ISSN 2039-1676


25 gennaio 2013 |

Il caso Unicredit al vaglio della Cassazione: il patrimonio dell'ente non è confiscabile per equivalente in caso di reati tributari commessi dagli amministratori a vantaggio della società 

Cass., sez. III, 19 settembre 2 (dep. 10 gennaio 2013) n. 1256, Pres. Mannino, Rel. Rosi, ric. p.m. in proc. Unicredit S.p.a.

 

1. Con sentenza qui pubblicata (clicca sotto su downolad documento per scaricarla), la Cassazione ha chiuso la partita cautelare nel caso Unicredit, rigettando il ricorso presentato dal pubblico ministero avverso l'ordinanza del Tribunale del riesame di Milano a suo tempo già commentata [v. O MAZZA, La confisca per equivalente fra reati tributari e responsabilità dell'ente (in margine al caso Unicredit), in questa Rivista, 23 gennaio 2012] .

La vicenda è nota, anche per essere stata al centro delle cronache giudiziarie, e si può così riassumere: il G.i.p. presso il Tribunale di Milano aveva disposto il sequestro preventivo di quasi 250 milioni di euro considerati il profitto del delitto di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici (art. 3 d.lgs. 10 marzo 2000 n. 74) commesso da alcuni amministratori di Unicredit S.p.a. Il Tribunale del riesame di Milano aveva però annullato il provvedimento impugnato dalla difesa, ritenendo che la confisca e il sequestro per equivalente, pur applicabili anche al profitto di un reato tributario, non potessero riguardare somme di denaro appartenenti all'ente, mancando il presupposto della disponibilità delle stesse in capo agli amministratori, posto che non si trattava di una società-schermo utilizzata dagli indagati solo per proteggere il loro personale arricchimento.

Contro questa decisione ha proposto ricorso per cassazione la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Milano, sostenendo, in sintesi, la confiscabilità per equivalente del profitto in capo alle persone giuridiche (anche società non fittizie) quando i reati tributari siano stati commessi dagli amministratori a vantaggio dell'ente. Nelle more della decisione della Cassazione, Unicredit S.p.a. rendeva noto di aver definito il contenzioso tributario mediante accertamento con adesione.

 

2. La pronuncia in esame riguarda principalmente tre aspetti.

In primo luogo, l'eccezione della difesa di carenza di interesse del pubblico ministero all'impugnazione, dovuta alla sopravvenuta estinzione del debito tributario da parte della società "beneficiaria" del profitto derivante dal reato in materia di imposte. In realtà, la questione attiene, più in generale, alla possibilità o meno di sequestrare e confiscare il profitto del reato tributario quando il contribuente abbia già soddisfatto la pretesa fiscale. Nel rigettare l'eccezione della difesa, la Cassazione non si è limitata a ricordare, come pur avrebbe potuto, che le è precluso compiere un accertamento "di merito" riguardante la concreta corrispondenza delle somme versate al fisco dalla società rispetto a quelle oggetto di sequestro preventivo. Il supremo Collegio ha infatti colto l'occasione per affrontare anche la questione teorica della coincidenza concettuale del profitto del reato con la pretesa tributaria. A quest'ultimo riguardo, l'opinione espressa dalla pronuncia in esame è che la pretesa erariale, pur dai contorni, anche normativi, non ben definiti, non coincida appieno con il profitto del reato tributario. Per un verso, viene evidenziata la sempre più accentuata negoziabilità della imposta evasa nella sede propria extrapenale, per l'altro, la piena autonomia del processo penale rispetto a quello tributario che si riflette anche sulla determinazione dell'obbligo fiscale oggetto di quantificazione potenzialmente diversa nelle distinte sedi decisionali.

La conclusione, tuttavia, non sembra fondata su argomenti del tutto convincenti. Se il profitto del reato tributario corrisponde all'entità dell'imposta evasa, come affermava anche il decreto di sequestro preventivo adottato nel caso di specie, una volta eliminata l'evasione mediante il pagamento del debito tributario (comprensivo di sanzioni amministrative e interessi), secondo le modalità consentite dall'ordinamento, appare ben difficile ipotizzare un non meglio definito profitto ulteriore che giustificherebbe, almeno in parte qua, il permanere del sequestro preventivo e la successiva confisca. Se l'ordinamento tributario consente una riduzione del debito a fronte di accordi fra fisco e contribuente, tale modalità di rideterminazione della pretesa erariale e della sua soddisfazione non può non riflettersi sul profitto del reato. L'autonomia degli accertamenti nelle diverse sedi non è di ostacolo a ritenere che, una volta "cancellata" l'evasione fiscale sul piano tributario con le specifiche modalità di tale ordinamento, non possa sopravvivere un profitto penalmente rilevante corrispondente all'imposta evasa. L'autonomia, infatti, riguarda solo l'accertamento della responsabilità penale per il reato tributario rispetto all'accertamento dell'obbligazione tributaria. Quando, invece, è l'ordinamento penale a definire il concetto di profitto del reato con rinvio, per relationem, alla nozione schiettamente tributaria dell'entità dell'imposta evasa, è necessario fare riferimento alle regole proprie dell'ordinamento tributario sia per definire la permanenza dell'obbligo di corrispondere l'imposta sia per la sua eventuale quantificazione.

Così inquadrata la questione, non ha particolare pregio notare che l'art. 13 d.lgs. n. 74 del 2000 attribuisce al pagamento delle imposte natura di circostanza attenuante e non di causa di estinzione del reato. Il problema non concerne, infatti, la responsabilità penale-tributaria, sulla cui sussistenza non incide l'esito del contenzioso fra contribuente e fisco, bensì la possibilità di adottare in sede penale un provvedimento ablativo del patrimonio, anche per equivalente, direttamente parametrato alla imposta evasa, concetto tipicamente tributario definibile e quantificabile solo facendo applicazione delle regole proprie di tale ordinamento.

A differenti conclusioni si potrebbe giungere accogliendo una diversa nozione del profitto derivante dal reato tributario, non coincidente con l'entità della imposta evasa, ma avente come termine di riferimento l'"utile netto" conseguito mediante la negoziazione tributaria rispetto a quello che sarebbe stato il pagamento integrale del debito fiscale originario.

La sentenza in esame non sembra pendere posizione sul punto, giudicando la fase cautelare non adatta alla risoluzione di tale problematica. In realtà, la Cassazione, pur non affermandolo espressamente, propende per la sussistenza del profitto da reato anche dopo l'accertamento con adesione, come dimostra inequivocabilmente il fatto che non è stato dichiarato inammissibile il ricorso del pubblico ministero. Quello che resta in sospeso è il quantum del profitto sequestrabile, forse perché la decisione è stata di conferma dell'ordinanza del riesame e, quindi, non si è posto concretamente il problema di rideterminare la somma da sottoporre a sequestro dopo la chiusura del contenzioso tributario.

La prima notazione critica riguarda la presunta inadeguatezza della sede cautelare ad assumere questo tipo di decisione. L'argomento è seriamente contestabile, la Cassazione non può non assolvere appieno al suo ruolo in un procedimento così delicato come quello cautelare. È inutile ricordare che, considerati i tempi lunghi del processo di cognizione, la vera partita si gioca sempre più nei procedimenti incidentali cautelari, le cui decisioni spesso incidono irreparabilmente sui beni giuridici sottoposti a limitazione ante iudicium. La suprema Corte non può quindi abdicare al compito di enunciare i precisi criteri di determinazione del superstite profitto del reato nel caso in cui sia sopravvenuta l'estinzione del debito tributario. Non sarebbe accettabile mantenere per anni (il tempo del processo di cognizione) un sequestro preventivo coincidente con l'intera imposta originariamente evasa, ignorando il fatto che il contribuente abbia nel frattempo già provveduto al pagamento di quanto richiestogli dal fisco.

Certamente nel caso specifico la Cassazione, rigettando il ricorso del pubblico ministero, ha di fatto tolto rilevanza alla questione, ma in termini generali occorre ribadire che la sede cautelare è proprio quella più indicata per stabilire se il sequestro preventivo debba sopravvivere all'estinzione dell'obbligazione tributaria ed eventualmente in quale misura, o meglio, in base a quale nozione di profitto sequestrabile.

 

3. Il secondo aspetto affrontato concerne l'infelice formulazione dell'art. 1 comma 143 l. n. 244 del 2007 (legge finanziaria 2008). La questione interpretativa [già esposta in O. MAZZA, La confisca per equivalente, cit.] viene risolta in conformità ai consolidati e contestabili orientamenti giurisprudenziali, ma è oggi superata (in via generale e, perciò, a prescindere dalla applicabilità al caso concreto) dalla nuova legge sulla corruzione che ha modificato proprio l'art. 322-ter comma 1 c.p., aggiungendo al prezzo il profitto del reato quale oggetto della confisca per equivalente [art.1 comma 75 lett. o) l. 6 novembre 2012 n. 190]. 

 

4. Ammessi sequestro e confisca per equivalente del profitto dei reati tributari, la Cassazione ha preso in esame la terza questione, riguardante la sequestrabilità per equivalente dei beni appartenenti alla società in presenza di un reato tributario commesso dagli amministratori. È il punto centrale e più convincente della decisione. I beni dell'ente posso essere oggetto di sequestro e confisca per equivalente solo quando la società rappresenti uno schermo fittizio, di modo che il profitto del reato finisca per ridondare direttamente a favore dell'autore. Diversamente, non essendo prevista dal d.lgs. n. 231 del 2001 la responsabilità dell'ente per l'illecito tributario commesso a suo vantaggio o nel suo interesse dal soggetto apicale, non può trovare applicazione la speciale confisca di valore stabilita dall'art. 19 d.lgs. n. 231 del 2001. Si tratta, infatti, di previsioni sanzionatorie aventi natura penale che, al di là delle etichette legislative, sono insuscettibili di interpretazione analogica in malam partem. E questo stesso limite si oppone a ogni tentativo ermeneutico di importare nel sistema penale una confisca per equivalente a carico delle società non prevista dal legislatore per i reati tributari.

Parimenti infondato risulta l'assunto del pubblico ministero ricorrente, secondo cui la rappresentanza organica degli amministratori e il vantaggio per l'ente ottenuto dal reato finirebbero per coinvolgere direttamente la società nella commissione dell'illecito, al punto da rendere applicabili anche alla persona giuridica la confisca e il sequestro previsti dall'art. 1 comma 143 l. n. 244 del 2007. La previsione in parola, di natura schiettamente sanzionatoria, è però circoscritta solo ai responsabili penali del reato, ossia alle persone fisiche degli amministratori, e ai loro patrimoni. In forza del principio di legalità penale e dei suoi corollari, il limite normativo è dunque insuperabile con il mero strumento interpretativo.

 

5. Merita adesione, infine, l'accorata denuncia delle insufficienze e delle conseguenti irrazionalità dell'attuale sistema sanzionatorio in tema di reati tributari effettuata dalla Cassazione. Come si è già avuto modo di rilevare nel commento all'ordinanza del riesame, la soluzione più lineare rimane quella di un indifferibile intervento legislativo che estenda la responsabilità dell'ente a fattispecie di reato, come quelle tributarie, che vengono normalmente realizzate dagli amministratori in esecuzione di ben precise (e illecite) scelte imprenditoriali e che producono apprezzabili guadagni in capo alla società contribuente.