ISSN 2039-1676


5 novembre 2011 |

Corte cost., 4 novembre 2011, n. 287, Pres. Quaranta, Rel. Lattanzi (circolazione del custode con veicolo sequestrato e peculato d'uso)

La Corte prospetta – con l’usuale addebito della omessa sperimentazione della corrispondente soluzione interpretativa – che la contravvenzione di cui al comma 4 dell’art. 213 C.d.s. (circolazione abusiva con veicolo sequestrato) si trovi in rapporto di specialità con il delitto di peculato (art. 314 c.p.), con conseguente irrilevanza penale del fatto

La Corte costituzionale interviene, a non lunga distanza da un importante arresto delle Sezioni unite della Cassazione, sulla qualificazione giuridica della condotta di chi circoli abusivamente con un veicolo sottoposto a sequestro amministrativo in vista dell’eventuale confisca.
 
Com’è noto la questione è stata ampiamente dibattuta, in giurisprudenza, riguardo alle condotte tenute dal custode del mezzo (in qualità di proprietario od a vantaggio del proprietario medesimo) ed all’eventuale qualificazione penalistica di tali condotte come fatti di sottrazione di cosa in sequestro (art. 334 c.p.).
Secondo un primo indirizzo, sussisterebbe un rapporto di specialità tra la norma sanzionatoria amministrativa (comma 4 dell’art. 213 C.d.s.) e la citata fattispecie del codice penale, di talché, secondo il principio espresso all’art. 9 della legge n. 689 del 1981, dovrebbe applicarsi solo la sanzione amministrativa. Stando all’indirizzo opposto, poiché non sussisterebbe il prospettato rapporto di specialità, il fatto sarebbe penalmente rilevante, restando da stabilire se debba poi essere applicata anche la sanzione amministrativa.
La prima delle tesi ha trovato recentemente l’avallo delle Sezioni unite della Cassazione (sent. 28 ottobre 2010, n. 1963/11, ric. P.G. in c. Di Lorenzo, pubblicata in questa Rivista, con nota di BENUSSI, Solo un illecito amministrativo per il custode sorpreso a circolare con il veicolo sottoposto a sequestro amministrativo, ed anche in Dir. pen proc. 2011, 848, con nota di VALLINI, Giusti principi, dubbie attuazioni: convergenza di illeciti in tema di circolazione di veicolo sottoposto a sequestro). La norma amministrativa comprenderebbe elementi che la specializzano rispetto a quella penale (l’uso della cosa a fini di circolazione stradale e la natura amministrativa del sequestro), e di natura specializzante (per aggiunta) sarebbe anche l’ulteriore elemento rappresentato dalla riferibilità dell’illecito a «chiunque», e non solo al proprietario o custode del bene sottoposto al vincolo. Insomma, il fatto non rileva ex art. 334 c.p.
 
L’occasione della pronuncia in commento è data dalla particolarità della concreta fattispecie perseguita nel giudizio a quo: il fatto, cioè, commesso dal custode non proprietario a proprio vantaggio, e non per favorire il proprietario stesso. Dato il contesto, il pubblico ministero ha ipotizzato il reato di peculato, ed il rimettente, con attendibile consequenzialità, ha escluso che potessero incidere direttamente sulla definizione del giudizio gli arresti giurisprudenziali pertinenti al delitto di cui all’art. 334 c.p.  
Poi un secondo passaggio del ragionamento. Sul presupposto che l’imputato avrebbe utilizzato il veicolo affidatogli per farne un uso momentaneo e poi «restituirlo» (cioè, in sostanza, non farlo ulteriormente circolare), il giudice ha ritenuto che potrebbe riconoscersi nella specie il cd. peculato d’uso  (secondo comma dell’art. 314 c.p.). Per l’integrazione della fattispecie, però, fa difetto un elemento essenziale, e cioè la effettiva «restituzione» della cosa sottratta: un adempimento che, per l’imputato, sarebbe stato impedito da una causa di forza maggiore, cioè dal nuovo sequestro che, ovviamente, è stato disposto quando si è accertato che circolava (essendone il custode) su un veicolo sottoposto a sequestro.
Terzo ed ultimo passaggio del ragionamento. Con la sentenza n. 1085 del 1988, la Corte costituzionale aveva dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 626, primo comma, numero 1), c.p., relativo al cd. «furto d’uso», nella parte in cui non estendeva la più favorevole disciplina in esso prevista alla mancata restituzione della cosa sottratta dovuta a caso fortuito o forza maggiore. Com’è noto, la pronuncia si era fondata sul primo comma dell’art. 27 Cost., e rappresenta uno dei capisaldi della giurisprudenza costituzionale in materia di colpevolezza. Ebbene – ha osservato il rimettente – se tutti gli elementi che contrassegnano il disvalore del fatto devono essere soggettivamente riferibili all’agente, non vi sarebbe ragione di distinguere tra furto d’uso e peculato d’uso, quando la mancata restituzione della cosa non sia rimproverabile all’agente. Di qui la richiesta di un intervento manipolativo sul secondo comma dell’art. 314 c.p., analogo a quello compiuto con la sentenza citata.
 
La Corte ha dichiarato la manifesta inammissibilità della questione proposta. Al rimettente si è rimproverata l’omessa verifica in merito all’eventualità che, sussistendo ragioni analoghe a quelle valutate dalle Sezioni unite, debba essere identificato un rapporto di specialità anche con riguardo, per un verso, alla fattispecie amministrativa dell’art. 213 C.d.s., e per l’altro verso all’art. 314 c.p.
In effetti, se quel rapporto sussistesse, il fatto perseguito nel giudizio a quo sarebbe penalmente neutro, e comunque la questione sollevata sarebbe irrilevante, non dovendo il rimettente fare applicazione della norma censurata. Insomma, «omessa sperimentazione» di una soluzione interpretativa utile ad escludere, per il caso concreto, il vulnus denunciato da giudice a quo. Inammissibilità (manifesta), dunque, della questione sollevata.
 

È appena il caso di sottolineare la cautela che deve accompagnare la valutazione delle pronunce di inammissibilità «su base interpretativa». Sta di fatto, però, che la Corte non è solita censurare l’incompletezza del ragionamento dei giudici rimettenti con riguardo a soluzioni ermeneutiche che siano prive di ogni attendibilità.