ISSN 2039-1676


12 aprile 2017 |

G. Mannozzi e G. Lodigiani (a cura di), Giustizia riparativa. Ricostruire legami, ricostruire persone. Bologna, 2015

Recensione

1. Quest’opera rappresenta un punto di riferimento per gli studiosi che si occupano di Giustizia riparativa e un punto di inizio per chiunque voglia avvicinarsi al tema attraverso un approccio poliedrico e multidisciplinare. Il libro si pone come prosecuzione di un percorso avviato attraverso il docufilm «Restorative Justice». Viaggio alla scoperta della giustizia riparativa, ideato e realizzato dal Centro studi sulla giustizia riparativa e la mediazione (CeSGReM) dell’Università degli Studi dell’Insubria. Gli spunti di riflessione suggeriti dal docufilm ed evocati dalle immagini vengono, in quest’opera collettanea, raccolti e approfonditi da autorevoli studiosi, i quali fotografano il tema della giustizia riparativa da diverse prospettive d’indagine.

 

2. Il libro, come il docufilm, si sviluppa sulla scia di un percorso, un viaggio appunto, che prende le mosse dalle riflessioni giusfilosofiche di Curi e Lombardi Vallauri sul significato allegorico della giustizia, rappresentata nella tradizione iconografica classica dalla costante simbolica della donna bendata con la bilancia nella mano sinistra e la spada nella destra: una dike imparziale, retributiva, che impone l’ordine attraverso la vis publica. Gli autori ripercorrono le immagini di giustizia elaborate nella storia, dalla cultura greca al pensiero Kantiano, per presentare la restorative justice come la modalità più innovativa di pensare la composizione del conflitto tra Stato, reo e vittima. Una giustizia che è altra rispetto a quella cristallizzata nel paradigma razionale e umanistico – ove la pena rimane comunque intimamente legata ad una forma di vendetta – al cui centro si pone la persona, nella triplice forma di vittima, reo e danneggiato. Colombo, che chiude la prima parte relativa all’indagine prospettica svolta dai giusfilosofi, avvicina il tema della giustizia pensata a quello della giustizia praticata e introduce così la delicata questione della compatibilità del sistema punitivo attuale italiano con i principi della Carta Costituzionale, tra i quali è cardine la tutela della dignità personale. Il riconoscimento della pari dignità degli esseri umani di fronte alla legge comporta che il compito della comunità nei confronti di chi ha violato le regole non è quello di escludere, secondo una logica di retribuzione e separazione, ma re-includere, ovvero ricucire, attraverso meccanismi riparativi, la relazione spezzata tra il responsabile dell’illecito, la vittima e la comunità.

 

3. La riflessione filosofica cede quindi il passo alla successiva e delicata parte relativa alla prospettiva penalistica e processualpenalistica, nella quale si affronta – ed è sicuramente una delle parti più interessanti dell’opera per gli operatori del diritto – il difficile (e possibile?) rapporto tra giustizia riparativa e giustizia punitiva. Palazzo tratteggia mirabilmente i passaggi necessari per l’imprescindibile svolta culturale: perché la giustizia riparativa passi dallo stadio di costruzione concettuale a motore dell’universo penalistico, occorre che si faccia strada un diverso paradigma culturale della pena. Benché infatti si sia creduto di affrancare il sistema attuale dalla logica retributivo-proporzionale, nella dimensione reale la rieducazione, lungi dall’essere il vero scopo del punire, è limitata ad arginare la violenza della pena e la deterrenza, invece, continua a guidare la mano del legislatore e del giudice verso quello che viene definito un orizzonte di “terrorismo sanzionatorio”. Il risultato è la sconfitta del sistema, resa sempre più evidente dai persistenti altissimi tassi di recidivismo. Di fronte a questo scenario, la giustizia riparativa non si pone come alternativa al sistema ma come strumento complementare. Ruggieri affronta quindi il problema di come ideare un rapporto sinergico tra giudizio penale e restorative justice, posto che la natura privatistica della mediazione sembra contrapporsi alla natura autoritativa di un processo regolato dal principio di obbligatorietà dell’azione penale e dal monopolio dell’autorità pubblica nell’accertare il reato e irrogare la sanzione. Tuttavia, forme di giustizia riparativa sono già entrate all’interno dei microsistemi processuali penali, come nel processo penale minorile e nel processo avanti il giudice di pace. Di recente, è stato inoltre introdotto anche per gli adulti il meccanismo della sospensione del processo con messa alla prova, che è regolato da logiche ristorative e non meramente afflittive. Benché l’Autrice mantenga delle riserve sull’effettiva sinergia tra i due modelli, è indubbio che il sistema già preveda delle forme di contatto tra il paradigma autoritativo e quello consensuale. Eusebi, infatti, nel capitolo successivo, parla di restorative justice non più come rivoluzione ma come evoluzione: l’Autore propone di concepire la sanzione non come statica compensazione del torto, mediantela ripetizione del male, ma come progetto. Evidentemente una tale operazione richiede anzitutto una modifica del ruolo del giudice, che diviene dinamico. L’evoluzione risiede nel fatto che la sanzione non può essere fissa ma deve essere ritagliata su misura dell’individuo: il processo è quindi il luogo del dialogo anziché della sola difesa contro un’accusa. Se queste sono le premesse concettuali, Eusebi, e Mazzucato nel capitolo successivo, esprime serie preoccupazioni circa la scarsa applicazione degli strumenti della giustizia riparativa nel sistema attuale, privo, allo stato, di un vero interesse evolutivo. L’efficace titolo scelto da Mazzucato nei primi paragrafi del suo intervento recita infatti “la giustizia riparativa in Italia: se ne parla tanto…” “…ma si pratica poco”. L’Autrice sottolinea che, a scapito delle molte dichiarazioni espresse a livello istituzionale, la restorative justice rimane, soprattutto nel settore degli adulti, una bella teoria che si sforza di diventare pratica diffusa e accessibile (come peraltro richiesto dalle raccomandazioni dell’ONU e del Consiglio d’Europa). Manca una disciplina che regoli i programmi di mediazione, sciolga i nodi operativi riguardanti la formazione, l’imparzialità ed i doveri dei mediatori e, soprattutto, chiarisca gli effetti di questi strumenti sul processo e sulla risposta sanzionatoria al reato. In un momento in cui si parla di giustizia riparativa in ogni ambito penalistico, l’Autrice mette in guardia il lettore su cosa è e cosa non è giustizia riparativa: ricordando la definizione contenuta nella Risoluzione n. 12/2002 del Consiglio economico e sociale dell’ONU recante i Basic Principles in argomento, Mazzucato sottolinea l’importanza di distinguere la restorative justice dall’attuale deriva del sistema che utilizza questa etichetta per comprendere i lavori di pubblica utilità, il lavoro penitenziario gratuito esterno o qualsiasi prescrizione di volontariato sociale impartita da un giudice penale, come anche la messa alla prova.

 

4. Nel capitolo successivo, Donini propone una soluzione originale e accattivante: la giustizia riparativa deve essere concepita come premessa della pena e non come effetto. A differenza dell’opinione comune secondo la quale la sede naturale della giustizia riparativa è la fase esecutiva del processo, per Donini la forza della giustizia riparativa sta nella sua capacità di modificare geneticamente la pena costituendone una base epistemologica. Nel diritto penale classico, la configurazione della pena prescinde dalla riparazione dell’offesa o dal risarcimento del danno, che rappresentano eventualmente mere attenuanti, ovvero diminuzioni di pena che si innestano sulla cornice edittale originaria.  La vera rivoluzione sta invece nel pensare i confini edittali della pena in rapporto al fatto che siano avvenuti o meno la riparazione e il risarcimento del danno, sulla base di una scala discendente che parte dai delitti maggiormente irrimediabili e irreparabili ai delitti per i quali la riparazione estingue il conflitto. Tutti i casi di non punibilità per condotte riparatorie sopravvenute presenti nel nostro codice suggeriscono già l’idea che la politica criminale sia orientata a leggere la riparazione e il risarcimento in chiave costitutiva del rapporto punitivo e non solo attenuante. Per dare forma tecnica a questo dato, occorre una nuova regola di parte generale: il delitto riparato. L’Autore tratteggia quindi le caratteristiche e i confini di questo nuovo titolo autonomo di reato, da collocare a fianco del delitto tentato, che costituirebbe la soluzione, de lege ferenda, per dare alla restorative justice una razionalità costruttiva strutturale compatibile con le ragioni politico-criminali di premialità, orientando la sanzione penale alla diminuzione della sofferenza (sia per l’autore che per la vittima) e non al suo raddoppio.

 

5. Nella terza parte dell’opera, criminologi e psicoanalisti indagano l’intima connessione tra violenza e diritto: il diritto, pur nascendo per gestire la violenza, ne diviene mimesi, perchè si fonda sulla violenza stessa per poter esistere. Il paradosso viene rappresentato mediante un’efficace metafora: la giustizia classica opera come la medicina omeopatica, un phàrmacon che cura il malato utilizzando lo stesso principio venefico della malattia, secondo il principio similia similibus curantur. La giustizia riparativa, al contrario, si basa su un principio completamente differente: non è la violenza, seppur legittimata, a curare il male, ma il dialogo tra reo e vittima. Il dialogo permette alle parti coinvolte di riflettere sugli eventi in modo critico, recuperando la relazionalità perduta. Il lavoro sul passato, sulle origini profonde della violenza, è utile, secondo gli autori, per modificare il presente e riformulare le ipotesi progettuali del futuro. Ciò non ha nulla a che vedere con il concetto di perdono: il paradigma riparativo si propone di promuovere una reciproca assunzione di responsabilità, trasformando il ricordo del passato in volontà di superare il passato stesso, senza dimenticare. È la memoria del passato, che emerge con il dialogo, a curare la frattura attraverso la creazione di una nuova realtà condivisa.

 

6. L’ultima parte del libro è dedicata alla prospettiva pratica; è estremamente interessante vedere come gli operatori del diritto e del Terzo settore vedano il futuro della giustizia riparativa. Per il Giudice Lo Gatto, parlare di giustizia riparativa significa anzitutto chiedersi quale debba essere il ruolo del giudice. Il dibattito sull’attuale sistema sanzionatorio, la presa di coscienza delle sue ineliminabili contraddizioni e dell’effetto segregante delle pratiche punitive, impongono al giudice di lavorare in un’ottica di responsabilità sociale condivisa, per assicurare l’applicazione di una giustizia sociale sostenibile e solidale. D’altro canto, invece, il Consigliere Davigo mantiene una posizione molto critica e fin scettica nei confronti della giustizia riparativa: il sistema penale non riguarda solo il rapporto tra reo e vittima ma anche la previsione del comportamento futuro di altri individui. Ne consegue che non si può rinunciare alla deterrenza, il cui ruolo è evidentemente quello di rendere effettiva la minaccia di pena stabilita dal Legislatore. L’Autore ritiene che la giustizia riparativa sia uno strumento molto efficace ma solo per i reati che denotano una bassa pericolosità sociale: per tali fasce, però, sarebbe a questo punto più utile procedere con la depenalizzazione, lasciando ad altri organismi il compito di intervenire con modalità diverse da quelle tipicamente sanzionatorie.

 

7. La mediatrice Brunelli descrive la propria esperienza nelle carceri di Milano e di Pavia: al momento, la prassi applicativa degli strumenti riparativi è frammentaria e disomogenea ma i progetti di giustizia riparativa realizzati in alcune realtà carcerarie del Nord Italia (Milano, Bollate, Pavia) potrebbero rappresentare un modello di utilizzo dei conference grups, degli incontri di mediazione tra vittima e reo e con vittima a-specifica. L’Autrice descrive l’attività dei laboratori applicativi e spiega le parole chiave del percorso di mediazione. Il primo passo del procedimento è la reintroduzione della dimensione della vittima nella riflessione personale del soggetto, solitamente concentrato nel comunicare la propria sofferenza piuttosto che nell’esprimere consapevolezza circa l’esistenza della vittima ed i suoi sentimenti. L’ultima parola sulla prassi applicativa nel settore dell’esecuzione penale spetta a Villani, direttore del Centro Servizi Volontariato di Como. Villani delinea il ruolo delle organizzazioni no profit nel mondo della giustizia riparativa: i suoi strumenti, come il lavoro di pubblica utilità, implicano una fluida interrelazione tra la magistratura ed il Terzo settore. L’Autore spiega quindi l’attuale situazione con riferimento alla realtà territoriale nella quale opera e qual è il metodo adottato nell’orientare al volontariato gli individui che ne fanno richiesta, suggerendo tre interessanti ipotesi di lavoro per migliorare il ricorso alle misure alternative alla detenzione.

 

8. I curatori dell’opera completano l’affresco collettaneo sulla giustizia riparativa, descrivendo le potenzialità della restorative justice – che diventa restorative practice – anche al di fuori dall’orizzonte penalistico di origine. Grazie alla sua duttilità applicativa, i metodi della giustizia riparativa sono stati sperimentati anche in campi diversi e in ottica preventiva anziché reattiva: dai conflitti familiari a quelli di origine etnica o religiosa, dal bullismo scolastico agli atteggiamenti mobbizzanti nei luoghi di lavoro. Interessante l’esempio della piccola cittadina di Hull, nel Regno Unito, diventata una restorative city/administration. In questa comunità, descrivono gli Autori, per far fronte alla crisi economica e al degrado sociale che ne è conseguito, gli strumenti della giustizia riparativa sono stati esportati anche nel settore della scuola, del pubblico impiego e delle associazioni fornitrici di servizi no profit. La consapevolezza delle potenzialità universali della pratica riparativa ha portato i curatori dell’opera, Mannozzi e Lodigiani, insieme ad altri docenti, a ideare il progetto di «Umanesimo manageriale», avviato nel 2014 presso l’Università degli Studi dell’Insubria, il cui scopo è promuovere il profilo della persona indipendentemente dagli incarichi e dalle gerarchie funzionali. Attraverso momenti formativi di carattere umanistico e tecnico, si vuole coinvolgere la dimensione personalistica dell’individuo, incoraggiando la consapevolezza della diversità di interessi e creando possibilità di integrazione sul lavoro attraverso le diversità dell’extra lavoro.

Il libro si chiude con un ritorno all’immagine della giustizia, questa volta raffigurata insieme alle più nobili espressioni dell’intelletto umano, la filosofia, la teologia, la poesia: sintesi perfetta dell’opera descritta.