ISSN 2039-1676


10 dicembre 2011 |

D.lgs. n. 231 del 2001 e reati colposi nel caso ThyssenKrupp

Sulla responsabilità dell'ente per gli omicidi colposi con violazione delle norme sulla sicurezza del lavoro

Clicca qui per accedere alla sentenza della Corte di Assise di Torino, già pubblicata in questa Rivista con nota di Stefano Zirulia in merito alle responsabilità delle persone fisiche imputate.

 

Con la sentenza del 15 aprile 2011[1], la seconda Corte di Assise di Torino ha riconosciuto la responsabilità da reato della Thyssen Krupp Acciai Speciali Terni s.p.a. per il reato di cui all'art. 25-septies del D.lgs. n. 231/2001 (omicidio colposo e lesioni gravi o gravissime in violazione delle norme sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro).

La vicenda è tristemente nota. La notte tra il 5 e il 6 dicembre 2007, negli stabilimenti torinesi della Thyssen Krupp, scoppia un terribile incendio nel quale trovano la morte sette operai a causa delle gravissime ustioni riportate.

La Corte di Assise ha condannato l'amministratore delegato della società per i delitti di omicidio volontario plurimo, incendio doloso e omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro aggravata dall'evento.

Vengono condannati, inoltre, altri cinque soggetti appartenenti alla compagine sociale (in particolare si tratta di due membri del Comitato Esecutivo, del direttore della stabilimento di Torino, del direttore dell'area tecnica e servizi, del responsabile dell'area ecologia - ambiente - sicurezza) per i reati di omissione dolosa di cautele contro infortuni sul lavoro, incendio colposo e omicidio colposo plurimo. Proprio in relazione a quest'ultimo reato, commesso con  violazione dell'allora art. 4 del D.lgs. n. 626/94, che obbligava il datore di lavoro alla valutazione dei rischi per la salute e sicurezza dei lavoratori e alla redazione del relativo documento (obblighi oggi confluiti negli artt. 17 e 55 del D.lgs. n. 81/2008) la Corte ha riconosciuto la responsabilità della società ai sensi dell'art. 25-septies, comma primo, condannandola alla sanzione pecuniaria pari ad un milione di euro e disponendo le sanzioni interdittive della esclusione da agevolazioni, finanziamenti, contributi o sussidi e il divieto di pubblicizzare beni o servizi per la durata di 6 mesi, ai sensi dell'art. 9, comma primo, lett. d) ed e) del D.lgs. n. 231/2001. La Corte, inoltre, ha condannato la società alla confisca del profitto del reato per una somma di 800 mila euro e alla pubblicazione della sentenza sui quotidiani di diffusione nazionale La Stampa, il Corriere della Sera e la Repubblica.

La motivazione della sentenza, in merito alla responsabilità da reato colposo dell'ente ai sensi del D.lgs. n. 231/2001, affronta diversi aspetti che, alla luce di un dibattito ancora tutt'altro che sopito, meritano qualche breve riflessione.

 

1. Natura giuridica della responsabilità dell'ente e i dubbi sulla costituzionalità del D.lgs. n. 231/2001.

La sentenza, anzitutto, affronta il tema della natura giuridica della responsabilità dell'ente. La scelta di prendere posizione sull'ampio dibattito sviluppatosi sul punto non è fine a se stessa ma serve alla Corte per respingere agevolmente i dubbi di costituzionalità che la difesa solleva in merito D.lgs. n. 231/2001. I dubbi sollevati coinvolgono tre differenti aspetti del decreto.

La difesa, anzitutto, ritiene incostituzionali gli artt. 5, 6 e 7 del D.lgs., per violazione dell'art. 27 cost., dal momento che tali articoli determinerebbero una presunzione di colpevolezza in capo all'ente. Trattasi di una doglianza non nuova e che trova fondamento principalmente nell'art. 6 del D.lgs., il quale sembrerebbe far ricadere in capo alla difesa l'onere di provare la mancanza di colpa dell'ente (l'art. 6 del D.lgs. n. 231/2001 stabilisce infatti che "l'ente non risponde se prova che.."), almeno secondo una parte degli interpreti.

La difesa, inoltre, lamenta l'incostituzionalità degli artt. 6 e 7 del D.lgs. a causa della genericità con la quale viene descritto il contenuto dei modelli organizzativi, strumenti necessari per esonerare l'ente dall'addebito di responsabilità.

Viene denunciata, infine, "l'irragionevolezza complessiva del sistema sanzionatorio previsto dal D.Lgs 231/2OO1, che emergerebbe in particolare confrontando le sanzioni più contenute nei confronti dell'ente quando il reato commesso dalla persona fisica sia un grave delitto doloso - come, per esempio, la previsione dell'art. 25, per le ipotesi di concussione e di corruzione - a fronte di sanzioni più gravi per l'ente quando il reato commesso dalla persona fisica sia invece di natura (solo) colposa, come nel caso di specie secondo la previsione dell'art. 25-septies".

La Corte respinge tutte e tre le doglianze di costituzionalità sulla base di un unico argomento: la responsabilità dell'ente, ai sensi del D.lgs. n. 231/2001, ha natura senz'altro amministrativa. In particolare la sentenza, dopo aver richiamato gli ultimi arresti della Corte di Cassazione (in particolare le sentenze n. 3615/06, 26654/08 e 36083/09, orientate verso la tesi del tertium genus) sottolinea come "la volontà del legislatore, come traspare sia dalla legge delega sia dal decreto delegato, fosse quella di introdurre una nuova forma di responsabilità, tipica degli enti: di natura amministrativa, con garanzie procedurali che richiamano quelle processualpenalistiche, con sanzioni innovative in quanto non assimilabili né alle pene né alle misure di sicurezza".

Se questa è la natura della responsabilità dell'ente, secondo la Corte, allora ci si muove al di fuori del sistema penalistico e pertanto non si pongono problemi di conflitto con i principi di colpevolezza (e presunzione di innocenza), tassatività e ragionevolezza, come sopra evidenziati[2].

Pur non volendo richiamare in queste brevi riflessioni il dibattito che si è sviluppato intorno alla natura giuridica della responsabilità da reato degli enti[3], è però interessante verificare la tenuta costituzionale del sistema del D.lgs. n. 231/2001 muovendo dalla tesi che ne sostiene la natura autenticamente penale.

Sul punto il problema serio, con il quale confrontarsi, è proprio quello dell'inquadramento della complessa fattispecie di esonero contenuta nell'art. 6, comma primo, del D.lgs. n. 231/2001[4]. Questo articolo, infatti, sembra prevedere una vera e propria presunzione di colpa in capo all'ente, nella parte in cui richiede all'ente stesso di provare in giudizio di aver adottato tutte quelle misure organizzative e di prevenzione idonee ad evitare la commissione di reati della specie di quello verificatosi. In questi termini ciò che si rimprovera all'ente è di non aver  impedito la commissione del reato, secondo il modello concettuale della c.d. colpa d'organizzazione.

Così interpretata la norma, ed ammettendo la natura penale della responsabilità dell'ente, il conflitto con il principio di colpevolezza si mostra in tutta la sua evidenza.

Secondo una parte della dottrina[5], però, è tutto da dimostrare che l'art. 6 del D.lgs. n. 231/2001 disciplini il criterio di imputazione soggettiva dell'illecito dell'ente, con le inaccettabili ricadute in ordine all'onere della prova.

Secondo questa prospettiva, infatti, nell'ambito dei reati commessi dai soggetti apicali, i criteri di imputazione, oggettivi e soggettivi, della responsabilità dell'ente andrebbero tutti inquadrati all'interno dell'art. 5 del D.lgs. n. 231/2001, e quindi rimessi all'onere probatorio dell'accusa.

Il fulcro della tesi ruota intorno al diverso modello dell'immedesimazione organica. Valorizzando al massimo questo modello, infatti, deve ritenersi che il comportamento colpevole del soggetto apicale (tenuto nell'interesse o a vantaggio dell'ente) non può non fondare anche la colpevolezza dell'ente. In altri termini, l'ente si identifica completamente nel soggetto apicale che ha agito, non solo dal punto di vista del comportamento materiale, ma anche rispetto all'atteggiamento psicologico. Questa lettura del sistema consente di imputare all'ente una responsabilità diretta per il reato commesso dall'apicale, responsabilità il cui accertamento è già completo sulla base dei presupposti richiesti dall'art. 5[6].

Sottratti, in questi termini, i criteri di imputazione soggettiva all'art. 6 del D.lgs. n. 231/2001, per poter superare del tutto il problema della conformità a costituzione del sistema, occorre ovviamente individuare la vera funzione svolta dalla norma.

Parte della dottrina, in effetti, anziché rinvenire nell'art. 6 un'ipotesi di colpa presunta dell'ente, vede nella stessa norma una scusante[7] o, secondo altra tesi forse più convincente, una causa di non punibilità[8]. Entrambe le categorie, non rientrando tra gli elementi costitutivi dell'illecito penale, ben potrebbero formare oggetto dell'onere probatorio della difesa. In altri termini il legislatore, in forza di una visione spiccatamente garantista della posizione dell'ente rispetto ai suoi organi, avrebbe introdotto con l'art. 6 un ulteriore elemento, aggiuntivo e non costitutivo della responsabilità ed in questo senso rimesso all'onere probatorio dell'ente. 

Questa conclusione, però, non convince altra parte della dottrina secondo la quale, pur volendo inquadrare l'art. 6 in termini di scusante o causa di non punibilità, resterebbero comunque immutati i dubbi sulla legittimità costituzionale della norma[9].

Diverso il discorso per gli illeciti commessi dai soggetti subordinati di cui all'art. 5 comma 1 lett. b), ma in questa ipotesi, operando chiaramente il modello della colpa d'organizzazione,  l'art. 7 del D.lgs. n. 231/2001 non prevede alcuna inversione dell'onere probatorio.

 

2. Ampliamento della parte speciale del D.lgs. n. 231/2001 ai reati colposi e compatibilità con i criteri di imputazione dell'"interesse" e del "vantaggio" dell'ente

Chiarito il problema della natura giuridica della responsabilità dell'ente, e quindi superati i dubbi sulla costituzionalità del sistema del D.lgs. n. 231/2001, la Corte passa ad analizzare i criteri di imputazione della responsabilità all'ente.

La sentenza evidenzia anzitutto come, nonostante l'iniziale approccio minimalista del legislatore delegato, già l'art. 11 della legge delega n. 300/2000 avesse previsto, tra i reati presupposto della responsabilità amministrativa degli enti, le ipotesi di omicidio colposo e lesioni personali colpose realizzate in violazione delle norme in materia di infortuni sul lavoro. La Corte, pertanto, sottolinea come il successivo ampliamento della parte speciale del D.lgs. n. 231/2001 a tali reati (con l'introduzione nel 2007 dell'art. 25-septies) deve essere letto come il completamento di un quadro legislativo unico ed armonico, e non invece "come corpo estraneo successivamente aggiunto".

Con queste preliminari riflessioni la Corte vuole fugare immediatamente qualsiasi dubbio sulla compatibilità dei reati presupposto colposi con i criteri di imputazione dettati dagli artt. 5 e seguenti del D.lgs. n. 231/2001.

Fatte queste premesse la sentenza procede con la ricostruzione della responsabilità dell'ente partendo, anzitutto, dall'individuazione della categoria di soggetti che viene in gioco nel caso di specie (individuando l'art. 5 del D.lgs. un diverso regime a seconda che si tratti di apicali o subordinati). La Corte, avendo riconosciuto la responsabilità per il reato di cui all'art. 589 comma secondo c.p., tra gli altri, di due consiglieri del C.d.A. nonché membri del Comitato Esecutivo della società, può facilmente qualificare tali soggetti come "persone che rivestono funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell'ente o di una sua unità organizzativa dotata di autonomia finanziaria e funzionale" ai sensi dell'art. 5, comma primo, lett. a) del D.lgs. n. 231/2001.

Individuata la categoria di soggetti responsabili per i reati commessi, la sentenza passa ad analizzare il punto cruciale del giudizio di imputazione della responsabilità dell'ente, ovvero l'interesse o vantaggio sotteso alla commissione del reato. In particolare l'interrogativo al quale bisogna rispondere, che diventa particolarmente problematico nel caso di omicidio colposo o lesioni gravi o gravissime in violazione delle norme sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro, è se la commissione di tali reati possa rispondere ad un qualche interesse o vantaggio dell'ente.

Sul punto la Corte non ha dubbi evidenziando che "le gravissime violazioni della normativa antinfortunistica ed antincendio, le colpevoli omissioni, sono caratterizzate da un contenuto economico rispetto al quale l'azienda non solo aveva interesse, ma se ne è anche sicuramente avvantaggiata, sotto il profilo del considerevole risparmio economico che ha tratto omettendo qualsiasi intervento nello stabilimento di Torino [..]".

Come risulta dal passaggio sopra riportato, la Corte accoglie l'interpretazione che ritiene di dover ricollegare, nel caso di reati presupposto colposi, all'interesse o vantaggio dell'ente, non il reato nel suo insieme di condotta ed evento, ma solo la condotta penalmente rilevante. Questo orientamento giurisprudenziale si fonda sulla semplice constatazione che, nel caso di omicidio colposo o lesioni personali colpose in violazione delle norme sulla sicurezza dei lavoratori, l'evento lesivo (ovvero la morte o la lesione) non potrebbe mai rispondere ad un interesse o vantaggio dell'ente, e pertanto l'art. 25-septies non potrebbe mai trovare applicazione. Per evitare la sostanziale abrogazione dell'articolo appena citato non può farsi altro che interpretare riduttivamente l'art. 5 nella parte in cui stabilisce che "L'ente è responsabile per i reati commessi nel suo interesse o a suo vantaggio"[10].

Sul punto la sentenza non indugia chiarendo espressamente che "quanto appena esposto, consistente nel collegare il requisito dell'interesse o del vantaggio dell'ente non all'evento bensì alla condotta penalmente rilevante della persona fisica corrisponda ad una corretta applicazione della norma ai reati colposi, in particolare a quello di cui all'art. 589 2° comma c.p.; ricordando qui come la responsabilità dell'ente anche per questo reato - logicamente collegato proprio all'organizzazione aziendale - fosse stata, sin dall'origine considerata dalla legge delega".

Altro aspetto centrale della tesi fatta propria dalla sentenza è dato dal rilievo praticamente esclusivo che assume il criterio del vantaggio sotto forma di risparmio di spesa[11]. Nel caso di reati presupposto colposi, secondo questa tesi, il criterio dell'interesse non potrebbe giocare alcun ruolo.

Anche su questo punto occorre svolgere qualche breve riflessione.

Il presupposto dal quale muove la tesi abbracciata dalla Corte consiste nell'interpretare i concetti di interesse e vantaggio come criteri del tutto distinti ed autonomi, come in effetti suggerisce il dato testuale, ed attribuendo al primo natura soggettiva. Sul punto la stessa Relazione governativa di accompagnamento al D.lgs. n. 231/2001 afferma che "l'interesse dell'ente caratterizza in senso marcatamente soggettivo la condotta delittuosa della persona fisica e che "si accontenta" di una verifica ex ante; viceversa, il vantaggio, che può essere tratto dall'ente anche quando la persona fisica non abbia agito nel suo interesse, richiede sempre una verifica ex post".

I due criteri, pertanto, sarebbero distinti ed eventualmente anche alternativi (ci potrà essere, pertanto, interesse senza vantaggio e viceversa).

Alla luce di tale interpretazione si comprende chiaramente perché, nel caso di reati colposi, l'unico criterio che può venire in gioco è quello del vantaggio. L'interesse, infatti, letto come intenzione dell'agente di favorire l'ente, si scontra inevitabilmente con l'elemento psicologico della colpa.

L'impostazione appena esposta non è condivisa da una parte della dottrina per diversi ordini di ragioni. Sul piano pratico, anzitutto, interpretare nel senso sopra esposto il criterio dell'interesse o vantaggio può determinare risultati scarsamente selettivi, se non del tutto inaccettabili. Isolando l'interesse, infatti, si finisce per radicare l'imputazione anche solo sull'intima convinzione della persona fisica di avvantaggiare l'ente, a prescindere dall'oggettiva idoneità della condotta a curare l'organizzazione. Isolando il vantaggio, invece, si rischia di rendere l'ente responsabile a causa delle mere ricadute vantaggiose della condotta, anche se del tutto contingenti[12].

Sul piano normativo, inoltre, la tesi in commento si scontra con il chiaro tenore letterale dell'art. 5, comma secondo, il quale stabilisce che "L'ente non risponde se le persone indicate nel comma 1 hanno agito nell'interesse esclusivo proprio o di terzi" e dell'art. 12, comma primo lett. a), il quale prevede una circostanza attenuante nel caso in cui "l'autore del reato ha commesso il fatto nel prevalente interesse proprio o di terzi e l'ente non ne ha ricavato vantaggio o ne ha ricavato un vantaggio minimo". Dalle norme si trae la logica conseguenza che, in fondo, il vero criterio imprescindibile per l'imputazione della responsabilità all'ente sia l'interesse, e non anche il vantaggio, o che comunque questo non possa essere seriamente alternativo al primo. Per questo motivo parte della dottrina preferisce leggere nei termini "interesse o vantaggio" un unico criterio di imputazione[13].

A questo punto l'attenzione deve essere rivolta alla natura di tale criterio. E' ammissibile un'interpretazione in termini soggettivi, come mera volontà di avvantaggiare l'ente? La risposta non può che essere negativa, e per diversi motivi.

Dare rilievo esclusivo all'atteggiamento interiore dell'agente su un aspetto tanto delicato, come lo sono i criteri di imputazione della responsabilità, è certamente scelta poco convincente.

Oltretutto una scelta di questo tipo, e qui emerge il profilo che interessa in questa sede, rende inapplicabile il criterio dettato dall'art. 5 del D.lgs. ai reati presupposto colposi, risultato che non rispecchia certamente la volontà del legislatore, come evidenziato anche dalla sentenza in commento. Dal momento che i criteri di imputazione devono operare nei confronti di tutte le figure di reati presupposto, infatti, è necessario allora individuare l'interpretazione che meglio si concilia anche con i reati colposi.

Questa lettura dell'art. 5, infine, entra in conflitto pure con l'art. 8 dello stesso D.lgs., ovvero con la possibilità di rinvenire la responsabilità dell'ente pur senza aver individuato l'agente individuale, e quindi evidentemente, senza poterne ricostruire l'intenzione.

Per queste ragioni si può fondatamente ricostruire il criterio di imputazione individuato dall'art. 5 in termini del tutto oggettivi, cioè come assolvimento, da parte del soggetto qualificato, di attività funzionali all'organizzazione, o meglio, di compiti istituzionali propri dell'ente di appartenenza.

Il reato commesso dal soggetto apicale nell'esercizio delle proprie funzioni, pertanto, deve considerarsi realizzato nell'interesse dell'ente di cui il soggetto fa parte. 

Nei reati colposi, in particolare, la connessione tra reato e funzioni apicali emerge in termini ancora più chiari focalizzando l'attenzione sui soggetti che, in ultima analisi, sono destinatari delle norme cautelari violate. Queste ultime, infatti, sono norme dettate per eliminare, o ridurre, i rischi derivanti dall'attività d'impresa e pertanto si rivolgono a chi esercita l'impresa. Se l'impresa ha forma collettiva, allora, sarà l'ente il destinatario primario di tali norme.

Su queste basi può concludersi, quindi, che il reato commesso dal soggetto apicale, nell'esercizio delle funzioni e violando le norme in materia di tutela della salute e della sicurezza sul lavoro, non può che essere reato commesso nell'interesse dell'ente[14].

L'interpretazione proposta consente di superare gli aspetti meno convincenti della tesi fatta propria anche dalla decisione in commento, ovvero la necessità di limitare l'interesse dell'ente alla sola condotta dell'agente e l'esigenza di ricercare sempre un risparmio di spesa, tutt'altro che scontato.

 

3. Mancata adozione del modello organizzativo ed elusione fraudolenta.

Ultimo passaggio affrontato dalla Corte per concludere il giudizio di responsabilità dell'ente è quello volto alla verifica della sussistenza del modello organizzativo volto a prevenire reati della specie di quello verificatosi. Sul punto la sentenza ha buon gioco nel dimostrare che la complessa fattispecie di esonero prevista dall'art. 6 non può trovare applicazione dal momento che l'ente non ha adottato il modello organizzativo. Sul punto testualmente: "Nel caso di specie il richiesto "modello di organizzazione e di gestione" idoneo a "prevenire reati della stessa specie di quello verificatosi", cioè il reato di cui all'art. 589 2° comma c.p., non era stato da Thyssen Krupp AST s.p.a. neppure adottato al 06/12/2OO7. Il dato è incontestabile in quanto emerge documentalmente: solo durante il Consiglio di Amministrazione del 21/12/2OO7 erano state approvate le modifiche del preesistente "modello organizzativo" aggiungendovi le parti relative proprio all'omicidio colposo aggravato dalla violazione delle norme antinfortunistiche".

La mancata adozione del modello, da parte dell'ente, consente alla Corte di non confrontarsi con altra questione particolarmente problematica, ovvero la compatibilità dei reati presupposto colposi con la fraudolenta elusione dei modelli organizzativi da parte dell'agente, richiesta dall'art. 6, comma primo lett. c). Risulta evidente, infatti, che la condotta fraudolenta richiesta all'agente nell'eludere il modello organizzativo risulta antitetica rispetto all'atteggiamento colposo necessario per la commissione dei reati di cui agli artt. 589 e 590 c.p.[15].

L'incongruenza a cui si presta il sistema del D.lgs. n. 231/2001 emerge ancora più chiaramente se si presta attenzione allo stretto legame sussistente tra il contenuto dei modelli organizzativi e le norme cautelari antinfortunistiche, come dimostra chiaramente l'art. 30 del D.lgs. n. 81/2008. Con questa norma, infatti, il legislatore indica all'ente gli obblighi, le precauzioni e le procedure da seguire per la predisposizione di un modello organizzativo realmente idoneo allo scopo precauzionale, attingendo a piene mani alle regole cautelari elaborate dalla scienza e dalla tecnica e fatte proprie dallo stesso D.lgs. n. 81/2008[16]. La fraudolenta elusione dei modelli organizzativi da parte del soggetto apicale, pertanto, difficilmente potrà non comportare anche l'intenzionale violazione delle norme cautelari dettate dalla legislazione di settore, con le evidenti ripercussioni in ordine all'elemento psicologico del reato.

Sul punto il dibattito è ancora apertissimo e propone diverse alternative.

Si può, anzitutto, optare per l'interpretazione che esclude dall'ambito di applicazione dell'art. 6 i reati colposi. Questa soluzione, però, per essere accolta dovrebbe fondarsi su solidissimi argomenti normativi, che nella specie sembrano mancare, dal momento che limita l'applicazione di un istituto di favore per l'ente. 

Altra possibilità è quella di considerare l'art. 6 solo parzialmente applicabile. Nel caso di reati colposi, pertanto, l'ente potrebbe usufruire dell'esonero dimostrando esclusivamente di aver adempiuto alle condizioni previste dall'art. 6, comma primo lett. a), b) e d) (cioè di aver adottato ed efficacemente attuato il modello organizzativo, di aver istituito l'apposito organismo di vigilanza, di non esserci stata omessa o insufficiente vigilanza da parte dell'organismo stesso).

Ultima ipotesi di lettura propone di interpretare il termine fraudolentemente come volontariamente[17]. Tesi questa che sostanzialmente si allinea con quella, sopra riferita, che tende a non far operare il requisito della fraudolenta elusione dei modelli organizzativi nel caso di reati presupposto colposi.

Premessa l'ovvia considerazione che l'unica risposta veramente efficace al problema potrebbe offrirla solo il legislatore[18], nell'alternativa tra il non considerare operante la fattispecie di cui all'art. 6 e il considerarla, invece, solo parzialmente applicabile, è preferibile quest'ultima opzione perché consente di non frustrare le finalità di prevenzione insite nell'adozione, ante factum, dei modelli organizzativi. E questo sopratutto in un settore, come quello antinfortunistico, dove solo la prevenzione può arginare il fenomeno, ancora tristemente dilagante, degli infortuni sul lavoro.


[1]  Per un'analisi delle motivazioni in punto di responsabilità dell'amministratore delegato e degli altri dirigenti, Stefano  Zirulia, ThyssenKrupp, fu omicidio volontario: le motivazioni della Corte d'Assise, in archiviodpc.dirittopenaleuomo.org.

[2]  In particolare con riferimento alla ragionevolezza del sistema sanzionatorio la Corte chiarisce che "le sanzioni non sono di natura penale; aggiungendo che proprio il criterio seguito dal legislatore nel determinare le sanzioni a carico dell'ente ne disvelano la diversa natura e, in forza di questa, l'intrinseca "ragionevolezza" nel parametrarle diversamente rispetto alle pene previste per la persona fisica".

[3]  Il D.lgs. n. 231/2001 in diversi articoli sottolinea e ribadisce che il nuovo illecito dipendente da reato ha natura amministrativa (artt. 1, 2 e 3). Le norme del decreto, però, non hanno impedito l'articolarsi di un complesso e vivace dibattito sulla natura giuridica di tale responsabilità. Occorre allora chiedersi perché gli interpreti non hanno ritenuto vincolante la scelta effettuata esplicitamente dal legislatore. Per dare risposta a tale domanda occorre guardare l'essenza stessa della definizione dettata dal legislatore. Quest'ultima, infatti, scorrendo le norme del D.lgs. n. 231/2001, appare del tutto scollegata dalla struttura e dalla disciplina del nuovo istituto. Le norme che definiscono la responsabilità dell'ente come amministrativa risultano neutre rispetto alla disciplina, o meglio, non precettive. In altri termini il legislatore ha utilizzato "un'etichetta carica di significati simbolici" ma non vincolante per l'interprete. Sul punto Pulitanò, responsabilità da "reato" degli enti: criteri di imputazione, in Riv. Dir. e Proc. Penale 2002 pag. 417.

[4]  L'art. 6, comma primo, del D.lgs. n. 231/2001 dispone che "Se il reato é stato commesso dalle persone indicate nell'articolo 5, comma 1, lettera a), l'ente non risponde se prova che: a) l'organo dirigente ha adottato ed efficacemente attuato, prima della commissione del fatto, modelli di organizzazione e di gestione idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi; b) il compito di vigilare sul funzionamento e l'osservanza dei modelli di curare il loro aggiornamento é stato affidato a un organismo dell'ente dotato di autonomi poteri di iniziativa e di controllo; c) le persone hanno commesso il reato eludendo fraudolentemente i modelli di organizzazione e di gestione; d) non vi é stata omessa o insufficiente vigilanza da parte dell'organismo di cui alla lettera b)".

[5]  De Vero, la responsabilità penale delle persone giuridiche, in Trattato di diritto penale pag. 179, Giuffré Editore 2008.

[6]  Questa ricostruzione risulta anche la più aderente al testo dell'art. 11 lett. e) della legge delega n. 300/2000, dal quale, invece, si è voluto parzialmente distaccare il legislatore delegato con l'introduzione della complessa  fattispecie contenuta nell'art. 6.

[7]  Per la tesi della scusante De Vero, op. cit. pag., 180, il quale sostiene che l'art. 6 descrive "una causa di esclusione di quella colpevolezza in senso normativo, che il legislatore delegato ha ritenuto in via di principio di accreditare all'ente collettivo già in sede di reati commessi dal management".

[8]  Per la tesi della causa di non punibilità Pulitanò, op. cit., pag. 428: "Ciò trova conferma nelle conseguenze che l'art. 6 riconnette alla fattispecie che abbiamo definito di esonero. L'esonero non è totale, non essendo esclusa la confisca. La fattispecie incide sulla sanzione, non sulla responsabilità. Ragionando secondo le categorie della teoria del reato, non siamo nella sfera delle scusanti soggettive, ma in quella residuale della punibilità"

[9]  Secondo questa tesi, infatti, alla luce del principio della presunzione di innocenza, non si potrebbe rimettere in capo all'imputato l'onere di provare la sussistenza di cause esimenti di qualsivoglia natura. Il dubbio sulla loro esistenza, pertanto, non può che ricadere a discapito dell'accusa determinando un esito assolutorio (come disposto dall'art. 530 comma terzo del c.p.p.). Sui profili problematici, e ancora aperti, relativi alla natura e alla struttura della responsabilità degli enti, Viganò, I problemi sul tappeto a dieci anni dal D.lgs. 231/2001, su Il libro dell'anno 2011 Treccani, in corso di pubblicazione.

[10]       Sul punto si sono così espresse le poche sentenze di merito che hanno affrontato la questione: Trib. Trani, sez. Molfetta, 11 gennaio 2010; G.i.p. Trib. Novara, 26 ottobre 2010; G.i.p. Tribunale di Pinerolo, 23 settembre 2010; G.U.P. Tribunale di Cagliari, sent. 4 luglio 2011.

[11]       Risparmio di spesa che la Corte valuta in 800 mila euro come somma "indicata per la - prima e non definitiva - messa in sicurezza della linea 5 dello stabilimento di Torino".

[12]       Sul punto Selvaggi, L'interesse dell'ente collettivo quale criterio di ascrizione della responsabilità da reato, pag. 23, Jovene Editore 2006.

[13]       Per questa interpretazione De Vero, op. cit. pag., 158, Pulitanò, op. cit., pag. 425.

[14]       In questi termini anche Epidendio e Piffer, criteri di imputazione del reato all'ente: nuove prospettive interpretative, in La resp. amm. delle società e degli enti, 2008, pag 7.

[15]       In questo senso G.U.P. Tribunale di Cagliari, sent. 4 luglio 2011: "Per quanto riguarda l'art. 6, il termine "fraudolentemente" implica una volontà di inganno che non si vede come possa essere compatibile con una responsabilità colposa".

[16]       L'art. 30, comma primo del D.lgs. n. 81/2008 prevede che "Il modello di organizzazione e di gestione idoneo ad avere efficacia esimente della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, [..] di cui al Decreto Legislativo 8 giugno 2001, n. 231, deve essere adottato ed efficacemente attuato, assicurando un sistema aziendale per l'adempimento di tutti gli obblighi giuridici relativi: a) al rispetto degli standard tecnico-strutturali di legge relativi a attrezzature, impianti, luoghi di lavoro, agenti chimici, fisici e biologici; b) alle attività di valutazione dei rischi e di predisposizione delle misure di prevenzione e protezione conseguenti; c) alle attività di natura organizzativa, quali emergenze, primo soccorso, gestione degli appalti, riunioni periodiche di sicurezza, consultazioni dei rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza; d) alle attività di sorveglianza sanitaria; e) alle attività di informazione e formazione dei lavoratori; f) alle attività di vigilanza con riferimento al rispetto delle procedure e delle istruzioni di lavoro in sicurezza da parte dei lavoratori; g) alla acquisizione di documentazioni e certificazioni obbligatorie di legge; h) alle periodiche verifiche dell'applicazione e dell'efficacia delle procedure adottate".

[17]       Tesi proposta dal G.U.P. di Cagliari nella sentenza sopra citata.

[18]       Proprio per risolvere il problema evidenziato nel testo, la Commissione di riforma del D.lgs. n. 231/2001, c.d. "Commissione Greco", ha proposto di escludere la fraudolenta elusione dei modelli organizzativi dalle condizioni richieste per l'operatività della fattispecie di cui all'art. 6 nel caso di reati colposi.