23 gennaio 2017 |
Indottrinare al martirio non è reato di associazione con finalità di terrorismo
Nota a Cass., Sez. V, sent. 14 luglio 2016 (dep. 14 novembre 2016), n. 48001, Pres. Lapalorcia, Rel. Zaza, Ric. Hosni ed altri
Contributo pubblicato nel Fascicolo 1/2017
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1. “Indottrinare al martirio non è reato”[1], questo il titolo di alcuni articoli comparsi su importanti testate giornalistiche relativi ad una pronuncia della Cassazione Penale[2] che ha assolto dal reato di associazione con finalità di terrorismo quattro persone residenti in Andria, tra cui Hachemi Ben Hassen Hosni, imam della moschea locale[3].
Decisiva per giudici di legittimità la considerazione che, ai fini della sussistenza della fattispecie di cui all’art. 270 bis c.p., occorre dare prova della creazione di una struttura criminale idonea a mettere in opera gli atti terroristici, “non essendo sufficiente una mera attività di proselitismo ed indottrinamento, finalizzata ad inculcare una visione positiva del martirio per la causa islamica e ad acquisire generica disponibilità ad unirsi ai combattenti in suo nome”.
2. Procediamo però con ordine. Nell’aprile 2013, Hachemi Ben Hassen Hosni, Mohsen Hammami, Nour Ifaoui, Hamdi Chamari e Khairredine Romdhane Ben Chedli, venivano arrestati con l’accusa di avere costituito un’associazione con finalità di terrorismo operante nella città di Andria. Da un’indagine svolta dagli inquirenti nel corso dell’anno 2009 e condotta attraverso intercettazioni sui telefoni degli indagati emergeva che i predetti svolgevano un’attività di proselitismo volta a rendere altri cittadini di religione islamica disponibili al martirio, inteso come esaltazione e ricerca della morte insieme al maggior numero possibile di infedeli.
Più precisamente, l’intercettazione di alcune conversazioni accertava che gli indagati:
- adibivano un call center gestito da Hachemi Ben Hassen Hosni e la moschea di Andria, ove lo stesso predicava, a luoghi in cui svolgere la loro opera di ‘indottrinamento'.
- si riunivano all’interno del call center ed utilizzavano i computer presenti per connettersi con siti di area jihadista e per scaricare filmati su attentati e scene di guerra, documenti illustrativi della preparazione di armi ed esplosivi, informazioni sulla modalità con cui raggiungere luoghi di combattimento e su come trasmettere in rete messaggi criptati.
- avevano nella loro disponibilità documenti falsi destinati a consentire la permanenza illegale di immigrati clandestini in Italia.
- esprimevano frequentemente odio verso la popolazione ebraica, l’ambiente di vita in Italia e l’attività svolta dagli immigrati di fede islamica.
- facevano riferimento all’esistenza di un “gruppo” (termine che – secondo le dichiarazioni di un collaboratore di giustizia – è usato per indicare una “cellula” collegata ad ambienti estremistici).
3. All’esito del giudizio celebrato con rito abbreviato, il 29 settembre 2014, il GUP del Tribunale di Bari riconosceva tutti gli imputati responsabili del reato di associazione terroristica e condannava Hachemi Ben Hassen Hosni alla pena di 5 anni e 2 mesi di reclusione, in qualità di capo ed organizzatore dell’associazione, e gli altri quattro alla pena di 3 anni e 4 mesi di reclusione. La decisione veniva sostanzialmente confermata dalla Corte d’Appello. Contro tale pronuncia, gli imputati Hachemi Ben Hassen Hosni, Mohsen Hammami, Nour Ifaoui, Hamdi Chamari proponevano ricorso per cassazione.
4. Come già anticipato, i giudici di legittimità censurano la decisione della Corte territoriale.
In via preliminare, la Suprema Corte ripercorre sinteticamente i contorni del dolo specifico previsto dalla fattispecie di associazione di stampo terroristico.
Come noto, il reato di cui all’art. 270 bis c.p. è un reato di pericolo presunto, configurabile in presenza di organizzazioni che si propongono “il compimento di atti di violenza con finalità di terrorismo”. Tale espressione va letta insieme al disposto dell’art. 270 sexies c.p., che definisce “condotte con finalità di terrorismo” tutte quelle azioni che:
- da un punto di vista oggettivo, sono idonee – per natura o contesto – ad arrecare grave danno ad uno Stato o ad un’organizzazione internazionale;
- da un punto di vista soggettivo, perseguono in via alternativa lo scopo di: a) intimidire la popolazione, b) costringere i poteri pubblici o un’organizzazione a compiere o astenersi dal compiere un qualsiasi atto, c) destabilizzare o distruggere le strutture politiche fondamentali, costituzionali, economiche e sociali di un Paese o di un’organizzazione internazionale.
In accordo con la sua costante giurisprudenza, la Corte sottolinea inoltre che per ritenere integrato il delitto in esame non è sufficiente provare una “generica tensione” del gruppo verso la finalità terroristica, dovendosi invece dimostrare la effettiva capacità della struttura criminale di mettere in opera il programma criminoso.
5. Poste queste premesse, la Suprema Corte passa alla disamina del fatto concreto.
Anzitutto, osservano i giudici di legittimità, il progetto delittuoso perseguito dall’organizzazione non integra i requisiti del dolo specifico richiesto dall’art. 270 bis c.p. L’attività di indottrinamento posta in essere dagli imputati per sollecitare nei destinatari “una generica disponibilità ad unirsi ai combattenti per la causa islamica e ad immolarsi per la stessa”, non dà infatti necessaria consistenza “a quegli atti di violenza terroristica o eversiva, il cui compimento deve costituire oggetto specifico dell’associazione in esame”. La Corte distingue, quindi, tra ‘addestramento’ e ‘indottrinamento’ di presunti aspiranti terroristi: mentre l’addestramento può costituire attività sufficiente a dare materialità alla finalità di terrorismo, l’indottrinamento da solo rappresenta soltanto una “precondizione” per la costituzione di un'associazione effettivamente funzionale al compimento di atti terroristici.
La Suprema Corte si sofferma poi sul compendio probatorio valutato dai giudici di merito nell’addivenire alla condanna degli imputati. Nella pronuncia impugnata mancano – a detta dei giudici di legittimità – indicazioni veramente significative di una effettiva capacità del sodalizio di realizzare atti anche astrattamente definibili come terroristici in base al dettato dell’art. 270 sexies c.p. Al contrario, dalla decisione della Corte territoriale si evince che dalla data delle intercettazioni (2009) all’arresto degli imputati (2013), non risulta compito nessun atto terroristico riferibile all’associazione, neppure in forma minimale (ad es. partenza di taluno degli accoliti per le zone interessate dalla jihad). Segno questo, secondo la Corte, della “incapacità del gruppo di raggiungere un livello organizzativo tale da affrontare le contingenti e non certo imprevedibili difficoltà di un'attività terroristica di carattere internazionale”.
Alla luce di queste considerazioni, la Corte di cassazione esclude che la condotta degli imputati realizzi gli estremi del reato di cui all’art. 270 bis c.p.[4], lasciando però impregiudicata la possibilità che i loro comportamenti possano essere valutati ai fini della applicazione di una misura di prevenzione.
6. Nonostante sia stata accolta dall’opinione pubblica con più critiche che plausi, la pronuncia in esame si segnala positivamente – a nostro avviso – per restituire centralità al dolo specifico richiesto all’art. 270 bis c.p. e, in particolare, alla sua componente di carattere oggettivo. Già da tempo la pressoché unanime dottrina e la giurisprudenza della Suprema Corte segnalano che la finalità di terrorismo non si esaurisce nella mera condivisione di un’ideologia violenta o eversiva, ma richiede l’ulteriore prova dello svolgimento da parte della associazione di concrete attività preparatorie di atti terroristici o, almeno, dell’idoneità della struttura criminale al raggiungimento del programma criminoso. Rinunciare a tale requisiti rischierebbe, infatti, di dilatare i confini del reato di associazione di stampo terroristico fino a colpire situazioni di contiguità o di semplice “solidarietà” rispetto al fondamentalismo di matrice islamica, sfornite di una concreta attitudine lesiva dei beni giuridici tutelati.
In assenza della commissione di atti univocamente diretti alla realizzazione di azioni terroristiche o della prova di un collegamento tra il gruppo ed un’organizzazione terroristica internazionale o, ancora, di un addestramento degli accoliti, pare pertanto da condividere l’affermazione della Corte per cui il proselitismo del martirio islamico possa rappresentare soltanto un indice di pericolosità soggettiva degli imputati, che potrà eventualmente rilevare – qualora sussistano tutti i presupposti oggettivi – ai fini dell’applicazione di una delle misure di prevenzione previste dal d.lgs. 159/2011 (c.d. Codice Antimafia).
[1]http://bari.repubblica.it/cronaca/2016/11/14/news/terrorismo_islamico_la_cassazione_sulla_moschea_di_andria_indottrinare_al_martirio_non_e_reato_-151995200/
[2] Cass. pen., Sez. V, 14 luglio 2016 (dep. 14 novembre 2016), Hosni, n. 48001, RV. 268164, in commento.
[3] Espulso con provvedimento del Ministro dell’Interno in data 13 agosto 2016.
[4] La Suprema Corte annulla senza rinvio la sentenza impugnata relativamente al reato di cui all’art. 270 bis c.p. nei confronti degli imputati ricorrenti e, per l’effetto estensivo, nei confronti di Khairredine Romdhane Ben Chedli, perché il fatto non sussiste e rinvia ad altra Sezione della Corte d’Assise d’Appello di Bari per la rideterminazione della pena nei confronti di Hosni Hachemi Ben Hassen per il residuo reato di cui all’art. 3 co. 3 lett. b) l. n. 654 del 1975.