11 ottobre 2018 |
Due sentenze della Cassazione in tema di condotta partecipativa a un'associazione terroristica di matrice jihadista e mera adesione ideologica
Cass., Sez. V, sent. 13 luglio 2017 (dep. 3 novembre 2017), n. 50189, Pres. Fumo, Rel. Brancaccio; Cass., Sez. VI, sent. 19 dicembre 2017 (dep. 29 marzo 2018), n. 14503, Pres. Paoloni, Est. Silvestri
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1. Prosegue l’itinerario giurisprudenziale di definizione della fattispecie partecipativa di cui all’art. 270-bis co. 2 c.p. in tema di terrorismo internazionale con due rilevanti pronunce della Suprema Corte: Cass., Sez. V n. 50189 del 13 luglio 2017 e Cass., Sez. VI, n. 14503 del 19 dicembre 2017.
Entrambe le sentenze si collocano nel solco dell’interpretazione estensiva della condotta partecipativa tracciato dai precedenti in materia di terrorismo jihadista, che giudica idonee ad integrare il reato condotte connotate da un limitato profilo di materialità. Allo stesso tempo, la Suprema Corte ha inteso arginare l’espansione incontrollata del perimetro di tale fattispecie, ricorrendo a principi di diritto tratti dall’esperienza giuridica maturata nell’ambito della criminalità organizzata di stampo mafioso.
I giudici di legittimità, giungendo a soluzioni ermeneutiche in tema di valutazione degli indizi di partecipazione ex art. 270-bis co. 2 c.p. in parte innovative e tra loro divergenti, si sono misurati con le peculiarità fenomenologiche del terrorismo islamico, caratterizzato da strutture cellulari decentralizzate dette “a rete”, capaci di operare a distanza e di accogliere le vocazioni jihadiste di singoli che perseguono in autonomia il programma criminoso del sodalizio (i c.d. “lupi solitari”).
2. Cass. sez. V, n. 50189/17 conferma la legittimità dell’ordinanza di custodia cautelare in carcere per il reato di cui all’art. 270-bis co. 2 c.p. emessa dal GIP presso il Tribunale di Venezia, contro la quale gli imputati avevano proposto riesame.
In particolare i ricorrenti erano accusati di aver partecipato ad un’organizzazione terroristica internazionale, allo scopo di commettere atti con finalità di terrorismo sia in Siria che in Italia, costituendo una "cellula" radicalizzata, dedita al proselitismo antioccidentale jihadista a favore dello Stato Islamico, attraverso la diffusione di video e messaggi di incitamento e propaganda via internet, nonché attraverso l'addestramento e l'auto addestramento, per commettere attentati, tra i quali l’esplosione del Ponte di Rialto.
2.1. Il nucleo comune dei ricorsi degli imputati avverso il provvedimento del Tribunale del Riesame di Venezia mirava a sostenere la non configurabilità del reato ex art. 270-bis c.p. per mancanza degli elementi oggettivi essenziali e per la confusione tra mera adesione ideologica estremista ed effettiva partecipazione ad una struttura organizzativa di matrice terroristica jihadista.
2.2. Il percorso motivo che porta la S.C. a rigettare tutti i ricorsi prende le mosse da una dettagliata rassegna degli arresti giurisprudenziali in tema di elementi costitutivi dell’art. 270-bis co. 2 c.p., che hanno plasmato un paradigma interpretativo della norma ormai consolidato, che richiede: a) l’esistenza di una struttura organizzativa, anche di carattere rudimentale; b) un programma criminoso non necessariamente realizzato[1]; c) la natura terroristica della violenza di cui il sodalizio intende servirsi[2]; d) l’idoneità dell’organizzazione ad attuare il piano, ossia la concreta pericolosità dell’organizzazione[3].
L’esperienza investigativa ha rivelato come le organizzazioni terroriste transnazionali di stampo jihadista sono caratterizzate da strutture dinamiche e flessibili e si configurano come “una vera e propria "rete" in grado di mettere in relazione soggetti assimilati da un comune progetto politico-militare e di fungere da catalizzatore dell'affectio societatis, costituendo in tal modo lo "scopo sociale" del sodalizio” (§ 3.1. sentenza).
Per ricomprendere questi nuovi modelli organizzativi fortemente destrutturati entro l’ambito di applicazione del delitto associativo, la giurisprudenza ha ritenuto che lo stesso possa essere integrato dal compimento da parte di una cellula locale di un’unica condotta di supporto agli obiettivi dell’organizzazione terroristica, quale il proselitismo, la diffusione di documenti di propaganda, l’assistenza agli associati, il finanziamento, la predisposizione o acquisizione di armi o documenti falsi, l’arruolamento, l’addestramento[4].
Tale applicazione estensiva dell’art. 270-bis co. 2 c.p., suscettibile di ricomprendere condotte ben lontane dal grado di lesività delle attività descritte dall’art. 270-sexies c.p.[5], è compatibile con i fondamentali principi di offensività e colpevolezza solo laddove venga positivamente superato il test dell’offensività in concreto, ossia venga verificata l’idoneità delle condotte a porre in pericolo i beni protetti dalla norma.
Per quanto riguarda l’applicazione di tale verifica a presunte condotte associative terroristiche il precedente di riferimento è da individuarsi in Cass.Sez. V, n. 48001/2016, Hosni, nella quale l’integrazione del reato è stata esclusa in ragione dell’assenza di una struttura criminale dotata della capacità effettiva di realizzare gli atti di violenza. Secondo la S.C., infatti, l’interprete deve rintracciare condotte concrete che non si esauriscano nel mero proselitismo e indottrinamento a favore del martirio per la causa islamica, ma che, sulla base dell’esperienza investigativa e giurisprudenziale in materia, rivelino l’esistenza di un sodalizio avente finalità terroristica.
La S.C. evidenzia come nel contesto del terrorismo jihadista, tuttavia, la linea di confine fenomenologica tra la libertà di manifestazione del pensiero, legittima o eventualmente perseguibile ex art. 414 co. 4 c.p., e la partecipazione ad un’associazione con finalità terroristica sia spesso labile. Centrale è, dunque, la rigorosa valutazione dei concreti elementi investigativi che, seppur minimi, manifestino una composizione organizzativa di uomini e attività prodromiche alla commissione di eventuali reati fine.
2.3. Alla luce di queste premesse, i giudici di legittimità, facendo propri gli indirizzi giurisprudenziali esposti, rintracciano nella fattispecie in esame numerosi elementi indiziari sintomatici della partecipazione degli imputati ad unacellula estremista islamica pronta a compiere azioni terroristiche effettivamente perseguibili dalla stessa.
In particolare, gli imputati non si limitavano a professare collettivamente la comune ideologia jihadista ma si incontravano e vivevano abitualmente nella medesima abitazione dove, secondo un’embrionale divisione di ruoli, in modo stabile e duraturo erano dediti a: (a) attività di addestramento ed auto addestramento per il compimento di azioni terroristiche mediante l’allenamento fisico e la condivisone reiterata di video che mostrano la fabbricazione di armi ed esplosivi; (b) espressioni collettive di adesione all’ideologia jihadista, ipotizzando anche l’esplosione di una bomba sotto il Ponte di Rialto; (c) attività di proselitismo e propaganda a favore dell’ideologia jihadista mediante il proprio profilo social.
Per quanto riguarda il requisito soggettivo del reato contestato, la volontà e consapevolezza degli imputati di perseguire gli obiettivi terroristici emergerebbe da numerose conversazioni intercettate nelle quali i ricorrenti avrebbero descritto le attività elencate e avrebbero manifestato preoccupazione per l’eventualità di essere scoperti.
Fin qui, in realtà, si tratta di condotte che integrano di per sé l’art. 270-bis (cfr. § 3.4 sentenza).
2.4. Tuttavia la pronuncia in commento non si limita a tale conclusione in linea con gli orientamenti pregressi, ma inaugura un’applicazione della fattispecie di reato ex art. 270-bis co. 2 c.p. parzialmente inedita.
I giudici di legittimità, infatti, affermano che gli imputati, affiliandosi alla cellula jihadista locale, hanno contemporaneamente preso parte all’associazione terroristica internazionale detta ISIS, mediante una condotta partecipativa detta “per adesione”(cfr. § 3.4, pagg. 13 ss.)
Occorre preliminarmente sottolineare le peculiarità delle modalità di adesione alle associazioni terroristiche di matrice islamica, ossia: i) la tendenza ad un processo di inclusione progressiva nelle stesse degli individui o cellule che condividono l’ideologia jihadista e gli obiettivi terroristici “proclamati su scala internazionale ed "attivizzati" mediante diffusione di video, immagini e comunicati diretti a tale scopo” (§ 3.4, sentenza pag. 14); ii) la possibilità di inserirsi nell’organizzazione terroristica aderendo spontaneamente senza la necessità di riconoscimenti formali da parte del sodalizio[6].
La giurisprudenza ha quindi cercato di armonizzare questo nuovo fenomeno terroristico con i principi elaborati in tema di partecipazione ad associazioni criminose tradizionali di stampo mafioso, evidenziando che:
– lo status di partecipe è da intendersi in senso dinamico e funzionalistico, poiché si acquisisce con l’effettiva assunzione del ruolo in cui si è immessi e dei compiti che si è vincolati di volta in volta a svolgere perché l’associazione raggiunga i suoi scopi, non rilevando, quindi, l’individuazione di un ruolo stabile e predefinito del presunto affiliato[7];
– l’inserimento nella compagine associativa offre un contributo causale al sodalizio criminoso idoneo ad integrare la condotta partecipativa, giacché rafforza l’affidamento dell’associazione sulla persistente disponibilità di adepti[8].
Alla luce di questi assodati principi giurisprudenziali e ispirandosi al “modello organizzatorio”, la S.C. propone una nuova forma di partecipazione ad un’associazione terroristica internazionale di matrice jihadista, ossia“per adesione spontanea”, con la quale il neofita rafforza e consolida il sodalizio terroristico di ispirazione.
L’astratta configurabilità di tale fattispecie richiede, poi, la puntuale verifica dell’offensività in concreto della condotta partecipativa, ossia dell’effettiva possibilità di azione della cellula cui il singolo aderisce, per scongiurare il rischio che, in ragione della svalutazione del dato strutturale del reato, si anticipi la repressione penale sino a sanzionare la mera adesione ad un’ideologia criminosa.
I giudici di legittimità ritengono che la cellula terroristica in oggetto soddisfi tale verifica alla luce dell’attività di proselitismo e propaganda all’ideologia jihadista posta in essere dagli imputati, nonché dell’adesione e disponibilità degli stessi alla guerra santa e al compimento di attentati in Italia e all’estero.
La S.C. così riassume il proprio percorso argomentativo:“deve, quindi, concludersi nel senso che la dimensione plausibile di partecipazione "per adesione" ad un modello di associazione terroristica costruito su scala internazionale, secondo canoni tanto precisi nella loro finalizzazione alla jihad, quanto inneggianti all'attivismo spontaneista delle singole "cellule" operative, può dirsi configurata, in questa fase cautelare, a carico dei ricorrenti, ferma la sussistenza nei loro confronti – e la sufficienza, dal punto di vista della rilevanza penale – di uno schema organizzativo "minimo", caratterizzato da grado di effettività tale da rendere possibile l'attuazione del programma criminoso attraverso la violenza terroristica” (§3.4. sentenza, pag. 15).
3. Passando ora ad analizzare la successiva pronuncia della sezione VI della Cassazione, n. 14503/17, occorre osservare che essa risponde a doglianze di contenuto speculare a quelle oggetto dei ricorsi rigettati dalla sentenza n. 50189/17.
La vicenda processuale trae origine dall’istanza di custodia cautelare in carcere emessa nei confronti di un cittadino marocchino per i reati di cui agli artt. 270-bis c.p. e 302 c.p. per aver aderito all'organizzazione terroristica denominata Stato Islamico e per aver istigato propri connazionali ad aderire alla medesima associazione (capo A di imputazione), nonché per spaccio di stupefacenti (art. 73, comma 4, d.p.r., n. 309 del 9.10.1990, capo B di imputazione).
Il GIP presso il Tribunale di Perugia, all’esito dell’udienza di convalida del fermo, disponeva la misura della custodia cautelare in carcere unicamente per l’ipotesi delittuosa di cessione di hashish, rigettando l’istanza della Procura per le residue contestazioni.
Il PM impugnava l’ordinanza dinnanzi al Tribunale di Perugia in funzione di giudice d’appello cautelare, che, in parziale accoglimento dei motivi di doglianza, applicava la misura cautelare anche per il delitto di cessione di cocaina, confermando nel resto l’ordinanza del GIP.
3.1. Avverso tale pronuncia, proponevano ricorso in Cassazione il PM quanto al rigetto dell’istanza cautelare per i fatti descritti dal capo A dell’incolpazione e l’imputato quanto all’estensione della misura cautelare per il reato di cessione di cocaina e alla mancanza di motivazione in merito alle esigenze cautelari.
La Cassazione ritiene fondanti entrambi i ricorsi. In questa sede, si riportano le motivazioni inerenti l’accoglimento del ricorso della pubblica accusa in merito alla fattispecie delittuosa di cui all’art. 270-bis co. 2 c.p. Il PM lamentava un vizio di motivazione per la scorretta valutazione degli elementi indiziari di cui al capo A dell’incolpazione, ritenendo che il Tribunale avesse interpretato in maniera riduttiva il contenuto di numerose conversazioni intercettate e avesse omesso di considerare l’efficacia probatoria delle dichiarazioni assunte nel corso delle indagini. Da questo compendio indiziario, infatti, secondo l’ipotesi accusatoria, emergerebbero gravi e concordanti indizi della partecipazione dell’imputato all’ISIS.
3.2. La S.C., pur accogliendo le doglianze del Pubblico Ministero, pone degli argini all’eccessivo ampliamento dell’alveo applicativo della fattispecie partecipativa di cui all’art. 270-bis co. 2 c.p.
Tale tendenza espansiva è, infatti, ben ravvisabile negli arresti giurisprudenziali in materia di terrorismo jihadista richiamati anche nella sent. n. 50189/17 che considerano penalmente rilevanti condotte che si esauriscono nella mera propaganda o proselitismo. Si è assistito ad una significativa destrutturazione del requisito organizzativo proprio della tradizione interpretativa della criminalità organizzata mafiosa e alla valorizzazione dell’adesione psicologica al programma criminoso che consente di incriminare condotte di mera propaganda o proselitismo. Il rischio, secondo la S.C., è quello di allargare l’ambito applicativo della fattispecie tanto da svuotare il controllo giurisdizionale in ordine alla materialitàdella condotta partecipativa e alla sua concreta incidenza causale sull’associazione criminosa.
Per evitare la criminalizzazione di condotte di mera adesione psicologica è necessario che l’interprete, non rifugiandosi in accertamenti probatori sincopati e sbrigativi, verifichi con rigore il ricorrere degli elementi costitutivi della fattispecie, ossia: a) l’esistenza di una struttura criminaledotata di effettiva capacità operativa; b) la consistenza materiale della condotta partecipativache si innesta in tale struttura.
La descrizione delle caratteristiche fondamentali dell’organizzazione e del contributo partecipativo si pongono sostanzialmente in linea con la giurisprudenza consolidata in tema di terrorismo jihadista e puntualmente ripercorsa in Cass. Sez. V, 50189/17, cui si rinvia (si veda par. 2.2 della presente scheda).
Tuttavia, in tema di condotta partecipativa, i giudici di legittimità propongono delle osservazioni parzialmente innovative.
La Corte sottolinea infatti che il contributo del presunto partecipe all’associazione “non può essere smaterializzato, meramente soggettivizzato, limitato alla idea eversiva, privo di valenza causale ovvero ignoto all'associazione terroristica alla cui attuazione del programma criminoso si intende contribuire” (§ 7 sentenza).
Non si può certo trascurare che in un tessuto organizzativo criminoso quale quello di ispirazione jihadista, in cui ciascun affiliato è chiamato a commettere di propria iniziativa attentati con modalità esecutive estremamente semplificate, delineare le caratteristiche della condotta partecipativa è un’operazione ermeneutica delicata e dagli esiti incerti.
In proposito, se è vero che la giurisprudenza ha affermato l’idoneità di una sola condotta di supporto agli obiettivi del sodalizio ad integrare la fattispecie di cui all’art. 270 bis co. 2 c.p., tuttavia tale attività deve essere tale da dimostrare in modo inequivocabile l’inserimento del soggetto nell’organizzazione criminosa[9]. Quanto all’attività di mero indottrinamento e proselitismo, è stato affermato in sede di legittimità che essa è valutabile quale grave indizio del ricorrere degli estremi ex art. 270-bis co. 2 c.p. in sede cautelare, solo laddove si accompagni ad altri concreti elementi dai quali sia possibile desumere che il sodalizio "si propone il compimento di atti di violenza con finalità di terrorismo".[10]
3.3. Nel caso in esame la S.C. ha ravvisato idoneo riscontro all’effettivo inserimento nell’organizzazione terroristica nella esistenza di contatti operativi tra l’imputato e la struttura dell’ISIS, enunciando il seguente principio di diritto: “dunque, i propositi di partire per combattere "gli infedeli", la vocazione al martirio, l’opera di indottrinamento possono costituire elementi da cui desumere, quantomeno in fase cautelare, i gravi indizi di colpevolezza per il reato di "partecipazione" all’associazione di cui all’art. 270 bis cod. pen. a condizione che vi siano elementi concreti che rivelino l’esistenza di un contatto operativo che consenta di tradurre in pratica i propositi di morte” (§ 9 sentenza).
Tale legame, poi, deve necessariamente essere biunivoco, ossia caratterizzarsi per la consapevolezza anche mediata, riflessa e indiretta della struttura dell’associazione terroristica di poter contare sull’aspirante neofita.
Ed è in merito a tale affermazione di principio che la sezione VI della S.C. si discosta dalla sent. n. 50189/17 della sez. V della Cassazione.
Essa, infatti, censura esplicitamente “quelle costruzioni giuridiche che, ai fini della configurabilità della condotta di partecipazione, ritengono sufficiente l’adesione del singolo a proposte "in incertam personam" – quelle del sodalizio internazionale – anche nel caso in cui l’adesione non sia accompagnata dalla necessaria conoscenza, anche solo indiretta, mediata, riflessa, di essa da parte della "struttura" internazionale” (§ 10 sentenza). Tali criteri ermeneutici, infatti, prestano il fianco alla criminalizzazione di soggetti che, privi di qualsiasi legame con l’associazione terroristica di riferimento, si limitino a condividere alcuni contenuti diffusi dalla stessa tramite il web.
Questo orientamento comporta anche l’esclusione dell’automatica estensione della prova della partecipazione di un soggetto ad una cellula locale di matrice jihadista alla dimostrazione dell’adesione dello stesso all’associazione terroristica internazionale cui il sodalizio si ispira.
4. È ravvisabile in entrambe le pronunce un significativo sforzo nel conferire maggior determinatezza e materialità al paradigma interpretativo della fattispecie partecipativa in associazioni terroristiche, adattando principi di diritto consolidatisi nella tradizione giuridica relativa alla criminalità organizzata mafiosa, codificati nella sentenza Mannino.
Tuttavia, la consistenza di tali categorie interpretative rischia di essere svuotata dal ricorso a scorciatoie probatorie fondate su indici sintomatici di cointeressenza con il sodalizio criminoso che assurgono a presunzioni assolute di adesione allo stesso. In altre parole la confusione tra condotte meramente indiziarie di partecipazione all’associazione terroristica e condotte che sono di per sé sufficienti ad integrare la fattispecie partecipativa può determinare un giudizio di responsabilità penale non ancorato alla prova dell’effettivo inserimento dell’imputato nella struttura del sodalizio.
In quest’ottica appare significativo il richiamo di Cass. n. 14503/17 alla necessità di provare l’esistenza di contatti operativi biunivoci tra il presunto partecipe e l’organizzazione terroristica per sostenere l’accusa di partecipazione alla stessa in presenza di condotte consistenti nella mera adesione psicologica. Come evidenziato dai giudici di legittimità, infatti, la penalizzazione di condotte di propaganda dell’ideologia jihadista propugnata da un’organizzazione terroristica, ritenute automaticamente sintomatiche dell’adesione spontanea e unilaterale alla stessa, può favorire l’incriminazione di individui che non hanno, nei fatti, legami con l’associazione né la capacità di contribuire agli obiettivi criminali della stessa.
Tale scenario aprirebbe la strada ad un diritto penale del nemico, dove la pericolosità e i propositi soggettivi dell’autore si sostituiscono ai principi cardine di colpevolezza e offensività.
Cass. 50189/17 cerca di arginare queste possibili derive ermeneutiche richiamando la necessità di un accertamento dell’effettiva pericolosità della condotta partecipativa. Tuttavia, tale accertamento, che secondo la S.C. coinvolge esclusivamente il piano concreto e casistico, nella sentenza citata appare svolto sbrigativamente, valorizzando elementi non pienamente coerenti con il tema di prova.
Da un lato, infatti, si afferma la rilevanza delle condotte di proselitismo e personale adesione ideologica (prive, tuttavia, di un’intrinseca materialità), dall’altro si sottolinea l’esistenza di una struttura organizzativa minima che non persegue, tuttavia, il programma criminoso dell’ISIS ma è funzionale all’esigenze della cellula locale.
I propositi di cooperazione con la più estesa associazione terroristica transazionale restano, dunque, confinati ad un piano puramente ideale, privo di riscontri concreti.
5. Anche i principi ermeneutici affermati in Cass. 14503/17 richiedono, tuttavia, un’importante precisazione: la mera esistenza di contatti tra l’imputato e individui appartenenti all’ISIS non è sufficiente per conferire materialità alle condotte di adesione psicologica ma è necessario che gli stessi si concretizzino in una effettiva “messa a disposizione” dell’imputato alle esigenze dell’associazione.
Una recente pronuncia della S.C. in tema di associazione mafiosa offre un’utile definizione del concetto di “messa a disposizione” – da adattare al modello criminale del terrorismo jihadista – così declinato: “sul piano semantico, la "messa a disposizione" indica un comportamento che concretizza il suo profilo dinamico nel momento (certus an, incertus quando) in cui all'associato viene chiesta una determinata prestazione nell'interesse dell'associazione, prestazione che non può permettersi di rifiutare, pena pesanti ritorsioni che vanno dall'espulsione (il cd. "spoglio": cfr pag. 236 della sentenza, che implica l'isolamento dell'associato, trattato come un "paria" dall'ambiente sociale nel quale vive) fino all'eventuale soppressione fisica”(Cass. sez. II, n. 27394 del 10/05/2017).
In conclusione, l’itinerario verso una compiuta definizione della condotta partecipativa ex art. 270-bis co. 2 c.p., idonea a colpire le mutevoli e pervasive forme del terrorismo moderno e che, allo stesso tempo, non eroda i principi di colpevolezza e offensività, presenta ancora molti passaggi critici.
La tradizione giuridica relativa alle condotte partecipative in associazioni mafiose può offrire agli interpreti importanti strumenti ermeneutici da adattare al terrorismo di matrice jihadista, caratterizzato spesso da condotte con limitata consistenza oggettiva.
[1] Cass. sez. II, n. 24994/2006, Bouhrama.
[2] Cass. sez. V, n. 12252/2012, Bortolato; Cass., Sez. V, n. 46340/2013, Stefani.
[3] Cass.Sez. V, n. 48001/2016, Hosni.
[4] Cass. Sez. VI, n. 46308/2012, Chabchoub.
[5] Art. 270-sexies c.p.: “Sono considerate con finalità di terrorismo le condotte che, per la loro natura o contesto, possono arrecare grave danno ad un Paese o ad un'organizzazione internazionale e sono compiute allo scopo di intimidire la popolazione o costringere i poteri pubblici o un'organizzazione internazionale a compiere o astenersi dal compiere un qualsiasi atto o destabilizzare o distruggere le strutture politiche fondamentali, costituzionali, economiche e sociali di un Paese o di un'organizzazione internazionale, nonché le altre condotte definite terroristiche o commesse con finalità di terrorismo da convenzioni o altre norme di diritto internazionale vincolanti per l'Italia”.
[6] Si veda: Cass. Sez. III, n. 22124 del 29/4/2015, Borraccino; Cass. Sez. IV, n. 51716 del 16/10/2013, Amodio; Cass. Sez. V, n. 48676 del 14/5/2014, Calce.
[7] Cass. S.U., n. 33748 del 12/7/05, Mannino.
[8] In ipotesi di gruppi terroristici di ispirazione politica si rinvia a Cass. Sez. V, n. 4105 del 12/11/2010 Papini.
[9] Cass. Sez. VI, n. 46308 del 12/7/2012, Chahchoub; in merito alla necessità della prova dell’inserimento nell’organizzazione terroristica del presunto partecipe si veda Cass. Sez. II, n. 25452 del 21/02/2017, Beniamino.
[10] Si veda Cass. Sez. V, n. 48001 del 14/7/2016, Hosni e Cass. Sez. II, n. 669 del 21/12/2004, Ragoubi.