7 giugno 2012 |
Costituzione di parte civile contro l'ente imputato: le conclusioni dell'Avvocato generale presso la Corte di giustizia UE nel caso Giovanardi
Conclusioni dell'Avvocato generale, Eleanor Sharpston, presentate il 15.5.2012 nella causa C-79/11, Procura della Repubblica italiana contro Giovanardi e a., su ricorso pregiudiziale di interpretazione proposto dal Tribunale di Firenze con ordinanza del 9.2.11
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1. Con ordinanza del 9.2.2011, il Tribunale di Firenze ha chiesto alla Corte di Giustizia dell'Unione europea di pronunciarsi in via pregiudiziale sull'interpretazione di "tutte le decisioni europee che concernono la posizione della persona offesa", in particolare sulle disposizioni della decisione quadro 2001/220/GAI del 15.3.2001, relativa alla posizione della vittima nel procedimento penale, e della direttiva comunitaria 2004/80/CE del Consiglio del 29.4.2004, relativa all'indennizzo delle vittime di reato, così da rispondere al quesito se sia conforme al diritto dell'Unione europea la normativa italiana in tema di responsabilità amministrativa degli enti, di cui al d.lgs. 231/2001, nella misura in cui non prevede espressamente che gli enti siano chiamati a rispondere, nel processo penale, dei danni cagionati alle vittime dei reati [cfr. Trib. Firenze, 9.2.2011, (ord.) GIP Monti, in questa Rivista].
2. Nel procedimento incardinatosi davanti alla Corte di Lussemburgo, l'Avvocato generale ha dunque depositato, il 15 maggio scorso, le proprie conclusioni in punto di interpretazione del diritto dell'Unione europea, che possono essere sintetizzate come segue:
a) la norma del diritto dell'Unione europea di cui la Corte dovrà fornire l'interpretazione corretta per rispondere alla richiesta del Tribunale di Firenze è quella contenuta nell'art. 9 paragrafo 1 decisione quadro 2001/220/GAI ("ciascuno Stato membro garantisce alla vittima di un reato il diritto di ottenere, entro un ragionevole lasso di tempo, una decisione relativa al risarcimento da parte dell'autore del reato nell'ambito del procedimento penale, eccetto i casi in cui il diritto nazionale preveda altre modalità di risarcimento") non deve essere presa in considerazione, invece, la direttiva comunitaria 2004/80/CE, pure richiamata dal Tribunale di Firenze nella propria ordinanza, in quanto detta direttiva si applica, ai sensi dell'art. 1, solo qualora sia stato commesso un reato intenzionale violento che presenti un elemento transfrontaliero, mentre il caso di specie concerne la commissione, in Italia, di un omicidio colposo e di lesioni personali colpose nello svolgimento dell'attività lavorativa, ai danni di due lavoratori italiani;
b) l'art. 9 par. 1 contiene una disposizione di carattere generale e una deroga alla disposizione di carattere generale. In particolare, la regola generale prevede che gli Stati membri hanno l'obbligo di garantire alla vittima di un reato (dove per vittima deve intendersi anche, ai sensi dell'art. 1, chi ha subito un danno in conseguenza del reato) il diritto di ottenere, entro un ragionevole lasso di tempo, una decisione relativa al risarcimento da parte dell'autore del reato nell'ambito del procedimento penale. La regola generale non opera, però - ecco la deroga -, qualora l'ordinamento preveda altre modalità di risarcimento;
c) detta norma va interpretata in chiave teleologica, privilegiando la sostanza sulla forma, sicché deve ritenersi irrilevante - nell'ottica di valutare se sia applicabile l'art. 9 par. 1 - che la legislazione nazionale qualifichi la responsabilità della persona giuridica come 'amministrativa', o comunque 'indiretta' o 'sussidiaria' rispetto alla commissione del reato da parte della persona fisica: ciò che conta, ai fini dell'applicabilità dell'art. 9 § 1, è che la legislazione nazionale effettivamente costruisca la responsabilità penale dell'ente come responsabilità (1) per un illecito definito mediante rinvio alle disposizioni del codice penale, (2) fondata sulla commissione di un illecito da parte di una persona fisica, (3) accertata nell'ambito di un procedimento dinanzi al giudice penale, disciplinato dal codice di procedura penale e normalmente riunito col procedimento penale a carico della persona fisica responsabile dell'illecito;
d) la deroga alla regola generale contenuta nell'art. 9 § 1 ("eccetto i casi in cui il diritto nazionale preveda altre modalità di risarcimento"), dal canto suo, va interpretata in modo restrittivo: in particolare, deve escludersi - come invece hanno proposto i governi tedesco e dei Paesi Bassi - che la possibilità per la vittima del reato di agire in sede civile contro l'ente per il risarcimento del danno rappresenti una 'modalità alternativa di risarcimento' ai sensi dell'art. 9 § 1, seconda parte, in quanto la deroga ivi prevista non può essere interpretata nel senso di consentire che le persone giuridiche, come categoria, siano sistematicamente escluse dall'ambito applicativo della regola di cui all'art. 9 § 1, prima parte, perché altrimenti si finirebbe per trasformare l'eccezione in regola; mentre la deroga potrebbe legittimamente operare, ad es., laddove in concreto "il danno conseguente alla commissione del reato non possa essere accertato o non possa essere accertato con precisione sufficiente" prima della conclusione del procedimento penale nei confronti dell'autore del reato;
e) salvi i casi in cui possa operare la deroga ora menzionata, lo Stato membro dovrà dunque "garantire che la sua legislazione penale contenga disposizioni che consentano alla vittima di un illecito di poter partecipare al procedimento penale, in maniera tale che sia in grado, nell'ambito di detto procedimento, di far valere una richiesta di adeguato risarcimento nei confronti dell'imputato. Incluso nei confronti delle persone giuridiche", qualora sussistano le condizioni riassunte alla precedente lettera c) (§ 51);
f) lo Stato membro resta peraltro libero di individuare i mezzi idonei per raggiungere tale risultato, che potrebbe in ipotesi essere garantito - nell'ordinamento italiano - anche attraverso il meccanismo della citazione del responsabile civile ex art. 83 del c.p.p. italiano, purché tale meccanismo in effetti sia in effetti idoneo ad assicurare alla vittima il risarcimento del danno subito nell'ambito dello stesso procedimento penale, spettando al giudice nazionale la valutazione dell'idoneità di un tale meccanismo a raggiungere lo scopo imposto dall'art. 9 § 1 della decisione quadro (§ 52).
3. Che accadrebbe, allora, se le conclusioni dell'Avvocato generale fossero recepite dalla Corte?
Un primo punto appare fuori discussione. Sulla base dei criteri enunciati dall'Avvocato generale (supra, lett. c), la disciplina italiana in materia da "responsabilità amministrativa da reato" di cui al d.lgs. 231/01 rientrerebbe certamente nell'ambito di applicazione dell'art. 9 § 1 della decisione quadro 2001/220/GAI. Infatti: (1) l'illecito dell'ente è una fattispecie complessa che ha, fra i suoi elementi costitutivi, la commissione di uno dei reati indicati nel d.lgs. 231/01, e segnatamente dagli articoli 24 ss., che fanno rinvio alle pertinenti disposizioni incriminatrici del codice penale; (2) alla base della responsabilità dell'ente vi è la commissione di un reato da parte di una persona fisica (per la precisione, da uno dei soggetti indicati all'art. 5 d.lgs. 231/01); (3) il procedimento a carico dell'ente è promosso dinanzi al giudice penale, è regolato dalle le disposizioni del codice di procedura penale in quanto compatibili (art. 34 d.lgs. 231/01), e si svolge di regola simultaneamente al processo a carico della persona fisica imputata per il reato da cui l'illecito dell'ente dipende (art. 38 d.lgs. 231/01). Il processo contro l'ente disciplinato dal d.lgs. 231/01, secondo questi criteri, costituisce dunque un vero e proprio "procedimento penale" ai sensi della decisione quadro, al di là della formale qualificazione della responsabilità dell'ente in termini di "responsabilità amministrativa" prudentemente adottata dal legislatore italiano; sicché nell'ambito di tale "procedimento penale" dovrà in ogni caso essere garantito alla vittima del reato il diritto ad ottenere il risarcimento del danno.
D'altra parte, se le conclusioni dell'Avvocato generale venissero accolte dalla Corte, non vi sarebbe alcuno spazio per invocare l'applicazione della deroga prevista dalla seconda parte dell'art. 9 § 1 decisione quadro, sostenendo che il danneggiato può comunque agire in sede civile contro l'ente. Innanzitutto, perché ciò comporterebbe effettivamente un'esclusione sistematica dell'intera categoria degli enti dall'ambito di applicazione della regola di cui all'art. 9 par. 1 prima parte: eventualità che l'Avvocato generale esclude espressamente in quanto contrastante con un'interpretazione restrittiva della deroga, unica ammissibile per non trasformare in regola un'eccezione. In secondo luogo, perché certo non potrebbe essere sostenuto che l'esercizio dell'azione per il risarcimento del danno davanti al giudice civile nel nostro Paese sia un'alternativa all'azione esercitata nel processo penale idonea ad assicurare al danneggiato l'ottenimento del risarcimento "entro un ragionevole lasso di tempo".
Piuttosto, il nodo problematico consisterebbe nella verifica se la possibilità per la vittima di citare l'ente quale responsabile civile ai sensi dell'art. 83 c.p.p. costituisca rimedio idoneo a garantire tale risultato, imposto dalla decisione quadro: la quale, come è noto, vincola gli Stati soltanto quanto al risultato da perseguire, lasciandoli liberi nella scelta dei mezzi per pervenirvi (art. 34 § 2 lett. b TUE nella versione approvata con il Trattato di Amsterdam).
4. Qualche rapida considerazione sul punto, in attesa della decisione della Corte di giustizia.
Nel ricostruire la disciplina nazionale in materia di responsabilità da reato degli enti, l'Avvocato generale rileva come, all'udienza celebratasi avanti alla Corte, le parti abbiano espresso opinioni difformi circa la possibilità di assicurare il risarcimento alla vittima del reato da parte dell'ente non già attraverso l'ordinario meccanismo della costituzione di parte civile contro l'ente, bensì attraverso la citazione dell'ente quale responsabile civile di cui all'art. 83 c.p.p.
In effetti, il giudice del rinvio pare escludere tale possibilità, alla quale sembrerebbe ostare il disposto di cui all'art. 83 co. 1 secondo periodo c.p.p., a mente del quale "l'imputato può essere citato come responsabile civile per il fatto dei coimputati per il caso in cui venga prosciolto o sia pronunciata nei suoi confronti sentenza di non luogo a procedere". Poiché la posizione processuale dell'ente al quale venga contestato un illecito amministrativo da reato è equiparata a quella dell'imputato (art. 35 d.lgs. 231/2001), la sua citazione come responsabile civile parrebbe ammissibile soltanto per l'ipotesi in cui l'ente medesimo venga prosciolto, ovvero nei suoi confronti sia pronunciata sentenza di non luogo a procedere; restando invece esclusa la possibilità di una sua condanna al risarcimento dei danni quale responsabile civile, in tutte le ipotesi in cui in esito al processo ne venga riconosciuta la responsabilità ex d.lgs. 231/2001.
Va detto, però, che la posizione del Tribunale di Firenze non è l'unica sostenibile. Infatti, il limite imposto dall'art. 83 c.p.p. - la cui redazione risale a un'epoca in cui imputato in un processo penale poteva essere soltanto una persona fisica - muove dal presupposto che il danneggiato da un reato può normalmente esercitare l'azione per il risarcimento del danno costituendosi parte civile contro tutte le persone fisiche coimputate; sicché la norma ha evidentemente la finalità di escludere che il danneggiato possa altresì citare un coimputato come responsabile civile, se non per la particolare ipotesi in cui questi venga prosciolto dalle accuse, e debba pertanto rispondere del reato commesso dagli altri coimputati non ex artt. 2043 e 2059 c.c., bensì eventualmente quale mero responsabile del fatto illecito commesso dai propri "domestici e commessi" (in pratica, dai propri dipendenti) ex art. 2049 c.c. Lo scopo evidente della norma è, dunque, quello di evitare che su un imputato vengano a cumularsi il ruolo di soggetto chiamato dalla parte civile a risarcire il danno derivante dal fatto proprio, e il ruolo di responsabile civile per il fatto commesso da altro coimputato.
Diversa, però, è la situazione che vede come coimputati la persona fisica responsabile del reato e l'ente responsabile dell'illecito amministrativo da reato. Laddove, infatti, si muova dalla premessa che non sia consentito al danneggiato esercitare l'azione civile contro l'ente per fatto proprio dell'ente medesimo, il rischio del cumulo tra le due azioni sarebbe in radice insussistente: l'ente potrebbe essere dunque sempre citato nel processo penale come responsabile civile per il fatto dell'imputato, ed essere condannato al risarcimento ogniqualvolta sussistano i presupposti di cui all'art. 2049 c.c., indipendentemente dalla condanna o assoluzione dell'ente dall'imputazione dell'illecito amministrativo di cui al d.lgs 231/2001.
Non a caso, infatti, la recente sentenza della Cassazione n. 2251 del 5 ottobre 2010, già pubblicata in questa Rivista, sposando la tesi dell'inammissibilità della costituzione di parte civile contro l'ente per l'illecito di cui al d.lgs. 231/2001, ha contestualmente affermato - senza neppure porsi il problema di dimostrare la compatibilità di questa soluzione con il disposto dell'art. 83 c.p.p. - che il danneggiato "può citare l'ente come responsabile civile ai sensi dell'art. 83 c.p.p. nel giudizio che ha ad oggetto la responsabilità penale dell'autore del reato, commesso nell'interesse della persona giuridica, e lo può fare - normalmente - nello stesso processo in cui si accerti la responsabilità dell'ente".
Il meccanismo delineato dalla Cassazione parrebbe, dunque, consentire al danneggiato dal reato di chiedere ed ottenere dall'ente, nell'ambito dello stesso processo penale, il ristoro del danno subito in conseguenza del reato commesso dalla persona fisica, del quale l'ente dovrà normalmente rispondere civilisticamente in forza dell'art. 2049 c.c. (i cui presupposti applicativi sono addirittura più ampi di quelli che consentono l'ascrizione della responsabilità da reato all'ente, ex d.lgs. 231/2001). Il mezzo idoneo allo scopo non sarebbe qui la costituzione di parte civile contro l'ente-imputato; bensì, appunto, la sua citazione quale responsabile civile ex art. 83 c.p.p.
Tale rimedio appare prima facie idoneo a garantire alla vittima il diritto al risarcimento anche sotto il profilo del quantum risarcibile, dal momento che - come ormai chiarito dalla dottrina italiana (L. Pistorelli, La problematica costituzione di parte civile nel procedimento a carico degli enti: note a margine di un dibattito forse inutile, in La resp. amm. delle soc. e degli enti, 2008, n. 3, p. 105, nonché Valsecchi, Sulla costituzione di parte civile contro l'ente imputato ex d.lgs. 231/01, in questa Rivista, 29 ottobre 2010, § 4) - oggetto della pretesa risarcitoria nei confronti dell'ente è pur sempre il danno derivato dal reato commesso dalla persona fisica, del quale l'ente risponderà in via indiretta ex art. 2049 c.c., e non già un ipotetico danno diverso e ulteriore derivante dall'illecito ammnistrativo dell'ente in quanto tale, azionabile ex artt. 2043 e 2059 c.c.: il danno per la vittima non deriva dalla mancata adozione, da parte dell'ente, di un modello organizzativo idoneo a prevenire reati della specie di quello verificatosi, bensì unicamente dal singolo reato commesso dalla persona fisica, del quale l'ente dovrà rispondere ex d.lgs. 231/01 e - civilisticamente - ex art. 2049 c.c.
Da tali premesse dovrebbe concludersi che il meccanismo della citazione dell'ente come responsabile civile ex art. 83 c.p.p. sia rimedio idoneo ad assicurare, nell'ambito dello stesso processo penale celebrato simultaneamente contro la persona fisica e contro l'ente ex d.lgs. 231/01, un pieno ed integrale risarcimento del danno subito dalla vittima in conseguenza del reato.
5. Tuttavia, il meccanismo ora descritto potrebbe 'incepparsi' nelle ipotesi, pure previste dal d.lgs. 231/01, di deroga al meccanismo del simultaneus processus, che pure costituisce la regola secondo le previsioni del medesimo decreto.
La citazione dell'ente quale responsabile civile presuppone, infatti, lo status processuale di imputato della persona fisica del cui operato l'ente debba rispondere ex art. 2049 c.c.; e non può per converso operare nelle sia pur marginali ipotesi nelle quali il processo sia originariamente promosso soltanto contro l'ente ai sensi dell'art. 8 d.lgs. 231/01 (per non essere stata identificata la persona fisica che ha commesso il reato, o per essersi estinto il reato nei confronti di costui per causa diversa dall'amnistia), ovvero in quelle ipotesi in cui la persona fisica, originariamente imputata, esca dal processo per effetto di una causa estintiva sopravvenuta (ad es. la sua morte) o per effetto di una sua scelta processuale (come l'applicazione della pena su richiesta). In simili ipotesi, il processo si celebrererà (o proseguirà) soltanto contro l'ente, ai fini della verifica della sua "responsabilità amministrativa da reato" ex d.lgs. 231/01; ma l'ente, evidentemente, non potrà qui essere citato quale responsabile civile per il fatto di un imputato assente dal processo.
Se dunque le conclusioni dell'Avvocato generale fossero recepite dalla Corte di giustizia, non resterebbe che riconoscere che il diritto italiano, così come oggi interpretato dalla citata pronuncia della Cassazione, si pone in contrasto con l'art. 9 § 1 della decisione quadro 2001/220/GAI, nella misura in cui - almeno in queste limitate ipotesi - non consente alla vittima del reato di ottenere il risarcimento del danno da reato da parte dell'ente nell'ambito del medesimo processo celebrato contro l'ente, costringendola ad azionare la propria pretesa in sede civile.
6. Nel caso allora in cui la Corte aderisse all'impostazione dell'Avvocato generale, l'esistenza di ipotesi, sia pure marginali, in cui il meccanismo della citazione dell'ente quale responsabile civile non garantisce il raggiungimento dell'obiettivo imposto dalla decisione quadro dovrebbe indurre a rimeditare la conclusione - cui anche uno degli autori del presente contributo era a suo tempo pervenuto (Valsecchi, Sulla costituzione di parte civile, cit.), e che la Cassazione aveva del resto accolto nella citata sentenza 2251/2010 - secondo la quale la costituzione di parte civile contro l'ente nell'ambito del processo ex d.lgs. 231/01 è inammissibile.
A nostro avviso, non v'è dubbio che la volontà del legislatore storico del 2001 fosse quella di non consentire tale costituzione di parte civile: costituisce decisiva conferma di questa soluzione la sistematica esclusione, nel d.lgs. 231/01, di qualsiasi riferimento alla parte civile, anche nell'ambito di disposizioni che riproducevano per il resto testualmente le analoghe disposizioni del codice di procedura penale (cfr. ampiamente, sul punto, Valsecchi, Sulla costituzione di parte civile, cit., § 2, nonché la stessa Cassazione n. 2251/2010 più volte citata). Tali argomenti potrebbero, tuttavia, non essere più considerati decisivi laddove si tenga conto del 'fattore nuovo' rappresentato dagli obblighi di fonti europea, vincolanti per il nostro paese, e segnatamente dall'obbligo discendente dall'art. 9 § 1 della decisione quadro 2001/220/GAI, che - pur non potendo spiegare effetto diretto nell'ordinamento italiano per espresso disposto dell'art. 34 § 2 lett. b del TUE, nella versione in vigore al tempo dell'adozione dell'atto - obbliga tuttavia il giudice nazionale ad un'interpretazione conforme della disciplina interna, secondo i principi enunciati dalla notissima sentenza Pupino (CGCE, sent. 16 giugno 2005, C-105/03) qualunque sia stata la volontà del legislatore storico.
V'è quindi da chiedersi se il giudice penale italiano possa pervenire, in via di interpretazione conforme al diritto dell'UE - e segnatamente all'art. 9 § 1 della citata decisione quadro - alla soluzione ermeneutica di ammettere la costituzione di parte civile della vittima del reato contro l'ente che del reato deve rispondere ex d.lgs. 231/2001.
Al riguardo, occorre rammentare che - secondo la stessa sentenza Pupino - "l'obbligo per il giudice nazionale di far riferimento al contenuto di una decisione quadro quando interpreta le norme pertinenti del suo diritto nazionale trova i suoi limiti nei principi generali del diritto, ed in particolare a quelli di certezza del diritto e di non retroattività (§ 44), i quali ostano ad es. "a che il detto obbligo possa condurre a determinare o ad aggravare, sul fondamento di una decisione quadro e indipendentemente da una legge adottata per l'attuazione di quest'ultima, la responsabilità penale di coloro che agiscono in violazione delle sue disposizioni" (§ 45). Nell'ipotesi che qui ci occupa tuttavia, come già nel caso di specie deciso in Pupino, la questione in discussione non concerne i limiti della responsabilità penale dell'imputato, bensì unicamente la normativa processuale applicabile nei confronti dell'ente-imputato, e segnatamente la possibilità di far valere nell'ambito del processo penale istituito nei suoi confronti la sua responsabilità civile nei confronti della vittima; sicché nessun ostacolo sembra opposto dai principi generali dello stesso diritto UE a un'eventuale estensione all'ente imputato delle norme del c.p.p. (artt. 74 ss.) che consentono alla vittima di costituirsi parte civile contro la persona fisica imputata.
Cruciale appare piuttosto, nel nostro contesto, il riferimento al secondo limite posto dalla sentenza Pupino all'obbligo di interpretazione conforme: "l'obbligo per il giudice nazionale di fare riferimento al contenuto di una decisione quadro nell'interpretazione delle norme pertinenti del suo diritto nazionale cessa quando quest'ultimo non può ricevere un'applicazione tale da sfociare in un risultato compatibile con quello perseguito da tale decisione quadro. In altri termini, il principio di interpretazione conforme non può servire da fondamento ad un'interpretazione contra legem del diritto nazionale" (§ 47).
Potrà, dunque, affermarsi che una soluzione ermeneutica che riconoscesse al danneggiato dal reato di costituirsi parte civile contro l'ente ai sensi degli artt. 74 ss c.p.p., in forza del generale richiamo di cui all'art. 34 d.lgs. 231/2001, rappresenti una interpretazione contra legem, non consentita dalla legislazione vigente al giudice ordinario nemmeno a fronte dell'obbligo di leggere la legislazione medesima in modo da non contraddire gli scopi perseguiti dalla decisione quadro 2001/220/GAI?
Prima di rispondere a questa domanda, è bene però rammentare che cosa accadrebbe nel caso in cui si dovesse affermare l'impossibilità per il giudice ordinario di ammettere la costituzione di parte civile contro l'ente. Il risultato sarebbe quello di riconoscere che la legislazione italiana non è conforme agli obblighi derivanti dal diritto dell'Unione, e che tale non conformità non può essere sanata dall'attività ermeneutica del giudice ordinario; con conseguente obbligo, a carico di quest'ultimo, di sollevare questione di legittimità costituzionale della normativa interna (e segnatamente del combinato disposto degli artt. 74 c.p.p. e 34 d.lgs. 231/2001) per contrasto con gli artt. 11 e 117 co. 1 Cost., nella parte in cui tale normativa non consente di ammettere la costituzione di parte civile contro l'ente imputato nel procedimento per l'accertamento della sua responsabilità amministrativa da reato disciplinata dal d.lgs. 231/2001, in violazione dell'obbligo discendente dall'art. 9 § 1 della decisione quadro 2001/220/GAI: norma, quest'ultima, che verrebbe così assunta come parametro interposto di legittimità costituzionale (per un recente caso in cui la Corte costituzionale ha dichiarato illegittima una legge interna per contrasto, tra l'altro, con gli obblighi discendenti da una decisione quadro, rilevanti nel nostro ordinamento ex artt. 11 e 117 co. 1 Cost., cfr. C. cost. 227/2010).
In realtà, forse non ci sono argomenti decisivi per negare al giudice ordinario la possibilità di pervenire direttamente al risultato, in ipotesi imposto dal diritto UE, di ammettere la costituzione di parte civile contro l'ente, come del resto ritenuto da numerosi giudici ordinari italiani prima del recente intervento della Cassazione.
E' vero che - come uno degli autori del presente contributo aveva a suo tempo sottolineato (Valsecchi, Sulla costituzione di parte civile, cit., § 1) , in un passaggio ripreso pressoché testualmente dalla Cassazione - che a tale risultato non è possibile pervenire applicando direttamente gli artt. 185 c.p. e 74 ss. c.p.p., in forza del generale richiamo di cui all'art. 34 d.lgs. 231/01, dal momento che le disposizioni richiamate fanno riferimento alla responsabilità civile discendente da reato; mentre nel nostro caso la responsabilità civile dovrebbe discendere dall'illecito (formalmente qualificato come amministrativo) imputato all'ente: illecito che costituisce una fattispecie complessa, della quale il reato commesso dalla persona fisica è soltanto uno tra gli elementi costitutivi, accanto alla qualifica soggettiva dell'autore (come soggetto apicale o subordinato all'interno dell'ente), all'interesse o al vantaggio dell'ente, nonché alla 'colpa organizzativa' dell'ente medesimo. Tale illecito, dunque, presuppone la commissione di un reato, ma non si identifica con esso: il che esclude che possa ipotizzarsi una diretta applicazione di norme che, per l'appunto, fanno espresso riferimento al "reato" come presupposto della responsabilità civile dell'imputato.
Sicché la possibilità che occorre vagliare è semmai quella di una estensione in via analogica di tali norme ad un caso da esse non espressamente contemplato quale, appunto, l'illecito "amministrativo da reato" dell'ente. A tale approdo ermeneutico parevano, peraltro, ostare tanto il carattere eccezionale delle norme che - in deroga al generale principium separationis dei processi adottato dal legislatore del 1988 - che consentono l'esercizio dell'azione civile nell'ambito del processo penale; quanto, soprattutto, il carattere evidentemente intenzionale della mancata regolamentazione dell'azione civile contro l'ente nell'ambito del procedumento disciplinato dal d.lgs. 231/01, e dunque della lacuna che si vorrebbe colmare in via analogica.
Nell'ipotesi, peraltro, in cui la Corte di giustizia dovesse confermare le conclusioni dell'Avvocato generale, sarà giocoforza vagliare nuovamente la resistenza di tali argomenti di fronte all'obbligo di interpretazione confrome del diritto interno al diritto UE: obbligo che partecipa del generale principio di primazia del diritto comunitario sul diritto interno, e che deriva direttamente dal più generale obbligo di leale (e reciproca) collaborazione tra Unione e Stati membri riconosciuto (oggi) dall'art. 4 § 3 TUE. Ben difficilmente potrebbe affermarsi, infatti, che la soluzione dell'ammissibilità della costituzione di parte civile contro l'ente (in applicazione analogica degli artt. 185 c.c. e 74 c.p.p.) costituisca addirittura un approdo ermeneutico contra legem, in assenza di alcun ostacolo insormontabile nella lettera delle norme vigenti. Gli argomenti storici e sistematici che vi si oppongono potrebbero se del caso essere superati nel quadro di un'interpretazione che miri ad assicurare piena effettività al diritto della vittima del reato di cui all'art. 9 § 1 della decisione quadro più volte citata, anche nelle ipotesi - marginali fin che si vuole, ma contemplate dalla legislazione vigente - in cui il processo sia instaurato o debba proseguire soltanto nei confronti dell'ente, e nelle quali dunque il meccanismo della citazione dell'ente come responsabile civile non può strutturalmente operare.
Il fattore nuovo 'obbligo di interpretazione conforme al diritto sovranazionale' verrebbe, così, a rovesciare l'esito ermeneutico che ci era parso preferibile sulla base dello strumentario - tutto concepito nell'ottica del diritto nazionale - dell'interpretazione storica e sistematica: analogamente, del resto, a quanto è tante volte accaduto negli ultimi anni nel nostro paese, in relazione all'estensione analogica delle norme in tema di assunzione protetta e anticipata della testimonianza di vittime vulnerabili (caso Pupino), e ancora in materia di mandato di arresto europeo, di eccezioni alla forza esecutiva o all'irrevocabilità del giudicato penale, etc. (per questi e ulteriori esempi, e in generale per una più distesa illustrazione dell'impatto dell'obbligo di interpretazione conforme sui tradizionali canoni dell'interpretazione storica, sistematica e teleologica, si consenta il rinvio a Viganò, Il giudice penale e l'interpretazione conforme alle norme sopranazionali, in P. Corso - E. Zanetti (a cura di), Studi in onore di Mario Pisani, La Tribuna, 2010, pp. 642 ss.).
7. Se a un tale esito dovrà pervenire il giudice ordinario italiano - naturalmente tenendo fermo il principio che la costituzione di parte civile contro l'ente è mero strumento processuale per ottenere dall'ente il medesimo ristoro che si potrebbe altresì ottenere dalla persona fisica autrice del reato, evitando in ogni caso artificiose duplicazioni dell'unica posta risarcitoria - è però presto per dirlo: la parola decisiva spetterà, infatti, alla Corte di giustizia dell'Unione europea, che dovrà a questo punto esprimersi sulla questione pregiudiziale qui esaminata, tenendo conto dell'avviso dell'Avvocato generale ma anche, naturalmente, delle obiezioni dei governi intervenuti, primo fra tutti quello italiano.