25 febbraio 2013 |
La Cassazione sul caso Fiorito: è peculato l'utilizzazione a scopi personali dei contributi regionali per il gruppo consiliare
Cass., Sez. VI, 3 dicembre 2012 (dep. 9 gennaio 2013) Sent. n. 1053, Pres. Agrò, Est. Paoloni, Ric. F.
1. La Corte di cassazione si pronuncia sulla nota vicenda giudiziaria che ha coinvolto Franco Fiorito, ex presidente del gruppo consiliare PdL costituito in seno al Consiglio regionale del Lazio.
Con la sentenza n. 1053/2013 la Suprema Corte rigetta il ricorso per saltum presentato dall'indagato avverso il decreto di sequestro preventivo emesso dal G.I.P. presso il Tribunale di Roma e riguardante denaro e beni appartenenti allo stesso Fiorito, tra cui un immobile e tre autovetture.
Il provvedimento cautelare si fonda sull'accusa di peculato (o meglio sull'addebito di più fattispecie di peculato in continuazione) mossa all'indagato per essersi appropriato, nell'esercizio della pubblica funzione di capogruppo consiliare, di considerevoli somme di denaro appartenenti al gruppo PdL dal medesimo presieduto; somme derivanti da contributi erogati dalla regione Lazio ai sensi dell'art. 3bis della L. R. n. 7/1973, secondo cui ciascun gruppo "ha diritto ad un contributo mensile per le spese di aggiornamento studio e documentazione compresa l'acquisizione di collaborazioni nonché per diffondere tra la società civile la conoscenza dell'attività dei gruppi consiliari, anche al fine di promuoverne la partecipazione all'attività dei gruppi stessi e particolarmente all'esame delle questioni ed all'elaborazione di progetti e proposte di leggi e di provvedimenti di competenza del Consiglio regionale".
2. La vicenda appare sufficientemente chiara dal punto di vista fattuale: i contributi erogati dalla Regione Lazio in favore del gruppo PdL sono confluiti in un conto corrente intestato al medesimo gruppo ed affidato alla gestione dell'indagato.
Quest'ultimo, nel corso del biennio 2010-2012, realizzava su tale denaro varie condotte appropriative, trasferendo ingenti somme verso conti a sé intestati ed utilizzando altre risorse per svariati acquisti di natura personale. Ulteriori fatti di peculato riguarderebbero l'intestazione abusiva di due autovetture (una BMW X5 ed una Smart), acquistate in un primo momento in nome del gruppo e successivamente trasferite dallo stesso Fiorito alla propria persona, che figurava simultaneamente in qualità di cedente, in rappresentanza del gruppo stesso, e di cessionario.
Veniva altresì accertato che, grazie alle somme distratte, l'indagato otteneva una provvista di denaro utilizzata per acquistare una abitazione in San Felice al Circeo ed una vettura Jeep Wrangler.
Sulla scorta di tali emergenze il G.I.P., qualificati i fatti come peculato, ritenuta la sussistenza del pericolo di aggravamento e protrazione dell'illecito in relazione alla disponibilità in capo all'indagato delle somme distratte, delle tre autovetture e dell'immobile di San Felice al Circeo, e qualificati i predetti beni come profitto del reato assoggettabile a confisca ai sensi dell'art. 322ter c.p., provvedeva ad ordinarne il sequestro preventivo ai sensi dell'art. 321 c.p.p.
3. Le doglianze difensive riguardano la qualificazione giuridica del fatto e si incentrano sulla controversa natura dei gruppi consiliari che non ha trovato sistemazione univoca nella dottrina pubblicistica e in giurisprudenza.
Alcuni precedenti giurisprudenziali hanno riconosciuto al gruppo costituito all'interno di una assemblea legislativa la veste giuridica di associazione non riconosciuta di diritto privato, quali proiezione dell'omologo partito politico di riferimento (cfr: Cass. Civ., Sez. Lav., Sent. n. 11207 del 14 maggio 2009; Cass. Sez. Un. Civili, Sent. n. 3335 del 19.02.2005; Cons. Stato, Sez. IV, Sent. n. 932 del 28 ottobre 1992). Sulla scorte di tali precedenti si è sostenuto che, così come è privato il gruppo consiliare, non potrebbe che essere soggetto privato il suo presidente, con la conseguenza di escludere la sua qualifica soggettiva di pubblico ufficiale.
Il trasferimento di denaro pubblico da parte della Regione in favore di un ente di diritto privato, inoltre, farebbe venir meno la natura pubblicistica delle risorse così trasferite.
La difesa di Fiorito cita anche una decisione della Cassazione penale, con la quale si sarebbe riconosciuta la valenza politica dei gruppi consiliari e la possibilità di considerare attività tipica del gruppo anche quella esterna al funzionamento istituzionale dell'assemblea legislativa. In questa sentenza vengono effettivamente riconosciute due tipologie di compiti espletati dai gruppi: una inerente alla organizzazione e svolgimento dei lavori consiliari, l'altra consistente in attività esterna al Consiglio e di raccordo con la società civile (Cass. Pen., Sez. VI, Sent. n. 33069 del 12 maggio 2003, in relazione all'attività di un gruppo consiliare della Provincia Autonoma di Trento e Bolzano; la Corte peraltro esclude il reato di peculato non in ragione della asserita natura privatistica dell'ente collettivo, ma in quanto i fondi sarebbero stati impiegati per finalità politiche, non contrastanti, quindi, con il generico vincolo di destinazione loro impresso).
In definitiva, conclude la difesa, attesa la natura di reato proprio del peculato, che può essere commesso esclusivamente da un soggetto provvisto della qualifica di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio, e riconosciuta la valenza privatistica dell'ente offeso e del suo presidente, i fatti contestati al Fiorito andrebbero inquadrati nell'appropriazione indebita ex art. 646 c.p., eventualmente aggravata, o nella malversazione a danno della Regione ai sensi dell'art. 316bis c.p.
4. La sentenza della Corte di cassazione "smonta" le argomentazioni difensive procedendo ad una verifica della presenza dei requisiti oggettivi del fatto di peculato, con particolare riguardo al soggetto attivo e alle cause fondanti la disponibilità del bene oggetto di appropriazione.
a) Cominciando dal primo profilo problematico, inerente la qualifica soggettiva, la Corte nega ogni rilevanza alla forma giuridica del gruppo consiliare.
L'affermazione è sicuramente allineata alla nozione di pubblico ufficiale rilevante ai fini penali, fornita dall'art. 357 c.p, così come novellato ad opera della l. n. 86 del 1990, secondo cui: "agli effetti della legge penale, sono pubblici ufficiali coloro i quali esercitano una pubblica funzione legislativa, giudiziaria o amministrativa.
Agli stessi effetti è pubblica la funzione amministrativa disciplinata da norme di diritto pubblico e da atti autoritativi e caratterizzata dalla formazione e dalla manifestazione della volontà della pubblica amministrazione o dal suo svolgersi per mezzo di poteri autoritativi o certificativi".
Come è noto, con la novella del 1990 il legislatore ha configurato una concezione di pubblico ufficiale di stampo oggettivo-funzionale, indipendente dalla natura pubblica o privata dell'ente per il quale il soggetto opera.
L'irrilevanza a questi fini della forma giuridica dell'ente e della tipologia del rapporto di collegamento esistente tra ente e soggetto è costantemente riconosciuta da dottrina e giurisprudenza, dovendo i tratti salienti della pubblica funzione essere rinvenuti nell'attività concretamente esercitata.
b) La Corte si diffonde, poi, nel dimostrare che l'attività di capogruppo consiliare rappresenta una pubblica funzione rilevante ex art. 357 c.p.
Ritiene la Cassazione che "l'attività che in ragione del suo ruolo svolge il presidente di un gruppo consiliare regionale lo colloca in una posizione di particolare incidenza funzionale ed organizzativa nella vita del Consiglio regionale". Vengono a tal fine valorizzate le fonti normative regionali che disciplinano la Conferenza dei Presidenti di gruppo, la quale svolge un ruolo di organizzazione e calendarizzazione dei lavori assembleari e delle altre attività consiliari propedeutiche a quelle direttamente legiferanti. Il capogruppo, inoltre, indica i membri del proprio gruppo di appartenenza che compongono le commissioni operanti nel Consiglio regionale.
In ragione delle suddette prerogative, egli può considerarsi diretto partecipe della funzione legislativa regionale, in connessione peraltro con una disciplina dell'azione dei gruppi nell'ambito dell'assemblea legislativa regolamentata da norme di diritto pubblico (lo Statuto regionale ed il connesso Regolamento).
Appare palese ai supremi giudici l'incidenza del ruolo di presidente di gruppo nell'esercizio della funzione legislativa, quest'ultima peraltro considerata avente sempre natura pubblica ex art. 357 c.p.
Per opinione costante, all'interno della funzione legislativa rientra sicuramente l'attività dei parlamentari e dei consiglieri regionali, in quanto soggetti cui è devoluto il compito di concorrere alla produzione di atti normativi primari
Posto quindi che l'indagato è sicuramente pubblico ufficiale in quanto consigliere regionale, apprezzabile è lo sforzo interpretativo teso a ritagliare in favore del presidente di gruppo una propria funzione differenziata da quella del mero consigliere, nell'ottica evidentemente dell'altro requisito tipico del reato di peculato, ovvero l'esistenza di un nesso funzionale tra possesso o disponibilità del bene o del denaro ed esercizio dell'ufficio.
c) Il terzo punto dell'impianto argomentativo della sentenza riguarda, appunto, il requisito della disponibilità qualificata dell'oggetto materiale del reato, il quale deve trovarsi assoggettato ai poteri del disponente "per ragione del suo ufficio o servizio".
La Corte di legittimità ritiene che i poteri di amministrazione delle risorse finanziarie del gruppo consiliare esercitati da Fiorito abbiano trovato causa nel ruolo di presidente esercitato dal medesimo, realizzandosi così quella relazione qualificata tra il bene ed il pubblico ufficio: "è solo per effetto di tale carica che il Fiorito è venuto a trovarsi in possesso (giuridica disponibilità) delle erogazioni regionali".
Sul punto la motivazione della sentenza suscita, a dire il vero, qualche perplessità, sembrando accontentarsi di un rapporto causa-effetto di tipo materiale tra carica di presidente di gruppo ed amministratore delle sue finanze. Il ragionamento si fonda sulla considerazione che l'indagato, se non fosse stato capogruppo, non sarebbe neppure divenuto titolare dei poteri dispositivi dei quali ha abusato. Tace invece riguardo ai nessi giuridici intercorrenti tra la carica di presidente di gruppo ed il ruolo di amministratore del patrimonio del medesimo.
Ove si opti per una ricostruzione in senso privatistico della natura dei gruppi consiliari, pare assumere rilevanza la dinamica di affidamento degli incarichi gestori della "cassa" dello stesso ente collettivo.
In questa ipotesi, solo se i poteri dispositivi e gestori di cui Fiorito ha abusato rappresentano poteri tipici riconosciuti per legge, consuetudine o prassi al presidente di gruppo in quanto tale può dirsi integrato il possesso per le ragioni di ufficio o servizio; più controversa la soluzione, invece, se detti poteri derivano da una autonoma investitura proveniente dal gruppo stesso, quale esplicazione di un atto di autonomia privata libero di individuare l'amministratore anche in persona esterna alla cerchia dei consiglieri.
In quest'ultimo caso sfumerebbe il nesso funzionale tra disponibilità giuridica del denaro e carica pubblica ricoperta, con la conseguente necessità di verificare la qualifica di intraneo rispetto all'ufficio di amministratore del gruppo e non a quello di suo presidente; il parametro valutativo dovrebbe coerentemente incentrarsi nel secondo comma dell'art. 357 c.p., in relazione alla pubblica funzione di natura amministrativa, e non legislativa.
Difatti, le prerogative del presidente di gruppo, che lo denotano come incaricato di funzioni particolari nel procedimento legislativo, si esauriscono all'interno dei rapporti con il Consiglio regionale e non sembrano estendersi alla amministrazione contabile del gruppo di appartenenza.
Unico elemento normativo di raccordo tra la carica di presidente di gruppo e l'attività gestoria dei contributi è rappresentato dall''art. 4 della L.R. Lazio n. 7/1973, che impone ai capigruppo un obbligo di rendiconto contabile circa l'impiego dei fondi erogati dalla Regione. Tale dato normativo potrebbe essere valorizzato per riconoscere una estensione della funzione pubblica del capogruppo anche al momento amministrativo-gestionale esterno, per lo meno sotto la forma dell'obbligo di controllo.
Sotto questo aspetto occorre dare atto che l'interpretazione giurisprudenziale prevalente intende il requisito della "ragione di ufficio o servizio" in senso estensivo, comprendente anche della disponibilità di fatto derivante da prassi o consuetudine ( Cass. pen., Sez. VI, 7 gennaio 2003, n. 9933) o addirittura di natura occasionale (Cass. pen., sez. VI, 13 maggio 2009, n. 20952). Si è anche ritenuto rilevante il possesso di mero fatto ottenuto in violazione delle norme regolatrici della funzione amministrativa esercitata (Cass. pen. Sez. VI, 21 febbraio 2002, n. 11417- vedi per queste sentenze - G. Lattanzi - E. Lupo, Codice penale, rassegna di giurisprudenza e dottrina, vol. VII a cura di M. Gambardella, sub art. 314).
La dottrina più attenta (v. ad es. il noto manuale di parte speciale di G.Fiandaca ed E.Musco) sottolinea, invece, l'importanza di salvaguardare in via interpretativa il vincolo funzionale giustificante la relazione tra agente e oggetto materiale del reato. Si nota come esso costituisce un presupposto fondante il disvalore specifico del reato di peculato, idoneo a qualificare la successiva condotta appropriativa, differenziandola così dalla ordinaria appropriazione indebita. Si richiede pertanto, ai fini dell'integrazione del delitto di peculato, che l'agente trovi la legittimazione a disporre del bene lui affidato dall'esercizio della funzione pubblica svolta cui è devoluta per legge, consuetudine o prassi, il possesso o la disponibilità del bene o del denaro.
Peraltro, confermerebbe la rilevanza nel caso di specie di una verifica della procedura di affidamento dell'incarico gestorio all'interno del gruppo (ove venisse considerato associazione di diritto privato) un orientamento giurisprudenziale secondo cui "il delitto di peculato, che richiede nel soggetto attivo il possesso del denaro o della cosa mobile per ragioni d'ufficio o di servizio, si differenzia nella sua stessa materialità dal delitto di appropriazione indebita aggravata ex art. 61, n. 9, c.p., la cui integrazione presuppone che il possesso sia stato devoluto all'agente intuitu personae, mentre l'abuso dei poteri o l'inosservanza dei doveri servono al medesimo non già per procurarsi quel possesso, ma ad agevolarlo nella realizzazione della condotta tipica" (cfr: Cass. pen., Sez. VI, sent. n. 34884/2007; Cass. pen. Sez. VI, Sent. 8 novembre 1988).
d) La sentenza della Cassazione disattende infine due ulteriori rilievi difensivi.
E' in primo luogo irrilevante la (ritenuta) proprietà esclusivamente privata delle somme distratte, in considerazione della nozione di "altruità" che contrassegna il bene oggetto di appropriazione ex art. 314 c.p.
I giudici ricordano come, ai fini dell'integrazione della fattispecie in parola, sia sufficiente che il bene mobile o il denaro sia "altrui", non rilevando in alcun modo l'appartenenza ad un soggetto pubblico o privato. Nell'impostazione difensiva riecheggia un riferimento alla vecchia fattispecie del peculato, limitata nella sua tipicità all'appropriazione di cosa appartenente alla pubblica amministrazione, mentre la condotta aggressiva diretta verso un bene del privato integrava il diverso delitto di malversazione.
Secondariamente, la Suprema Corte, nega che nel caso di specie si ponga un problema di limiti del sindacato giurisdizionale in ordine alla utilizzazione dei contributi regionali, posto che la condotta di cui è accusato l'indagato appalesa, per le sue modalità, uno sviamento delle somme ad esclusivo profitto personale, non venendo "in alcun modo in discussione, come più volte chiarito, la eventuale finalizzazione di segno latamente <> delle accertate indebite spese e autoassegnazioni del denaro del gruppo consiliare regionale". Emergerebbe così ictu oculi lo sviamento delle risorse rispetto al fine di garantire il buon funzionamento del gruppo consiliare.
e) Viene infine rigettato anche il motivo di ricorso volto ad inquadrare il fatto nel reato di malversazione ai danni della Regione ai sensi dell'art. 316-bis c.p., norma che incrimina "chiunque, estraneo alla pubblica amministrazione, avendo ottenuto dallo Stato o da altro ente pubblico o dalle Comunità europee contributi, sovvenzioni o finanziamenti destinati a favorire iniziative dirette alla realizzazione di opere o allo svolgimento di attività di pubblico interesse, non li destina alle predette finalità".
Tale fattispecie configura un reato proprio che può essere commesso esclusivamente da colui che sia destinatario di contributi, sovvenzioni o finanziamenti assoggettati ai suddetti vincoli di scopo, ed al contempo sia un soggetto estraneo alla P.A. La sentenza nega la presenza degli indicati presupposti soggettivi in capo all'indagato, ribadendo la sua non estraneità alla pubblica amministrazione in ragione della pubblica funzione legislativa di consigliere regionale da egli esercitata, oltre che della titolarità di un dovere di controllo sul vincolo di destinazione impresso ai contributi erogati e di un obbligo di rendicontazione in merito al loro concreto utilizzo.
La soluzione cui perviene la Corte di cassazione su tale punto rappresenta, quindi, la conseguenza logica dell'aver già ritenuto integrato il delitto di peculato, non potendo le due fattispecie concorrere, in quanto strutturalmente incompatibili.
Non viene quindi comprensibilmente fatto cenno alle diverse opinioni esistenti in merito all'esatto significato di "persona estranea alla pubblica amministrazione" (se non tramite il rinvio a Cass. pen., sez. VI, Sent. n. 41178/2005; vedi invece per una breve panoramica: P. Troiano, Tutela penale delle pubbliche sovvenzioni malversazione a danno dello Stato - art. 316-bis, in Cass. Pen., 2008, 10, 3826 ss.) dato che certamente non è tale colui che ha commesso il fatto esercitando una funzione rilevante ex art. 357 c.p.
Rimane del pari assorbita l'interessante questione riguardante la disciplina penale della distrazione dei contributi pubblici commessa da persona estranea alla P.A. laddove colui che li ha "ottenut[i] dallo Stato o da altro ente pubblico" abbia natura di soggetto collettivo. Dovendo ogni associazione o società agire necessariamente tramite persone fisiche che ne esternano la volontà, possono verificarsi fatti di malversazione realizzati dal soggetto attivo a proprio esclusivo vantaggio, che si risolvono quindi anche in un danno patrimoniale per l'ente che egli rappresenta, oltre che in una lesione dell'interesse pubblico al rispetto del vincolo di destinazione del contributo.