ISSN 2039-1676


03 giugno 2013 |

ThyssenKrupp: confermate in appello le condanne, ma il dolo eventuale non regge

Corte d'Assise d'appello di Torino, 28 febbraio 2013 (dep. 23 maggio 2013), Pres. Sandrelli, Est. Perrone, imp. Espenhahn e altri

1. Uno sguardo d'insieme

Il 28 febbraio 2013 si è concluso il processo di secondo grado a carico dei sei manager delle acciaierie ThyssenKrupp accusati di aver cagionato la morte degli operai rimasti coinvolti nel tragico incendio del dicembre 2007. Qualche giorno fa sono state depositate le motivazioni della pronuncia, che ora pubblichiamo dando al contempo conto dei loro snodi fondamentali.

La Corte d'Assise d'appello ha confermato, nel complesso, l'impianto della pronuncia di primo grado (clicca qui per accedere alla sentenza e alla scheda relativa). Al contempo, tuttavia, ha significativamente ridotto le pene a carico di tutti gli imputati e - soprattutto - ha rovesciato il verdetto dei giudici di prime cure quanto alla sussistenza del dolo eventuale in capo all'amministratore delegato Espenhahn.

La questione dell'elemento soggettivo di Espenhahn rappresenta senz'altro uno degli aspetti più controversi dell'intera vicenda: la scelta accusatoria di contestare il dolo eventuale ha comportato la formulazione di autonomi capi di imputazione per Espenhahn, chiamato a rispondere - oltre che, al pari degli altri coimputati, di omissione dolosa di cautele antinfortunistiche (art. 437 co. 1 e 2 c.p.) - di omicidio volontario (art. 575 c.p.) e di incendio doloso (art. 423 c.p.); ha determinato il radicamento della competenza in capo alla Corte d'Assise; è sfociata nell'eccezionale severità - rispetto alla normale dosimetria sanzionatoria che caratterizza il settore della sicurezza sul lavoro - della pena detentiva applicata dai giudici di prime cure nei suoi confronti, pari a sedici anni e sei mesi di reclusione.

La tesi del dolo eventuale, tuttavia, non ha retto al vaglio della Corte d'appello, la quale ha derubricato le imputazioni a carico dell'amministratore delegato nelle corrispondenti fattispecie colpose contro la persona e contro l'incolumità pubblica, applicando al contempo l'aggravante della previsione dell'evento ex art. 61 n. 3 c.p. In questo modo la posizione di Espenhahn è stata completamente allineata a quella degli altri cinque imputati, accusati sin dal principio di omicidio colposo plurimo (art. 589 c.p.), incendio colposo (art. 449 c.p., in relazione all'art. 423 c.p.), entrambi commessi con colpa cosciente; nonché di omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro, aggravata dalla verificazione di entrambi gli eventi di disastro e infortunio (art. 437 commi 1 e 2 c.p.). All'esito del giudizio la Corte d'appello ha ritenuto sussistenti, in capo a tutti gli imputati, gli elementi costitutivi delle indicate norme incriminatrici, regolando poi i rapporti tra le stesse come segue: la fattispecie di incendio è stata ritenuta assorbita, in forza del principio di specialità, in quella di omissione di cautele aggravata dal disastro; viceversa, tra l'omissione di cautele aggravata dagli infortuni e l'omicidio colposo non è stato riscontrato alcun concorso apparente di norme, bensì un concorso formale di reati, attesa l'unitarietà del complesso di condotte che li hanno integrati.  

Le pene, all'esito del giudizio d'appello, sono state così rideterminate: dieci anni di reclusione per l'a.d. Espenhahn (invece che i sedici anni e sei mesi applicati in primo grado); pene comprese tra i sette e i nove anni di reclusione per gli altri imputati (invece che quelle comprese tra i dieci anni e sei mesi ed i tredici anni e sei mesi applicate in primo grado).

La sentenza, infine, ha confermato le statuizioni dei giudici di prime cure in merito alla responsabilità da reato della ThyssenKrupp italiana ai sensi dell'art. 25-septies del d.lgs. n. 231/2001, che come è noto ha introdotto nel catalogo degli illeciti penali rimproverabili all'ente anche le fattispecie di omicidio e lesioni colpose commesse con violazione della disciplina antinfortunistica.

Nel prosieguo verranno passati in rassegna gli snodi essenziali della motivazione, indicando di volta in volta le pagine rilevanti, in modo da consentirne una più rapida consultazione da parte del lettore.

 

2. L'ordine di accertamento degli elementi fondanti la responsabilità degli imputati (pp. 24 ss.; 227 ss.)

I difensori degli imputati sostenevano che la sentenza di primo grado avesse invertito l'ordine logico di accertamento degli antecedenti causali che determinarono i tragici eventi, soffermandosi dapprima sulle loro cause remote - rappresentate dalle asserite scelte aziendali di progressiva dismissione degli impianti torinesi e di parallela omessa adozione delle misure cautelari antincendio - e solo successivamente sulle loro cause dirette, vale a dire sulla ricostruzione della concreta dinamica dei fatti che condussero all'incendio ed alla morte dei lavoratori.

Questo approccio al tema della causalità - secondo i difensori - avrebbe condotto i giudici di prime cure ad appiattire l'indagine eziologica sulla sola posizione degli imputati, trascurando al contempo di indagare a fondo le condotte tenute dagli stessi operai vittime dell'incendio: condotte che - questo il cuore della censura difensiva - furono a ben vedere «causalmente determinanti e connotate da vari profili di negligenza e imprudenza». In definitiva - sostengono gli appellanti - «se invece il Giudice avesse preliminarmente constatato le caratteristiche di tali condotte, egli avrebbe dovuto concludere che non poteva sussistere più alcun legame causale fra gli eventi luttuosi e le eventuali cause remote (teoricamente addebitabili agli imputati) e che, comunque e sicuramente, gli eventi così come si erano verificati non erano stati per loro né prevedibili né tantomeno previsti».

La censura viene respinta dalla sentenza d'appello.

Quanto al problema dell'ordine di accertamento degli antecedenti causali, i giudici del gravame evidenziano come la verifica avente ad oggetto la rilevanza delle condotte degli operai «quale causa di interruzione (ex art. 41.2 c.p.) del nesso di causalità già ricostruito fra le condotte addebitate agli imputati e gli eventi, ovvero come concausa talmente imprevedibile da far venir meno l'elemento psicologico dei reati (ex art. 43.1 e 3 c.p.) contestati agli imputati» debba necessariamente seguire - giacché la presuppone - alla verifica circa la sussistenza dei presupposti oggettivi e soggettivi della responsabilità penale degli imputati.

Tali presupposti vengono così compendiati dalla Corte d'Assise d'appello: «innanzitutto [è necessario] verificare se ognuno degli imputati era gravato di una posizione di garanzia. Solo dopo tale passaggio sarà infatti possibile procedere, in ossequio al principio di colpevolezza, all'individuazione di una regola cautelare (generica o specifica) fra quelle contestate ai garanti che abbia un nesso causale con l'evento dannoso anche solo nella forma di apprezzabili, significative, probabilità di scongiurare il danno (cd. concretizzazione del rischio); in seguito si discuterà se ogni garante si sia reso autore di una di tali violazioni e se nei confronti di ognuno di loro sia formulabile un giudizio di rimproverabilità soggettiva della condotta, sotto la forma della prevedibilità ed evitabilità dell'evento dannoso che la regola cautelare violata mirava a prevenire. Il passaggio finale, proprio di questo processo, sarà poi quello di verificare se in capo ad ogni garante sia stata provata la previsione degli eventi dannosi».

Prima di effettuare la serie di verifiche appena elencate, peraltro, i giudici d'appello si soffermano -  «accogliendo lo stimolo proveniente dalle difese» - sulla ricostruzione delle cause materiali e dirette che determinarono l'incendio.

 

3. Le cause dirette dell'incendio e della morte degli operai (pp. 24 ss.; 227 ss).

La concatenazione causale che, sul piano squisitamente materiale e fenomenico, condusse alla verificazione del flash fire in cui le vittime rimasero tragicamente avviluppate, risulta nelle sue linee essenziali oggetto di una ricostruzione incontrastata dalle parti processuali.

In estrema sintesi, fu lo sfregamento tra due elementi metallici - il nastro di acciaio che in quel momento era in lavorazione e l'impianto sul quale il nastro stesso avanzava - a determinare la formazione di scintille. Queste ultime, entrando in contatto con alcuni residui di carta imbevuta di olio che non erano stati rimossi, diedero origine alle prime fiamme, subito alimentate da ulteriori residui di carta e olio presenti nei pressi della macchina. Il fuoco raggiunse immediatamente un tubo di gomma rinforzata all'interno del quale scorreva olio infiammabile ad altissima pressione: il collasso del tubo determinò la fuoriuscita di una nube di olio incendiato - il cosiddetto flash fire - che in un attimo trasformò la stanza in un rogo e travolse i lavoratori - cagionando la morte di sette di loro e lesioni personali ad altri tre -, nel frattempo accorsi con gli estintori per sedare quelle che - fino a pochi istanti prima - erano solo piccole fiamme.

 

4. Le posizioni di garanzia (pp. 233 ss.)

I sei imputati vengono a vario titolo ritenuti responsabili della sicurezza sul lavoro per gli stabilimenti torinesi di Thyssen, sulla scorta di argomentazioni che costituiscono l'applicazione di consolidati principi giurisprudenziali in materia di posizione di garanzia e deleghe e che confermano le statuizioni già contenute nella sentenza di primo grado.

In particolare, l'a.d. Espenhahn viene individuato come il titolare della delega in materia di sicurezza sul lavoro. Inoltre, e più in radice, i giudici d'appello ritengono che le sue scelte di politica aziendale - ed in particolare la decisione di destinare agli stabilimenti di Terni i fondi stanziati per Torino - debbano essere qualificate come condotte commissive: soluzione che - sempre ad avviso della Corte d'appello - svuota di importanza il tema della posizione di garanzia, il criterio di imputazione degli eventi lesivi non essendo più quello giuridico disegnato dalla clausola di equivalenza ex art. 40 co. 2 c.p., bensì quello naturalistico della causalità.

Il secondo ed il terzo imputato erano anch'essi consiglieri delegati, ma non nella materia della sicurezza sul lavoro: le indagini condotte circa i loro poteri di gestione e di spesa, tuttavia, hanno consentito di riconoscere anche in capo ad essi la qualifica di datori di lavoro e di garanti della sicurezza dei dipendenti. Il quarto e il quinto imputato rivestivano posizioni di garanzia in quanto dirigenti, mentre il sesto è stato riconosciuto come dirigente di fatto.

 

5. Le norme prevenzionali violate ed il loro nesso di causalità con gli eventi di incendio e morte (pp. 243 ss.)

La pronuncia passa in rassegna le molteplici violazioni della normativa sulla sicurezza perpetrate dagli imputati (p. 244, 245), procedendo poi ad individuare, per ciascuno di essi, le specifiche condotte omissive che furono all'origine degli eventi lesivi (p. 266 ss). In questa sede basti evidenziare come i soggetti garanti della sicurezza per lo stabilimento torinese non avessero adottato una serie di fondamentali misure di protezione collettiva ed individuale, fra cui l'impianto di rivelazione e spegnimento automatico degli incendi, che invece risultavano doverose in presenza dei rischi di incendio caratteristici di quel ciclo produttivo. Numerose, inoltre, furono le carenze sotto il profilo della manutenzione e dei controlli sugli impianti.

I giudici d'appello sottolineano però come, a fondare la responsabilità penale, non basti l'accertamento della violazione dei doveri propri della posizione di garanzia: infatti, «in casi come questo in cui all'imputato è contestato di aver non agito e l'evento si è poi verificato per cause naturalistiche, il giudice deve sempre operare una difficile ricostruzione ipotetica sulla capacità impeditiva dell'evento da parte della condotta doverosa». Occorre cioè verificare «il nesso di causalità fra il non agire contestato agli imputati secondo il precetto prevenzionale e gli eventi (secondo lo standard consolidato della giurisprudenza di legittimità dell'alto o elevato grado di credibilità razionale)».

Subito dopo - e senza spiegare il repentino cambio di registro -  la sentenza afferma «che la verifica del nesso causale potrà ritenersi raggiunta anche solo nella prova di apprezzabili, significative, probabilità che avrebbero avuto le condotte doverose di scongiurare il danno»; e a tal proposito i giudici concludono nel senso che la dimostrazione circa la sussistenza del nesso tra omissioni ed evento risiede nel «tragico parallelismo» tra le cause materiali degli eventi e le carenze che contraddistinguevano lo stabilimento sotto il profilo della sicurezza. Nella sequenza causale che aveva portato all'incendio, infatti, si erano sommate tutte le violazioni precedentemente elencate: la presenza di residui di carta e olio, dovuti all'inadeguatezza della manutenzione e delle pulizie, aveva originato le fiamme; il ritardo nell'individuare l'incendio, dovuto alla mancata installazione di sistemi di rilevamento automatico, aveva provocato il collasso del tubo contenente l'olio infiammabile; l'assenza di un sistema automatico di estintori, infine, aveva costretto i lavoratori ad intervenire in prima persona.

Con specifico riferimento all'a.d. Espenhahn, infine, la Corte rileva la sussistenza di condotte commissive consistite, in particolare, nel dare disposizioni affinché i fondi già destinati alla messa in sicurezza degli stabilimenti torinesi venissero accantonati in attesa del trasferimento della linea produttiva a Terni, fissato dal medesimo a.d. per il mese di febbraio 2008 (ossia due mesi dopo alla verificazione dell'incendio): si tratta, all'evidenza, di decisioni in assenza delle quali non si sarebbero verificate quelle disastrose condizioni produttive che rappresentarono la causa diretta degli eventi lesivi.

I difensori degli imputati individuano a carico degli operai presenti quella notte alla Thyssen sei condotte colpose che - a loro avviso - avrebbero interrotto il nesso causale tra le omissioni degli imputati e gli eventi lesivi (p. 263).

Sul punto la pronuncia richiama il noto e consolidato orientamento secondo cui l'obbligo di prevenzione in capo al garante della sicurezza sul lavoro si estende anche agli incidenti che derivino da negligenza, imprudenza e imperizia dell'infortunato, la sua responsabilità potendo essere esclusa ex art. 41 co. 2 c.p. soltanto i presenza di comportamenti che presentino i caratteri dell'eccezionalità, dell'abnormità, dell'esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo[1]. Ciò posto, i giudici passano in rassegna ciascuna delle condotte indicate dai difensori come potenzialmente interruttive del nesso causale, collocandole all'interno della complessiva dinamica dei fatti verificatisi nella notte dell'incendio (p. 264 ss): all'esito di tale procedimento - che per la sua complessità e ricchezza di dettagli tecnici non è possibile riprodurre in questa sede - escludono che le condotte delle vittime siano state caratterizzate dai quei profili di assoluta abnormità che soli possono recidere il nesso causale tra le omissioni del datore di lavoro e gli eventi lesivi.

 

6. L'elemento soggettivo: la colpa con previsione rispetto agli eventi (pp. 277 ss.)

Come già anticipato, i giudici d'appello ritengono dimostrato in campo a tutti gli imputati - compreso l'a.d. Espenhahn, rispetto al quale, come meglio si vedrà infra, cade l'originaria condanna a titolo di dolo eventuale - l'elemento soggettivo della colpa cosciente: ciò in quanto, alla sistematica e strutturale violazione delle norme cautelari già indicate in precedenza, si accompagnava l'effettiva previsione della possibilità che all'interno degli stabilimenti torinesi si verificassero eventi del tipo di quello poi in concreto verificatosi.

A sostegno di tale conclusione, la motivazione della sentenza offre un dettagliato elenco di specifiche, plurime e convergenti notizie che, avendo raggiunto i singoli imputati in precise e singolarmente individuate occasioni, contribuirono a costituire in capo a ciascuno di essi un effettivo patrimonio conoscitivo comprensivo di tutti i fattori che poi concretamente determinarono la verificazione dell'incendio mortale (p. 282 ss). Questi documenti, infatti, non solo descrivono nel dettaglio il rischio incendi correlato al ciclo produttivo dell'acciaio, ma descrivono anche il rischio di flash fire, ossia di fenomeni aventi le stesse identiche caratteristiche di quello verificatosi negli stabilimenti torinesi. Essi inoltre si accompagnavano, durante il periodo di gestione degli imputati, alle notizie dei frequentissimi piccoli incendi nello stabilimento torinese, fino a quel momento domati dall'intervento degli operai muniti di estintori.

Pur possedendo tali informazioni, gli imputati non dotarono gli impianti di sistemi di spegnimento automatico degli incendi, e al contempo diedero espressamente istruzione agli operai affinché fossero loro stessi ad intervenire con gli estintori manuali. Questi dati consento di affermare che la concatenazione di eventi concretamente verificatisi - fiamme, flash fire, morte degli operai - risulta pacificamente ricompresa nel patrimonio di informazioni che gli imputati effettivamente possedevano.

La previsione degli eventi, tuttavia, sia accompagnava alla ragionevole convinzione che alla fine nulla sarebbe accaduto; convinzione il cui accertamento in capo a tutti gli imputati consente ai giudici di escludere la sussistenza del dolo eventuale. Quest'ultimo - osserva infatti la Corte - si caratterizza per la necessaria compresenza di entrambi gli elementi costitutivi del dolo ex art. 43 c.p., vale a dire la rappresentazione e la volizione del fatto tipico: il primo - prosegue la motivazione - si riscontra negli stessi termini anche in capo a chi agisce con colpa aggravata dalla previsione dell'evento; mentre il secondo, costituendo un requisito del dolo ed al contempo un elemento negativo della colpa, segna necessariamente lo spartiacque tra i due istituti.

I giudici di primo grado, pur accomunando la posizione di tutti gli imputati sotto il profilo della previsione degli eventi assistita dalla speranza che non si verificassero, avevano poi differenziato la posizione dei dirigenti da quella dell'a.d. Espenhahn facendo leva sulla tipologia di speranza nutrita: ragionevole, per i primi, in quanto fondata sulla convinzione che l'intervento dei superiori gerarchici avrebbe in qualche modo scongiurato i rischi; irragionevole, per Espenhahn, essendo lui stesso il più alto soggetto in carica responsabile di quella linea di produzione. Da questa distinzione essi avevano tratto la note conclusioni in tema di elemento soggettivo del reato, ritenendo dimostrata l'accettazione del rischio soltanto in capo al soggetto apicale.

Diversa è la posizione adottata dai giudici d'appello. Anzitutto perché, nella motivazione della sentenza, la ragionevolezza della speranza nutrita dall'agente entra in gioco - non già come il criterio, ma - come uno dei criteri utili a dirimere i confini tra dolo eventuale e colpa cosciente. In secondo luogo, perché la Corte d'appello ritiene ragionevole la convinzione di tutti gli imputati, compreso l'a.d., circa il fatto che gli eventi non si sarebbero verificati: ciò in quanto, argomentano i giudici, la realtà quotidiana dello stabilimento torinese era costellata di piccoli incendi che i lavoratori riuscivano sistematicamente a domare attraverso gli estintori a loro disposizione. «Ovviamente, questo confidare era intriso di enorme imprudenza [...] Ma, appunto, gli imputati tutti agirono con imprudenza che è una forma di colpa».

 

7. In particolare: la posizione dell'amministratore delegato Espenhahn (pp. 297 ss.)

Con particolare con riferimento alla posizione dell'amministrazione delegato, la Corte giunge a definirne l'elemento soggettivo valorizzando una serie di risultanze di fatto emerse dall'istruttoria in chiave di esclusione di quella componente volitiva che - secondo l'impostazione teorica sposata tanto dai giudici di primo grado quanto da quelli del gravame - marca il confine tra il dolo eventuale e la colpa cosciente.

Un confine, in effetti, particolarmente sfuggente proprio sul piano della prova dell'elemento psicologico sussistente in capo al singolo agente concreto; ma al contempo caratterizzato da contorni e criteri di accertamento ormai in via di definizione - questo è il messaggio che traspare dalla motivazione della Corte d'appello - almeno a livello teorico. Conviene allora riportare per sommi capi, prima di passare all'esame della posizione dell'imputato Espenhahn, la ricostruzione offerta dai giudici torinesi in merito all'attuale statuto di queste controverse figure giuridiche.

«La nozione di dolo eventuale, inesistente nel nostro codice, è frutto di una lunga elaborazione giurisprudenziale e dottrinaria che ha interpretato estensivamente l'art. 43 c.p.», ritenendo responsabile del delitto doloso «non solo chi dirige intenzionalmente la propria condotta alla produzione dell'evento ma anche chi accetta consapevolmente il rischio che esso si verifichi come conseguenza del proprio comportamento, e ciò persino se tale evento non sia da lui desiderato o risulti indifferente rispetto ai suoi interessi». In quanto forma di manifestazione del dolo, anche quello meramente eventuale deve necessariamente comporsi di entrambi i requisiti essenziali indicati dall'art. 43 c.p.: ossia la previsione dell'evento e sua la volizione.

Sul piano della previsione, sussiste il dolo eventuale allorché l'agente «si rappresenta l'evento - e non, precisa nel prosieguo la Corte richiamando la rilevante giurisprudenza di legittimità, il mero rischio di verificazione dell'evento[2] - come non certo ma possibile, con gradi progressivi di possibilità da quella minima a quella significativamente concreta e probabile (ma mai certa)». Viceversa, aggiungono i giudici per completezza, la rappresentazione dell'evento come certo comporta un più grave addebito a titolo di dolo diretto.

La volizione consiste invece in «una deliberazione con la quale l'agente, consapevolmente sceglie fra agire, accettando l'eventualità di commettere l'azione vietata, e il non agire». Per verificare se effettivamente l'agente abbia compiuto tale scelta, i giudici d'appello ritengono necessario procedere secondo le indicazioni rinvenibili in alcune recenti sentenze di legittimità[3], ossia «tener conto di tutti gli elementi specifici e di contesto della particolare vicenda sottoposta a giudizio per ricostruire ciò che avrebbe deciso l'agente ove - diversamente dal reale - si fosse prefigurata come certa la verificazione dell'evento». Soltanto questa verifica ipotetica - che, nonostante la sentenza non lo rilevi espressamente, ricalca all'evidenza i contorni della formula di Frank - permette secondo i giudici «di dimostrare un'aliquota volitiva effettiva in capo all'agente»: in effetti, potrà dirsi che egli abbia compiutamente accettato la verificazione dell'evento soltanto nella misura in cui la sua rappresentazione come certo non lo avrebbe trattenuto dall'agire. Di qui l'utilizzo, appropriato, di formule descrittive del dolo eventuale come dell'elemento psicologico di chi agisce «anche a costo di determinare l'evento»[4].

La sentenza si sofferma quindi sugli «indici rivelatori» del dolo eventuale, che consentono cioè di effettuare la descritta verifica ipotetica, e lo fa attingendo alla casistica che negli ultimi anni è stata più frequentemente interessata dalle contestazioni di dolo eventuale: quella relativa ai reati contro l'incolumità fisica e quella riguardante la circolazione stradale. Ebbene, mentre nel primo dei citati settori la voluntas dell'agente emerge il più delle volte dalle sue stesse condotte (ad esempio - ritiene la Corte - dalla reiterazione degli atti violenti); nel secondo accade di frequente che possa essere valorizzato l'obiettivo perseguito dall'agente (ad esempio, sfuggire ad un inseguimento da parte delle forze dell'ordine).

A quest'ultimo proposito, la sentenza evidenzia - richiamando quanto già affermato dai giudici di prime cure, a loro volta allineatisi ad un recente insegnamento della Cassazione[5] -  come l'accettazione dell'evento che contraddistingue il dolo eventuale possa sostanziarsi nella «deliberazione con la quale l'agente subordina consapevolmente un determinato bene ad un altro». Ciò accade, in particolare, «quando l'autore del reato, che si prospetta chiaramente il fine da raggiungere e coglie la correlazione che può sussistere tra il soddisfacimento dell'interesse perseguito e il sacrificio di un bene diverso, effettua in via preventiva una valutazione comparata tra tutti gli interessi in gioco - il suo e quelli altrui - e attribuisce prevalenza ad uno di essi. L'obiettivo intenzionalmente perseguito per il soddisfacimento di tale interesse preminente attrae l'evento collaterale, che viene dall'agente posto coscientemente in relazione con il conseguimento dello scopo perseguito».

Ebbene, proprio la corretta valorizzazione degli obiettivi perseguiti dall'a.d. della Thyssen, in correlazione con i danni che si sarebbero potuti prevedibilmente verificare in caso di incendio - come poi è purtroppo successo -, consente ai giudici d'appello di escludere che egli possa aver agito sotto la spinta del dolo eventuale.

Gli obiettivi perseguiti da Espenhahn avevano contenuto economico: il primo era rappresentato dal risparmio dei costi sulla sicurezza, e più esattamente dall'accantonamento dei fondi già stanziati per lo stabilimento di Torino (quantificabili in 800.000 euro), in modo da poterli destinare direttamente a quello di Terni; il secondo dall'intento di continuare ad utilizzare gli impianti torinesi una volta trasferiti a Terni.

I danni prevedibili, in caso di reati connessi alla sicurezza sul lavoro, sarebbero stati molteplici: «anche a voler estromettere qualunque considerazione circa le remore morali davanti alla previsione della morte dei propri dipendenti, rimangono danni di rilevantissima entità (dell'ordine di vari milioni di euro). Si trattava infatti di eventi che prefiguravano la distruzione degli impianti, il blocco della produzione (per Krefeld - stabilimento nel quale si era verificato un grave incendio nel 2006, n.d.a. - era stato di ben un anno), il risarcimento dei danni per le morti causate; a tali danni si aggiungevano poi quelli di immagine che, stando all'eco del disastro avvenuto a Krefeld, possiamo stimare anch'essi rilevantissimi, non solo verso l'esterno del mercato ma anche all'interno della holding (che aveva più volte richiamato le dirigenze delle singole società alla tolleranza zero per gli incendi e messo a disposizione fondi sufficienti ad attuarla in maniera adeguata)».

Alla luce di tali considerazione, viene da sé concludere nel senso che, «accettando il verificarsi degli eventi, Espenhahn non solo non avrebbe fatto prevalere l'obiettivo perseguito ma avrebbe provocato un danno di tali dimensioni da annullarlo e soverchiarlo totalmente. Qui non si tratta dunque di un caso in cui l'evento previsto è raffigurato come un prezzo da pagare per il raggiungimento dell'obiettivo, bensì di una vicenda in cui la verificazione dell'evento diventa la negazione dell'obiettivo perseguito».

Breve: se l'a.d. si fosse rappresentato l'evento con certezza, ciò l'avrebbe trattenuto - ad avviso dei giudici d'appello - dal portare avanti le proprie scellerate politiche aziendali.

La verifica ipotetica consente dunque di escludere la sussistenza dell'elemento volitivo del dolo eventuale; senza però che ciò scalfisca in alcun modo la convinzione dei giudici - basata sugli elementi già evidenziati supra - che Espenhahn, e con lui gli altri coimputati, si fosse effettivamente rappresentato la possibile verificazione dell'evento, confidando però nel fatto che esso non si sarebbe verificato. Un confidare, come già evidenziato, altamente imprudente, ma al contempo reso ragionevole dall'osservazione della realtà quotidiana dello stabilimento, all'interno del quale i lavoratori riuscivano sempre a controllare i focolai che spessissimo si formavano.

 

8. Il concorso degli imputati nel delitto di omissione dolosa di cautele antinfortunistiche (pp. 287 ss.)

Tutti gli imputati sono stati altresì condannati per concorso nel delitto di omessa adozione di misure antinfortunistiche - rappresentate, nel caso di specie, dall'impianto di automatico di rilevazione e spegnimento degli incendi - aggravato dalla verificazione di un disastro (incendio) e di infortuni (lesioni personali riportate dai tre operai sopravvissuti) (artt. 110, 437 commi 1 e 2 c.p.).

La pronuncia si preoccupa, in prima battuta, di sgombrare il campo da un possibile equivoco di fondo: ossia che sussista - come adombrato dai difensori degli imputati - una contraddizione nell'addebitare ai medesimi agenti, in relazione ai medesimi fatti concreti, una fattispecie caratterizzata da un coefficiente doloso (quella appunto descritta dall'art. 437 c.p.), in concorso con altre fattispecie sorrette da un elemento soggettivo colposo, ancorché queste ultime aggravate dalla previsione dell'evento (l'omicidio di cui all'art. 589 c.p. e l'incendio di cui agli artt. 449, 423 c.p., entrambi aggravati ex art. 61 n. 3 c.p.). Osservano a tale proposito i giudici d'appello che «l'art. 437 c.p. individua un reato di pericolo in cui il dolo dell'agente è costituito dalla consapevolezza di violare l' obbligo giuridico di installare un impianto destinato a prevenire disastri o infortuni sul lavoro, così esponendolo al rischio del verificarsi di tali eventi. Si tratta di un dolo generico che non richiede proiezioni volitive per ciò che attiene agli eventi dannosi che la norma intende evitare e che sono del tutto eventuali. [...] L'aggravamento della pena, previsto nel caso in cui dall'omissione derivino disastri o infortuni, è esterno all'atteggiamento doloso e segue le regole dell' imputazione delle circostanze, in particolare l'art. 59.2 c.p.». Sicché - concludono coerentemente i giudici - non vi è contraddizione alcuna tra i diversi capi di imputazione giacché l'agente «risponderà dell'aggravante a quello stesso titolo di colpa per cui si vede imputato di incendio e omicidio colposi con la previsione degli eventi».

Tanto premesso, la sentenza procede nella verifica circa la sussistenza degli elementi costitutivi della norma incriminatrice in esame.

Viene in rilievo, in primo luogo, l'obbligo giuridico di installare il dispositivo antinfortunistico - ossia, come già ricordato, il sistema automatico di rilevazione e spegnimento degli incendi - la cui omissione integra la condotta tipica: la sussistenza di questo obbligo viene accertata dalla sentenza attraverso una dettagliata ricostruzione della specifica normativa antincendio, alla quale non si può qui che rinviare (pp. 289 ss.).

In secondo luogo i giudici mettono in luce come ciascuno degli imputati contribuì, nell'esercizio delle proprie competenze e funzioni (p. 294, 295), a far slittare avanti nel tempo l'investimento - pari ai già ricordati 800.000 euro (v. supra, par. 7) - necessario a dotare la linea produttiva del dispositivo di sicurezza in esame.

Le medesime condotte mettono peraltro in luce, in terzo luogo, come gli imputati - lungi dall'ignorare l'obbligo di introdurre la misura cautelare in esame - avessero deliberatamente e concordemente deciso di rinviare l'investimento al momento in cui tutta la linea fosse stata trasferita a Terni, onde evitare ulteriori costi di installazione e disinstallazione dell'impianto di sicurezza. Anche il dolo di condotta - necessario ad integrare il delitto in esame - risulta dunque pienamente dimostrato. Quanto al coefficiente soggettivo che sorregge gli eventi di infortunio e disastro, la Corte richiama le considerazioni già spese con riferimento alla colpa cosciente di omicidio e incendio.

Affrontando il tema dell'elemento soggettivo dell'art. 437 c.p., la sentenza tocca per inciso anche il - diverso ma collegato - tema della natura giuridica del capoverso della norma incriminatrice. Sul punto i giudici osservano: «poiché in questo processo si è raggiunta la prova della perfetta consapevolezza in capo a tutti gli imputati della capacità delle loro condotte di provocare l'incendio, le lesioni e la morte di un numero indeterminato di lavoratori, non è di particolare interesse scendere a verificare la natura di tale aggravamento di pena». Esigenza quest'ultima - soggiunge la sentenza - che «nasce infatti nei casi in cui non sia provata tale consapevolezza, per i possibili profili di incostituzionalità di attribuzione dell'istituto a titolo di responsabilità oggettiva; v. diffusamente la sentenza Trib. di Torino, Sez. 1, 13.2.2012».

Infine, quanto al nesso causale tra le condotte omissive (dolose) di cui al primo comma e gli eventi (colposi) di cui al secondo comma dell'art. 437 c.p. - la cui  verifica, osservano i giudici, «è regolata dal criterio della ricostruzione controfattuale in termini di alto o elevato grado di credibilità razionale» - la sentenza osserva: «proprio il collegamento doveroso fra allarme e spegnimento automatico avrebbe modificato sostanzialmente il comportamento degli operai, i quali non sarebbero più stati chiamati, come da Piano di Emergenza, a sedare le fiamme, avrebbero invece confidato nell'effetto estinguente dell'impianto, e così che avrebbero avuto come unica azione da intraprendere quella prevista dalla legislazione di settore, cioè l'allontanamento immediato dalla zona. Ciò permette di non ritenere solo probabile ma ragionevolmente certo che essi non si sarebbero esposti al rischio di venire investiti dal flash fire».

 

9. I rapporti tra le molteplici figure di reato integrate dagli imputati (pp. 309 ss.)

La sentenza ha rilevato un concorso apparente di norme tra il delitto di omessa installazione di cautele antinfortunistiche, nella forma aggravata dal disastro (art. 437 comma 2 c.p.), e quello di incendio colposo (artt. 449, 423 c.p.): ad avviso dei giudici, infatti, dal raffronto strutturale tra le due fattispecie emergerebbe la natura speciale - e dunque prevalente - della prima rispetto alla seconda. La specialità andrebbe individuata, in particolare, nelle condotte penalmente rilevanti, configurando l'art. 437 c.p. un reato a forma vincolata (omessa installazione di impianti antinfortunistici) mentre quello di incendio un delitto causalmente orientato. Del tutto sovrapponibili, invece, sarebbero i rispettivi eventi, rappresentati dall'«esposizione a pericolo di un numero indeterminato di persone» (sulla problema della natura giuridica del capoverso di cui all'art. 437 c.p., che la Corte non ritiene rilevante nel caso di specie affrontare, v. supra par. 8).

Non può invece ritenersi assorbita nel delitto ex 437, aggravato dalla verificazione di infortuni, la fattispecie di omicidio colposo plurimo: il fatto che quest'ultima preveda una pena massima superiore, «impone una interpretazione sistematica dell'art. 437.2 c.p. nel senso che il reato in esso delineato deve necessariamente concorrere con quello di omicidio colposo: diversamente opinando, infatti, si arriverebbe alla conclusione, paradossale e dunque inaccettabile, secondo cui chi avesse accompagnato alle condotte di omicidio colposo plurimo anche quella di omissione dolosa di un dispositivo prevenzionale si vedrebbe sanzionato con una pena inferiore a chi fosse responsabile del solo omicidio colposo plurimo». La Corte peraltro, ritiene corretto applicare le due fattispecie in parola in concorso formale tra loro, sulla scorta della considerazione che gli imputati le avrebbero violate attraverso le medesime condotte concrete: l'omessa installazione dell'impianto automatico infatti, ha integrato non solo la figura a forma vincolata di cui all'art. 437 c.p., ma anche quella a forma libera di omicidio colposo; mentre, per quanto riguarda le ulteriori condotte realizzate in violazione della normativa antinfortunistica, esse ricadono tutte soltanto nell'art. 589 c.p., e ricevono adeguata sanzione attraverso il cumulo giuridico delle pene (pena base per la fattispecie più grave - l'omicidio colposo plurimo - aumentata fino al triplo).

 

 


 

[1] Cfr., tra le più recenti, Cass. pen., sez. IV, 15 novembre 2012, n. 44829, imp. F.; 14 marzo 2012, n. 16892, imp. Romeo.

[2] Cass. pen., sez. IV, 18 febbraio 2010, n. 11222, imp. Lucidi, CED 249492.

[3] Cass. pen., SS.UU., 26 novembre 2009, n. 12433, imp. Nocera, CED 246393 ; Cass. pen., sez. I, 11 luglio 2011, n. 30472, imp. Braidic, CED 251484.

[4] Cfr., ex multis, Cass. pen., sez. I, imp. Braidic, cit.;  sez. IV, imp. Lucidi, cit.

[5] Cass. pen., sez. I, 1 febbraio 2011, n. 14011, in questa Rivista con nota di Aimi A., Fuga dalla polizia e successivo incidente stradale con esito letale: la Cassazione ritorna sulla distinzione tra dolo eventuale e colpa cosciente.