ISSN 2039-1676


18 novembre 2011 |

ThyssenKrupp, fu omicidio volontario: le motivazioni della Corte d'Assise

Corte d'Assise di Torino, 15 aprile 2011 (dep. 14 novembre 2011), Pres. Iannibelli, Est. Dezani, imp. Espenhahn e altri

 

Il 14 novembre 2011 sono state depositate le motivazioni della sentenza con la quale la Corte d'Assise di Torino ha condannato alcuni manager della ThyssenKrupp - e riconosciuto altresì la responsabilità amministrativa da reato della società ai sensi del d.lgs. 231/2001 - in relazione alla morte di sette operai, bruciati vivi da un incendio scoppiato, nella notte tra il 5 e il 6 dicembre 2007, all'interno delle acciaierie torinesi che la multinazionale gestiva fin dagli anni '90.

Il collegio giudicante, facendo propria l'impostazione accusatoria, ha condannato l'amministratore delegato di ThyssenKrupp Terni S.p.A. - Herald Espenhahn - a 16 anni e 6 mesi di reclusione, per i delitti di omicidio volontario plurimo (artt. 81 comma 1, 575 c.p.), incendio doloso (art. 423 c.p.), e omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro aggravata dall'evento (art. 437 comma 2 c.p.), avvinti dall'unicità del disegno criminoso.

Gli altri cinque imputati, amministratori e dirigenti dell'impresa, sono stati condannati anch'essi per il delitto di cui all'art. 437 comma 2 c.p., nonché per omicidio colposo plurimo (art. 589 commi 1, 2 e 3 c.p.) e incendio colposo (art. 449, in relazione all'art. 423 c.p.), questi ultimi entrambi aggravati dalla previsione dell'evento. Quanto alle sanzioni, a quattro di loro è stata inflitta la pena di tredici anni e sei mesi di reclusione, al quinto quella di dieci anni e dieci mesi.

La Corte d'Assise ha inoltre condannato la società ThyssenKrupp Terni S.p.A. per omicidio colposo ai sensi dell'art. 25 septies del d.lgs. 231/2001, infliggendole una sanzione pecuniaria pari ad un milione di euro, nonché disponendo, oltre alle sanzioni interdittive ed alla confisca del profitto del reato per una somma di 800 mila euro, la pubblicazione della sentenza sui quotidiani di diffusione nazionale La Stampa, il Corriere della Sera e La Repubblica.

Nelle cinquecento pagine di motivazioni - in calce alle quali il lettore troverà un indispensabile indice sommario - la sentenza esamina dettagliatamente l'incidente mortale verificatosi quattro anni fa alla Thyssen, nonché le scelte aziendali, scaturite dalla gestione degli imputati, che hanno condotto alla sua verificazione.

In estrema sintesi, la pronuncia mette in evidenza  come, almeno a partire dalla metà del 2006, nelle acciaierie Thyssen di Torino le condizioni della sicurezza sul lavoro in generale, e della sicurezza antincendio in particolare, fossero affette da gravissime carenze strutturali e organizzative, quali, a titolo esemplificativo, la mancanza del certificato di prevenzione incendi; la riduzione degli interventi di manutenzione e di pulizia sulle linee, con conseguenti perdite di olio dai tubi che cagionavano frequenti incendi di varie proporzioni; il mero affidamento alla "mano dell'uomo" delle operazioni di rilevazione e spegnimento incendi, senza peraltro dotare i lavoratori di indumenti ignifughi e adeguata formazione, ed al contempo riducendo progressivamente il numero dei dipendenti con le professionalità più qualificate.

Nel dibattimento - illustra la sentenza - è emerso come tale disastrosa situazione fosse il risultato di due precise scelte aziendali, portate avanti contemporaneamente dalla Thyssen: da un lato la decisione di trasferire gli impianti torinesi presso il polo produttivo di Terni, e dunque di dedicare alla nuova sede tutti gli interventi di fire prevention, evitando così "inutili investimenti";  dall'altro lato la scelta, pure improntata a logiche di profitto, di continuare il più a lungo possibile la produzione torinese, fino cioè alla definitiva chiusura dello stabilimento. Ciò spiega perché a Torino si continuasse a produrre in condizioni vieppiù degradate, ed in sempre maggiore deficit di sicurezza.

La sentenza illustra dettagliatamente in che modo "la decisione di non fare nulla" per la sicurezza dei lavoratori sia stata la causa dell'incidente letale, concretizzatosi in quello che gli esperti hanno definito un flash fire, ossia una nube incandescente provocata da un getto di liquido infiammato. Il profilo di maggior interesse della decisione - se non altro per il suo carattere di assoluta novità nel panorama della giurisprudenza penale in materia di sicurezza sul lavoro - concerne tuttavia l'accertamento del dolo eventuale di incendio ed omicidio in capo all'amministratore delegato di ThyssenKrupp Terni, con conseguente sua condanna ai sensi degli artt. 423 e 575 c.p.

Come accennato, infatti, i medesimi eventi lesivi - ossia l'incendio e le morti che ne sono derivate - vengono rimproverati agli imputati sulla base di diversi coefficienti psicologici: colpa cosciente, per cinque di loro; dolo eventuale, per l'amministratore delegato Espenhahn.

Tale esisto decisionale si fonda su una precisa ricostruzione teorica dei confini tra dolo eventuale e colpa cosciente, alla luce della quale la Corte d'Assise individua gli elementi di fatto che consentono di risalire all'atteggiamento psicologico degli imputati.

In punto di diritto, la "traccia" seguita dai giudici torinesi è costituita dalla recente sentenza della Corte di Cassazione n. 10411/2011 - relativa ad un caso di fuga spericolata sfociata in un incidente mortale - della quale la motivazione riporta un ampio stralcio.

Uno dei passaggi fondamentali citati è proprio quello in cui la Cassazione individua la differenza tra i due coefficienti psicologici in parola: "poiché la rappresentazione dell'intero fatto tipico come probabile o possibile è presente sia nel dolo eventuale che nella colpa cosciente, il criterio distintivo deve essere cercato sul piano della volizione. Mentre, infatti, nel dolo eventuale occorre che la realizzazione del fatto sia stata 'accettata' psicologicamente dal soggetto, nel senso che egli avrebbe agito anche se avesse avuto la certezza del verificarsi del fatto, nella colpa con previsione la rappresentazione come certa del determinarsi del fatto avrebbe trattenuto l'agente".

Tale distinzione - che evidentemente riecheggia la ben nota formula di Frank - viene ulteriormente precisata dalla Cassazione, nella medesima sentenza, attraverso una puntuale descrizione dei contenuti psicologici che contrassegnano i due diversi elementi soggettivi.

Versa in colpa cosciente, secondo i giudici di legittimità, colui che, "nel porre in essere la condotta nonostante la rappresentazione dell'evento, ne abbia escluso la possibilità di realizzazione, non volendo né accettando il rischio che quel risultato si verifichi, nella convinzione, o nella ragionevole speranza, di poterlo evitare per abilità personale o per intervento di altri fattori".

Ebbene, i giudici torinesi, nel far propria questa nozione di colpa cosciente, ritengono che la stessa ben si attagli alla mens rea dei cinque imputati amministratori e dirigenti di ThyssenKrupp. Essi, infatti, avevano "conoscenza piena e diretta della situazione di insicurezza, di abbandono e quindi di continuo rischio dello e nello stabilimento", e la Corte sottolinea come senz'altro si trattasse di "un quadro di conoscenza tale da prefigurare, da rappresentarsi, la concreta possibilità del verificarsi di un incendio e di un infortunio anche mortale [...] analogo a quello verificatosi". Tuttavia, evidenziano i giudici, è indubbio che "gli imputati sperassero [...] che non capitasse nulla", una speranza resa ragionevole - e come tale escludente il dolo eventuale - dalla loro "posizione aziendale, completamente dipendente da Terni [...] sotto il profilo gerarchico così come sotto il profilo tecnico": la sentenza ritiene, in altre parole, che gli imputati confidassero nell'intervento di fattori esterni schermanti il rischio, nella specie, "che le scelte e le decisioni dei dirigenti tecnici di Terni e dei vertici di TK AST [un'altra società del gruppo Thyssen, ndr] in qualche modo evitassero il verificarsi dell'evento previsto".

La conseguente condanna degli imputati ai sensi dell'art. 589 c.p., aggravato dalla previsione dell'evento, non è assorbita - precisano le motivazioni - dalla sussistenza degli estremi del reato d'evento di cui all'art. 437 comma 2: richiamando integralmente la sentenza della Cassazione n. 10048 del 1993, i giudici negano che tra le due norme si configuri in concorso apparente, dal momento che esse considerano distinte situazioni tipiche (la dolosa omissione con conseguente disastro non  voluto; la morte non voluta di una o più persone) e sono dirette a tutelare interessi differenti (la pubblica incolumità; la vita della persona), e dunque non regolano lo stesso fatto e la stessa materia ai sensi dell'art. 15 c.p.

Di tutt'altro genere sono le considerazioni svolte dalla Corte d'Assise con riferimento al coefficiente psicologico dell'amministratore delegato.

Anche qui la motivazione prende le mosse dal ricordato arresto della Cassazione, laddove afferma che "nel dolo eventuale il rischio deve essere accettato a seguito di una deliberazione con la quale l'agente subordina consapevolmente un determinato bene ad un altro". Più nel dettaglio, l'iter psicologico che conduce, secondo i Giudici Supremi, all'accettazione del rischio, si articola nei seguenti passaggi: l'autore del reato, anzitutto, "si prospetta chiaramente il fine da raggiungere e coglie la correlazione che può sussistere tra il soddisfacimento dell'interesse perseguito e il sacrificio di un bene diverso"; in secondo luogo, "effettua in via preventiva una valutazione comparata tra tutti gli interessi in gioco - il suo e quello altrui - e attribuisce prevalenza ad uno di essi"; il risultato è che "l'obiettivo intenzionalmente perseguito per il soddisfacimento di tale interesse preminente attrae l'evento collaterale, che viene dall'agente posto coscientemente in relazione con il conseguimento dello scopo perseguito".

È proprio sulla base di questo schema che la Corte d'Assise giunge ad affermare la sussistenza del dolo eventuale in capo all'imputato.

Infatti - si legge nella motivazione - la "scelta sciagurata" di condurre una "chiusura 'a scalare', continuando la produzione e contemporaneamente trasferendo via via gli impianti", fu "compiuta in prima persona proprio da Espenhahn". Fu lui a decidere, in altre parole, "non solo il completo azzeramento degli investimenti previsti, degli interventi necessari [...]; ma l'altrettanto completo azzeramento delle condizioni minime di sicurezza indispensabili per lavorare su impianti come quelli dello stabilimento di Torino".

Allo stesso tempo, considerando la preparazione e la competenza specifica di Espenhahn , nonché le pressioni ricevute da altre società del gruppo, presso le quali si erano già verificati incendi di allarmanti proporzioni, la Corte d'Assise non dubita che egli "certamente [...] si fosse rappresentato la concreta possibilità, la probabilità del verificarsi di un incendio, di un infortunio anche mortale", così cogliendo la correlazione tra le proprie scelte aziendali ed il pericolo di eventi collaterali, lesivi della vita e dell'incolumità dei dipendenti. Sulla scorta di tali premesse, i giudici concludono che egli abbia consapevolmente subordinato il bene della incolumità dei lavoratori a quello degli obiettivi economici aziendali, accettando così il rischio che il primo venisse irrimediabilmente sacrificato.

 

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