ISSN 2039-1676


13 marzo 2017 |

La Corte di Strasburgo condanna l’Italia per la mancata tutela delle vittime di violenza domestica e di genere

Commento a Corte E.D.U., Sezione Prima, sent. 2 marzo 2017, Talpis c. Italia

Contributo pubblicato nel Fascicolo 3/2017

Per leggere il testo (in lingua francese) della sentenza in commento, clicca qui.

 

1. Con la sentenza in commento, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato l’Italia per violazione del diritto alla vita e del divieto di trattamenti inumani e degradanti, nonché del divieto di discriminazione in quanto le autorità italiane non sono intervenute per proteggere una donna e i suoi figli vittime di violenza domestica perpetrata da parte del marito, avallando di fatto tali condotte violente (protrattesi fino al tentato omicidio della ricorrente e all’omicidio di un suo figlio): in particolare, viene contestato allo Stato italiano la mancata adozione degli obblighi positivi scaturenti dagli art. 2 e 3 della Convenzione.

 

2. Ma vediamo più nel dettaglio la vicenda sottoposta al vaglio del giudice europeo. Nel settembre 2012, la ricorrente, dopo l’ennesima violenza subita dal marito, presenta denuncia per maltrattamenti contro familiari, lesioni e minacce, chiedendo altresì alle autorità di adottare misure urgenti al fine di proteggere lei e i propri figli. Tuttavia, tali misure non vengono disposte né alcun atto d’indagine viene compiuto fino all’aprile 2013, quando la ricorrente, sentita dalla polizia sette mesi dopo il deposito della denuncia, rettifica le sue iniziali dichiarazioni, “ammorbidendo” le accuse nei confronti del marito. Sulla scorta della nuova versione della donna, e non essendo a conoscenza di nuovi episodi di violenza, il pubblico ministero chiede e ottiene l’archiviazione per il reato di maltrattamenti, mentre viene disposto il rinvio a giudizio davanti al giudice di pace per il reato di lesioni. Qualche giorno dopo aver ricevuto l’atto di citazione innanzi al giudice di pace, il marito della ricorrente uccide un figlio e tenta di uccidere la donna. Nel 2015, l’uomo viene condannato all’ergastolo per omicidio, tentato omicidio, maltrattamenti in famiglia e porto d’armi vietate.

 

3. La ricorrente lamenta la violazione da parte dell’Italia degli art. 2, 3 e 8 della Convenzione, in quanto le autorità italiane, benché avvertite della pericolosità del marito, non hanno adottato le misure necessarie e appropriate per proteggere la sua vita e quella dei suoi figli.

Secondo il Governo italiano, invece, le autorità non sapevano né potevano sapere che la ricorrente e la sua famiglia fossero in pericolo, in quanto i precedenti episodi di violenza segnalati dalla stessa ricorrente lasciavano presumere dei semplici conflitti familiari; né, a parere del Governo italiano, il lasso temporale fra il deposito della denuncia e l’audizione della ricorrente ha lasciato la ricorrente esposta alle violenze del marito.

 

4. Il giudice europeo, dopo aver inquadrato le doglianze sotto il profilo degli art. 2 e 3 Cedu, rammenta come da tali disposizioni scaturisca a carico dello Stato l’obbligo positivo di proteggere le persone vulnerabili, fra cui rientrano le vittime di violenze domestiche[1], attraverso misure idonee a porle al riparo da aggressioni alla propria vita e integrità fisica[2]; al  contempo, precisa però che tale obbligo sorge solo laddove sia provato che le autorità sapevano o avrebbero dovuto sapere che la persona in questione correva un reale ed imminente rischio per la sua vita e, ciononostante, non abbiano assunto le misure da considerarsi ragionevoli per neutralizzare tale rischio. Infine, viene ribadito come, oltre all’adozione di misure di protezione ad hoc, fra gli obblighi positivi[3] rientrino altresì i cosiddetti obblighi procedurali, dai quali discende il dovere per le autorità pubbliche di instaurare un procedimento penale effettivo e tempestivo[4]. Né, con riguardo all’art. 2 Cedu, la violazione del diritto alla vita può ritenersi esclusa per la mera circostanza che la persona da proteggere si sia eventualmente salvata[5].

Ricostruito il quadro dei principi applicabili in materia, la Corte di Strasburgo osserva come, nel caso di specie, dopo la denuncia, la vittima sia stata privata dell’immediata protezione che la situazione di vulnerabilità richiedeva: l’interessata è stata sentita solo dopo sette mesi dalla presentazione della denuncia la vittima; al contempo, nessuna misura di protezione è stata disposta a suo favore. Agli occhi del giudice europeo, le autorità nazionali, non agendo rapidamente dopo la denuncia, hanno privato la stessa di ogni efficacia, creando un contesto d’impunità favorevole alla ripetizione da parte del marito di atti di violenza nei confronti della moglie e della sua famiglia, culminati poi con l’omicidio del figlio e il tentato omicidio della ricorrente. Neppure può essere accolta l’obiezione del Governo, secondo cui non esisteva alcuna prova tangibile di un danno imminente per la vita della ricorrente e dei suoi figli. A tal fine, basta osservare come, persino la notte stessa dell’omicidio e del tentato omicidio, le forze dell’ordine per due volte fossero state poste nella condizione di limitare o addirittura impedire il concretizzarsi del rischio alla vita della ricorrente e dei suoi figli: una prima volta allertati dall’interessata; una seconda volta, nel corso di un controllo d’identità in cui l’omicida era apparso in stato di ubriachezza. In conclusione, agli occhi del giudice europeo, ricorrendo tanto la prevedibilità quanto l’evitabilità dell’evento[6], l’art. 2 Cedu risulta violato.

Analogamente, con riguardo all’art. 3 Cedu, la Corte europea dei diritti dell’uomo rileva come le violenze inflitte all’interessata, le quali si sono tradotte in lesioni corporali e in pressioni psicologiche, siano sufficientemente gravi da essere qualificate come maltrattamenti. Ciò premesso, le autorità nazionali, con la loro condotta passiva nello svolgimento delle indagini, hanno creato un  contesto d’impunità favorevole alla ripetizione di questi atti di violenza, venendo meno al loro obbligo, sancito anche dalla Convenzione d’Istanbul, di adottare tutte le misure necessarie affinché tutte le forme di violenza rientranti nel campo di applicazione della Convenzione siano trattate senza ritardi ingiustificati e prendendo in considerazione i diritti della vittima in tutte le fasi del procedimento penale.

Da ultimo, il giudice di Strasburgo reputa che la violazione delle disposizioni convenzionali sopra citate rappresenti una discriminazione di genere ai sensi dell’art. 14 Cedu: premesso che, affinché vi sia un trattamento discriminatorio non basta un mero mancamento o ritardo da parte delle autorità nello svolgimento del procedimento, dovendosi altresì constatare una reiterata tolleranza nei riguardi di quei fatti che riflettono un’attitudine discriminatoria verso la vittima in quanto donna, il giudice di Strasburgo ritiene che le autorità, sottostimando, con la loro inerzia, la gravità delle violenze subite dalla ricorrente, le abbiano di fatto approvate. Per di più, la Corte di Strasburgo non manca di sottolineare, al di là dell’episodio singolo, la gravità del problema delle violenze domestiche in Italia e la discriminazione che le donne subiscono a tal riguardo, come risulta da una serie di rapporti stilati da organismi sia nazionali che internazionali.

 

5. Peraltro, nonostante l’inconfutabilità dei drammatici dati statistici ripresi dal giudice di Strasburgo, in materia non mancano gli strumenti a disposizione dell’autorità giudiziaria per adempiere agli obblighi di protezione imposti dalla normativa convenzionale. Con riguardo agli obblighi procedurali, è sufficiente rammentare come il principio di obbligatorietà dell’azione penale di cui all’art. 112 Cost. esiga il compimento di un’indagine adeguata ed effettiva[7], cosicché la condotta passiva delle autorità appare rimproverabile già sul piano del diritto interno.

Quanto alle misure di protezione, se il codice del 1988 non contemplava «al di là della detenzione provvisoria, nessuna cautela … in grado di soddisfare appieno i bisogni di protezione della vittima intesa come individuo»[8], a partire dal 2001, tanto per dare piena attuazione alle fonti sovranazionali[9] quanto sulla spinta di logiche emergenziali, è stata introdotta una serie di misure cautelari di natura special-preventiva[10] dirette a tutelare, non più la collettività, ma la vittima debole[11] (intesa come soggetto determinato)[12], con riguardo soprattutto alle violenze e aggressioni consumate nell’ambito familiare o comunque affettivo: si fa riferimento agli ordini di protezione civilistici di cui all’art. 342-bis e 342-ter c.c.; alla misura coercitiva dell’allontanamento dalla casa familiare ex art. 282-bis c.p.p., con una dimensione spaziale che trascende l’ambiente domestico e con un’applicazione per i reati intrafamiliari tassativamente indicati che prescinde dai limiti edittali previsti in generale dall’art. 280 c.p.p.; al divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa ai sensi dell’art. 282-ter c.p.p.[13]. Si tratta di misure con cui il nostro ordinamento ha tentato di dare attuazione all’interesse della vittima a ricevere un’adeguata ed efficace protezione «per mezzo del procedimento penale», riconoscendole il diritto di «essere protetta da ulteriori azioni criminose da parte dell’aggressore (cd. vittimizzazione ripetuta)»[14], attraverso la predisposizione di strumenti che mirino ad evitare nuovi contatti pericolosi con il presunto aggressore e che, invece, nel caso di specie, non hanno trovato applicazione (nonostante la stessa interessate avesse richiesto l’adozione di misure di protezione ad hoc).

 

 

[1] Cfr. C. eur. dir. uomo, sez. III, sent. 9 giugno 2009, Opuz c. Turchia, richiamata dalla sentenza in commento per l’enunciazione dei principi generali in materia di violenze domestiche.

[2]  In tema di obblighi positivi a tutela di persone preventivamente individuabili come potenziali vittime di aggressioni, i leading cases sono rispettivamente rappresentati, con riguardo agli art. 2 e 3 Cedu, da C. eur. dir. uomo, grande camera, sent. 28 aprile 1998, Osman c. Regno Unito, e da C. eur. dir. uomo, grande camera, sent. 10 maggio 2001, Z. e altri, c. Regno Unito.

[3] Per una classificazione degli obblighi positivi di cui all’art. 2 e 3 Cedu in obblighi di protezione, obblighi di repressione penale e obblighi procedurali, v. A. Colella, sub art. 3, in Corte di Strasburgo e giustizia penale, a cura di G. Ubertis. - F. Viganò, Torino, 2016, p. 65; sotto il profilo dell’art. 3 Cedu, inoltre, cfr. F. Zacchè, Le cautele fra prerogative dell’imputato e tutela della vittima, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2015, p. 652-653.

[4] In argomento, v. F. Cassibba, sub art. 3, in Corte di Strasburgo e giustizia penale, cit., p. 84 ss.

[5] Cfr., già, C. eur. dir. uomo, sez. V, dec. 24 aprile 2012, Iliya Petrov c. Bulgaria, § 54; C. eur. dir. uomo, sent. 9 giugno 1998, L.C.B. c. Regno Unito, § 36. Sul punto, v. S. Zirulia, sub art. 2, in Corte di Strasburgo e giustizia penale, cit., p. 41, il quale osserva come si tratti di «situazioni che sarebbero altrimenti riconducibili all’art. 3 Cedu».

[6] Sulla necessità che sussistano questi requisiti affinché lo Stato possa reputarsi responsabile dell’evento lesivo della vita di una persona, v. S. Zirulia, sub art. 2, cit., p. 55-56, il quale rileva come, per un verso, la prevedibilità del pericolo sia valutata «in considerazione della pericolosità e/o vulnerabilità delle particolari persone coinvolte» (ivi, p. 55-56, nota 108)  e, per l’altro, «la mancata adozione di ragionevoli misure disponibili che avrebbero avuto una concreta  prospettiva di evitare l’evento [sia] sufficiente a innescare la responsabilità dello Stato» (ivi, p. 56, nota 109) , non occorrendo dimostrare che l’omissione dello Stato abbia costituito una conditio sine qua non dell’evento. 

[7] In argomento, cfr. G. Ubertis, Giusto processo (diritto processuale penale), in Enc. dir., Annali, II, Milano, 2008, p. 431-432; nonché F. Cassibba, sub art. 3, cit., p. 87.

[8] F. Zacchè, Le cautele fra prerogative dell’imputato e tutela della vittima, cit., p. 650. In generale, sul ruolo marginale attribuito alla vittima dal codice del 1988, cfr. H. Belluta, As is, to be: vittime di reato e giustizia penale tra presente e futuro, in Studi in ricordo di Maria Gabriella Aimonetto, a cura di M. Bargis, Milano, 2013, p. 143; C. Cesari, La vittima nel rito penale: le direttrici della lenta costruzione di un nuovo ruolo, in Giur. it., 2012, p. 464; P.P. Paulesu, Persona offesa dal reato, in Enc. dir., Annali, II, I, Milano, 2008, p. 596.

[9] All’interno delle quali, vi è stato il riconoscimento di un vero e proprio statuto della vittima: v., per tutti, G. Aimonetto, La valorizzazione del ruolo della vittima in sede internazionale, in Giur. it., 2005, p. 1327 ss.; H. Belluta, Un personaggio in cerca d’autore: la vittima vulnerabile nel processo penale italiano, in Lo scudo e la spada. Esigenze di protezione e poteri delle vittime nel processo penale tra Europa e Italia, Torino, 2012, p. 95 ss. Senza pretese di completezza, si ricordano così la Decisione quadro 2001/220/GAI del 15 marzo 2001, relativa alla posizione della vittima nel procedimento penale; la Convenzione sulla protezione dei minori dallo sfruttamento e dagli abusi sessuali di Lanzarote, del 25 ottobre 2007; la Convenzione sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica di Istanbul, dell’11 maggio 2011; la Direttiva 2012/29/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 25 ottobre 2012.

[10] Così F. Zacchè, Vecchi automatismi cautelari e nuove esigenze di difesa sociale, in Il “pacchetto sicurezza” 2009 (Commento al d.l. 23 febbraio 2009, n. 11 conv. in legge 23 aprile 2009, n. 38 e alla legge 15 luglio 2009, n. 94), a cura di O. Mazza – F. Viganò, Torino, 2009, p. 285.

[11] G. Canzio, La tutela della vittima nel sistema delle garanzie processuali: le misure cautelari e la testimonianza “vulnerabile”, in Dir. pen. proc., 2010, p. 987, parla di «un vero e proprio microsistema di strumenti cautelari a tutela della ‘persona offesa’».

[12] Cfr. D. Negri, Le misure cautelari a tutela della vittima: dietro il paradigma flessibile, il rischio di un’incontrollata prevenzione, in Giur. it., 2012, p. 467; L. Pistorelli, Misure contro la violenza nelle relazioni familiari: allontanamento dalla casa familiare; pagamento di un assegno, in, Diritto penale della famiglia, a cura di S. Riondato, Milano, 2002, p. 90.

[13] Va altresì rammentato che, ai sensi dell’art. 284 comma 1-bis c.p.p., nell’applicazione della misura degli arresti domiciliari, il giudice deve considerare le prioritarie esigenze della persona offesa. Per un’analisi approfondita degli interventi normativi in materia, v. F. Zacchè, Le cautele fra prerogative dell’imputato e tutela della vittima, cit., p. 655 ss. (nonché, con riguardo ai diritti informativi riconosciuti alla vittima all’interno del procedimento cautelare, dopo l’attuazione della direttiva 2012/29/UE da parte del d.lgs. 15 dicembre 2015 n. 212, Id., Il sistema cautelare a tutela della vittima, in Arch. pen. [web], 2016, n. 3, p. 9 ss.). Inoltre, nell’ottica dell’ordine di protezione europeo, volendo R. Casiraghi, Il procedimento di emissione dell’ordine di protezione europeo, in L’ordine europeo di protezione. La tutela delle vittime di reato come motore della cooperazione giudiziaria, a cura di H. Belluta – M. Ceresa-Gastaldo, 2016,  Torino, p. 69 ss.  

[14] M. Simonato, Deposizione della vittima e giustizia penale, Padova, 2014, p. 28, da cui è tratta anche la citazione precedente.