ISSN 2039-1676


04 aprile 2018

La detenzione domiciliare come modalità di esecuzione della pena nei confronti di soggetti imputabili affetti da patologia psichica: la questione alla Corte costituzionale (in attesa del legislatore?)

Cass., Sez. I, ord. 23 novembre 2017 (dep. 22 marzo 2018), n. 13382, Pres. Bonito, Est. Magi, ric. Montenero

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Pubblichiamo l'ordinanza con cui la Prima Sezione penale della Corte di Cassazione ha sollevato questione incidentale di costituzionalità dell'art. 47-ter co.1-ter ord. pen. nella parte in cui tale norma non prevede come possibile l'applicazione della detenzione domiciliare (in deroga agli ordinari limiti di pena e di tipologia di reato) nelle ipotesi di ricorrenza di patologia psichica sopravvenuta alla condanna.

Il tema del trattamento della patologia psichica in condizioni di restrizione di libertà personale è – da sempre – al centro di un acceso dibattito e se da un lato è stato avviato a soluzione sul fronte degli inimputabili (il faticoso percorso di dismissione degli OPG è ormai giunto al termine) con la legge n. 81 del 2014, dall'altro è tutt'altro che risolto sul correlato fronte delle modalità di esecuzione della pena nei confronti di soggetti affetti da patologia non incidente o solo parzialmente incidente sulla capacità di intendere e di volere.

Come è noto, la soluzione individuata – in chiave di tensione tra il quadro normativo attuale e più principi costituzionali e convenzionali – come possibile dalla Corte di Cassazione, rappresentata dall'allargamento dei casi di detenzione domiciliare, è quella individuata anche in sede di esercizio della delega di cui alla legge n. 103 del 2017, non ancora approdata a testo vigente.

Sta di fatto che, al di là delle vicende legislative in corso, l'ordinanza che si pubblica realizza un ampio percorso di sostegno a tale ipotesi, muovendo dal raffronto tra la regolamentazione attuale della condizione e il sistema di tutela dei diritti fondamentali della persona, costituzionale e convenzionale.

Muovendo dalla constatazione di inapplicabilità della previsione di legge – pur mai espressamente abrogata – dell'art. 148 cod. pen., la Cassazione evidenzia come la condizione dei soggetti colpiti da infermità psichica sopravvenuta sia caratterizzata da una sorta di «regresso trattamentale» e di «sostanziale degiurisdizionalizzazione» non esistendo – allo stato – reali alternative alla allocazione in strutture interne al circuito penitenziario (le Articolazioni per la tutela della salute mentale realizzate ai sensi dell'art. 65 ord.pen.).

Ciò per la impossibilità di allocare i soggetti imputabili nelle REMS, da un lato, e per lo sbarramento legislativo che, per la corrente interpretazione delle relative disposizioni, esclude la patologia psichica dall'ambito di applicazione dell'art. 146 (differimento obbligatorio della pena), 147 (differimento facoltativo) cod. pen. e 47-ter co. 1-ter ord. pen. (detenzione domiciliare in deroga).

Tale assenza di alternative alla permanenza in carcere del soggetto portatore di patologia psichica è posta alla base del dubbio di legittimità costituzionale dell'art. 47-ter co. 1-ter, in riferimento a quanto previsto dagli articoli 2, 3, 27, 32 e 117 co. 1 Cost.

Si ripercorrono taluni arresti della Corte Costituzionale sul tema del diritto alla salute in ipotesi di intervenuta restrizione di libertà (in part. Corte cost. n. 70 del 1994) ed in tema di finalità rieducativa della pena (sent. n. 313 del 1990) nonché quelli della Corte di Strasburgo relativi al divieto di trattamenti inumani o degradanti (art. 3 Cedu), alcuni dei quali riguardanti l'Italia (caso Contrada c. Italia del 2014).

Sullo sfondo, pare volersi sostenere la complessiva irragionevolezza di un sistema regolativo basato sulla rigida distinzione concettuale tra infermità fisica ed infermità psichica, in chiave di valutazione complessiva della incidenza della condizione patologica sui diritti inviolabili della persona umana all'adeguatezza del trattamento sanitario e della offerta trattamentale.