot non apre al dialogo tra Corti, cit., p. 13.

[12] Richiamata da T. E. Epidendio, Prescrizione, legalità e diritto giurisprudenziale: la “crisi” del diritto penale tra le Corti, cit., p. 26.