ISSN 2039-1676


13 novembre 2017 |

Una pronuncia di condanna della Corte di Assise di Milano nei confronti di un "foreign fighter"

Corte d’Assise di Milano, sent. 13 aprile 2017 (dep. 6 luglio 2017), n. 2, Pres. est. Ichino, Imp. El Mkhayar

Contributo pubblicato nel Fascicolo 11/2017

Per leggere il testo della sentenza in commento, clicca in alto su "visualizza allegato".

 

1. Con la sentenza che può leggersi in allegato, la Corte d’Assise di Milano ha condannato in absentia El Mkhayar Monsef, un giovane ragazzo marocchino, da poco immigrato in Italia e di qui partito per combattere nelle file dello Stato Islamico, alla pena di otto anni di reclusione per il reato di associazione con finalità di terrorismo (art. 270 bis c.p).

 

2. El Mkhayar Monsef nasceva a Casablanca in Marocco il 1 gennaio 1995. Nell’estate del 2009, all’età di quattordici anni, si trasferiva clandestinamente in Italia. Dopo aver trascorso pochi mesi vivendo senza fissa dimora, il giovane veniva affidato alla madre, emigrata in Italia insieme alla sorella diversi anni prima. La relazione tra Monsef e la madre era però molto conflittuale e, già a febbraio 2010, i due decidevano di separarsi.

Da quel momento iniziava l’affidamento di Monsef a diverse comunità, dalle quali veniva sistematicamente allontanato per la sua scarsa capacità di controllo. Nel giugno 2010 il giovane veniva finalmente affidato al centro “Kayros” di Vimodrone, dove avviava un percorso di “recupero” e di integrazione. In base al racconto di uno dei responsabili del centro, Monsef partecipava al percorso in modo molto incostante (spesso allontanandosi per andare in Piemonte a trovare la zia materna) e teneva un comportamento aggressivo e violento. In questo contesto, veniva coinvolto in un giro di spaccio di sostanze stupefacenti e, dall’ottobre 2013 al marzo 2014, veniva detenuto nella casa circondariale di San Vittore.

L’esperienza carceraria è identificata dagli operatori della comunità come il momento di svolta del percorso di radicalizzazione di Monsef. Al suo rientro in comunità, Monsef mostrò infatti un “cambiamento repentino di comportamento”, caratterizzato da un particolare fervore religioso, prima di allora quasi assente. Il giovane cominciò a pregare quotidianamente e ad andare frequentemente in moschea, e i suoi discorsi diventavano progressivamente più monotematici, sempre relativi all’Islam e alla necessità per gli aderenti alle altre religioni di convertirsi. Questo cambiamento ebbe ripercussioni anche sulle sue relazioni con gli altri membri della comunità: Monsef insisteva con i suoi compagni (molti dei quali di fede islamica) affinché conformassero la loro vita ai dettami del Corano, e una volta si rifiutò di stringere la mano ad una operatrice spiegando che “ai credenti dell’Islam non [è] consentito toccare le donne”.

A gennaio 2015 Monsef, assieme a un suo compagno ospite del centro, Tarik, si allontanò di nascosto dalla comunità e partì per la Siria.

Sulla base delle testimonianze dei compagni di comunità di Monsef e dei familiari, dell’analisi dei profili facebook riconducibili all’imputato, nonché delle intercettazioni telefoniche veniva accertato che:

- Monsef raggiungeva insieme all’amico Tarik i territori occupati dallo Stato Islamico e prendeva parte all’addestramento militare per divenire mujhaed (“combattente impegnato nel jihad”).

- attraverso i suoi profili di facebook pubblicava una foto ritraente il viaggio verso i territori occupati dallo Stato islamico e una foto in cui si mostrava con la tuta nera tipica dei combattenti dell’ISIS. Sempre all’interno dei profili veniva successivamente pubblicata anche una sua carta di identità stampata dallo Stato Islamico;

- contattava tramite facebook un imam residente a Lecco, esortandolo a partire per i territori dello Stato islamico;

- sollecitava due ex compagni della comunità di Milano a partire per i territori dell’ISIS, così da adempiere ad un preciso dovere religioso cui sono tenute tutte le persone di origine araba;

- celebrava su facebook il martirio del compagno Tarik.

In relazione a questi fatti, il PM del procedimento formulava nei confronti di Monsef la contestazione del reato di partecipazione ad una associazione con finalità di terrorismo (art. 270 bis c.p.).

 

3. Tre i passaggi fondamentali seguiti dalla pronuncia nell’addivenire alla condanna dell’imputato: a) la prova delle finalità di terrorismo in capo all’organizzazione ISIS; b) la nozione di condotte di partecipazione rilevante ex art. 270 bis c.p.; c) l’impossibilità di considerare l’ISIS come Stato ai sensi delle norme del diritto internazionale.

 

4. Dopo una sintetica ricostruzione delle origini storiche, degli scopi e dei metodi cui ricorrono gli aderenti al sedicente Stato Islamico, la Corte d’Assise afferma anzitutto che l’ISIS costituisce indubbiamente una organizzazione connotata da finalità di terrorismo internazionale.

In linea con l’ormai consolidata giurisprudenza[1], la prova della finalità di terrorismo dell’associazione viene desunta sostanzialmente dal riferimento a risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell’ONU (tra cui le note risoluzioni 2170/2178 del 2014) e ad alcuni documenti ufficiali emanati dalla Commissione Europea (Annual Report on the implementation of the European Union’s instruments for financing external actions in 2015) e dal Consiglio dell’Unione (agenda antiterrorismo del 20 dicembre 2016).

Sul piano interno l’accento è invece posto sul d.l. 18 febbraio 2015, n. 7, attraverso cui il nostro Paese ha attuato i predetti obblighi scaturenti dalle fonti internazionali.

 

5. Riconosciuta dunque la natura terroristica dell’associazione, la pronuncia si sofferma sulla nozione di condotte partecipative.

La Corte di Appello prende le mosse dell’enunciazione di principio secondo cui la partecipazione all’organizzazione criminale non può essere desunta esclusivamente dalla adesione psicologica o ideologica al programma predisposto dall’associazione, dovendosi invece fornire la dimostrazione dell’effettivo inserimento dell’adepto nell’organigramma dell’associazione.

A tale proposito, la giurisprudenza ha individuato alcune condotte come sintomatiche della concreta adesione di un soggetto al sodalizio criminale di matrice terroristica, affermando tra l’altro che esse possono consistere sia in condotte spiccatamente “partecipative”, sia in atti preparatori o facilitatori di una associazione di stampo terroristico. In particolare, la Suprema Corte ha affermato che la fattispecie di cui all’art. 270 bis c.p. deve ritenersi integrata anche in relazione a “condotte di supporto all’organizzazione terroristica di organizzazioni riconosciute ed operanti come tali, quali quelle volta al proselitismo, alla diffusione di documenti di propaganda (…) all’arruolamento (…) ossia a tutte quelle attività funzionali all’azione terroristica[2].

Quanto poi alla natura del legame tra soggetto ed organizzazione, la giurisprudenza di legittimità ha più volte ribadito che – alla luce della peculiare struttura “a rete” che caratterizza le associazioni terroristiche – non è necessario provare che ciascun partecipante sia in contatto con il nucleo centrale dell’associazione, risultando sufficiente il collegamento con un singolo “nodo” della rete stessa.

 

6. La Corte di Milano affronta infine la questione – sollevata dalla difesa dell’imputato – della possibilità di configurare l’ISIS quale Stato ai sensi del diritto internazionale.

In base alle norme del diritto internazionale pubblico, un ente è riconosciuto come Stato in presenza della nota c.d. triade governo-popolo-territorio: uno Stato è l’insieme di un popolo e di un territorio su cui un governo esercita stabilmente la propria autorità.

Almeno allo stato attuale, osserva la Corte d’Assise, si deve escludere che ISIS abbia raggiunto un livello di sovranità esterna ed interna, tale da essere considerato effettivamente uno Stato. Per un verso, infatti, gli Stati sono pressoché concordi nel condannare l’ISIS e nell’escluderlo dal novero delle realtà statuali; per altro verso, lo stesso controllo interno del territorio da parte dell’ISIS è fortemente compromesso dalla situazione di guerra civile e dall’estrema variabilità dei confini e dei territori occupati.

Infine, l’ISIS non può nemmeno rientrare all’interno della categoria degli Stati in formazione. Il programma violento e fondamentalista dello Stato Islamico, che si sostanzia in atti di crudeltà verso i popoli e le culture conquistate, non può comunque essere confuso con il principio di autodeterminazione dei popoli.

 

7. Alla luce di questa ricostruzione, non vi è dubbio – conclude la Corte di Appello – che nel caso concreto l’imputato abbia realizzato gli estremi del reato di cui all’art. 270 bis c.p.

La partenza per i territori occupati dal Califfato, la partecipazione attiva all’ addestramento militare e i tentativi di arruolamento e di proselitismo alla causa del terrorismo islamista rappresentano senz’altro indici concreti della sua affiliazione all’associazione criminale.

 

***

 

8. In casi come questo, che concernono l’attività di foreign fighters svoltasi in territorio estero, si pone un delicato problema relativo all’estensione della legge penale italiana nello spazio.

La diversità delle situazioni di fatto che possono giungere nelle aule giudiziarie rende difficile cercare una soluzione unitaria del problema.

a) Una prima ipotesi riguarda il foreign fighter che si sia chiaramente inserito nel sodalizio criminoso già prima di partire per la Siria ed unirsi alle fila dei combattenti dell’organizzazione. In simili casi, non si in realtà pone alcun problema: la commissione sul territorio nazionale della condotta partecipativa consente l’applicazione dell’art. 6 c.p. Ciò accade anche nell’ipotesi in cui il soggetto prenda parte ad una associazione terroristica che presenta una direzione offensiva (anche in via esclusiva) contro uno Stato estero o una organizzazione internazionale, ai sensi del terzo comma dell’art. 270 bis c.p.

b) Diversa è invece la situazione del foreign fighter che compia condotte partecipative solo dopo essere giunto nel territorio estero, e che da lì svolga con successo attività di arruolamento di persone residenti in Italia. È il caso di chi (ad es.) si reca in Siria e contatti attraverso il telefono o un social network una persona che si trova in Italia, persuadendola a prendere parte alla causa dell’ISIS. Anche in questa ipotesi sembrerebbe poter trovare applicazione l’art. 6 c.p. Le condotte di reclutamento, infatti, in mancanza della clausola di riserva in favore del reato di associazione di stampo terroristico, integrerebbero autonomamente il reato di arruolamento con finalità di terrorismo anche internazionale (art. 270 quater c.p.). Tale norma, secondo la giurisprudenza[3], costituisce un reato di evento, che si consuma con il perfezionamento di un serio accordo tra arruolatore (che nell’esempio si trova all’estero) e arruolato (che si trova in territorio italiano). La circostanza che l’evento-accordo si perfeziona in Italia pare dunque idonea a radicare l’applicazione della legge italiana ex art. 6 c.p.

c) Più complessa è l’ipotesi del foreign fighter che commetta condotte partecipative soltanto una volta giunto nel territorio estero, e che da lì svolga attività di reclutamento in Italia, senza tuttavia avere successo. È (ad es.) la situazione di chi si trasferisce in Siria, e da lì telefoni o contatti in altro modo persone residenti nel nostro Paese, senza che le sue attività di proselitismo abbiano esito positivo. In questi casi, non realizzandosi quel serio accordo o “ingaggio” che costituisce l’evento della fattispecie di arruolamento, il reato – ricorrendone tutti i presupposti – si arresta alla forma del tentativo, integrato da atti compiuti interamente – parrebbe – in territorio estero.

 

9. Una ricostruzione alternativa a quelle finora prospettate potrebbe forse passare dalla valorizzazione dei fatti compiti dal foreign fighter in territorio estero, piuttosto che da quei segmenti di condotta realizzati in Italia.

Come noto, l’art. 7 c.p. individua i casi in cui reati commessi interamente all’estero dal cittadino o dallo straniero sono incondizionatamente punibili dalla legge penale italiana. Tra le ipotesi contemplate dalla norma figurano anche i delitti contro la personalità dello Stato italiano (artt. 241-313 c.p.), all’interno dei quali è collocato – almeno a livello topografico – il reato di associazione con finalità di terrorismo.

Va però da subito sottolineato che l’art. 270 bis c.p. non integra sempre e necessariamente un reato contro la personalità dello Stato italiano, giacché – in base al terzo comma della norma – la fattispecie è configurabile anche quando “gli atti di violenza sono rivolti contro uno Stato estero, un’istituzione o un organismo internazionale” e, quindi, anche quando l’associazione non presenti una direzione offensiva dello Stato italiano.

In altri termini, l’art. 7 c.p. non può trovare automaticamente applicazione in ogni caso di associazione terroristica internazionale, dovendo applicarsi a quei sodalizi che manifestino una attitudine lesiva specificamente rivolta (anche) verso la personalità dello Stato italiano. Ora, a nostro avviso, la norma in esame potrebbe venire in soccorso per radicare l’applicabilità della legge penale italiana anche per i fatti commessi all’estero, laddove l’associazione criminosa cui si partecipa abbia finalità di terrorismo anche nei confronti dell’Italia. Il ricorso a tale via sarà però condizionato al fatto che l’attitudine lesiva dell’associazione nei confronti della personalità dello Stato italiano sia ritenuto provato in sede processuale: ad es. dimostrando che l’IS è una organizzazione terroristica con una offensività specifica anche nei confronti dello Stato italiano perché (ad es.) ha dichiarato “guerra” al nostro Paese, o perché ha come obiettivo ricercato quello di colpire tutti Paesi occidentali tra cui l’Italia.

 


[1] Per una analisi ancora attuale, comprensiva di alcune note critiche cfr. F. Viganò, Terrorismo di matrice islamico-fondamentalista e art. 270 bis nella recente esperienza giurisprudenziale, in Cass. pen., 2007, p. 3953 ss.

[2] Cass. pen., Sez. VI, sent. n. 46308/2012, in Banca dati DeJure.

[3] Cass. pen., Sez. I, sent. n. 40699/2015, in Banca dati DeJure.