ISSN 2039-1676


15 dicembre 2010 |

In tema di stalking

Il requisito della reiterazione delle minacce o delle molestie nella recente giurisprudenza di merito e di legittimità 

1. La nuova fattispecie criminale di atti persecutori (art. 612 bis c.p.) è integrata dal fatto di chi, con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita.
 
Per espressa previsione normativa, la reiterazione della condotta (di minaccia o di molestia) è requisito essenziale della fattispecie, il che fa del reato di stalking un reato abituale (per la precisione, il primo reato abituale d’evento del nostro ordinamento penale).
 
Come per ogni reato di questo tipo, un delicato problema interpretativo consiste, pertanto, nello stabilire quando la condotta possa dirsi ‘reiterata’. Al riguardo, la domanda che l’interprete deve porsi è duplice: da un lato, quale sia il numero minimo di condotte necessario; dall’altro, quale lasso di tempo debba o possa intercorrere tra una condotta e l’altra.
 
Per esempio, per considerare integrato il requisito della reiterazione nella fattispecie in esame, bastano due soli ‘appostamenti’ a distanza di pochi giorni l’uno dall’altro, da parte del corteggiatore reietto, sotto la casa della donna oggetto del desiderio? Ancora: se il mio vicino di casa minaccia di ammazzarmi se non sposto immediatamente la mia auto, parcheggiata nel suo posteggio riservato, e, dopo pochi minuti, trovandola ancora lì, mi minaccia nuovamente, sarà integrata la condotta di stalking? Oppure, al contrario, se un uomo effettua periodicamente telefonate ‘mute’, tutte a distanza di un anno l’una dall’altra, alla propria ex moglie, potrà essere chiamato a rispondere di stalking?
 
 
2. Fino ad oggi, appariva come orientamento consolidato in dottrina e giurisprudenza quello secondo cui, nei reati abituali, la reiterazione non coincide con la mera ripetizione della condotta. L’abitualità, infatti, secondo tale orientamento, non è un dato puramente ‘quantitativo’, ma è un nesso che lega le diverse condotte esprimendo un disvalore ulteriore rispetto a quello espresso dalle singole condotte. In relazione al delitto di maltrattamenti in famiglia (altro reato abituale), ad esempio, la Cassazione ha statuito che è necessario che l’interprete accerti, nel caso di specie, se i singoli atti hanno tratto origine da situazioni contingenti e particolari, ovvero se rientrano in una cornice unitaria, se sono cioè collegati, sul piano oggettivo, da un nesso di abitualità e, sul piano soggettivo, da un’unica intenzione criminosa (Cass., sez. VI, 27.5.2003, C., in Cass. pen., 2005, 862; Cass., sez. VI, 12.4.2006, C., in Guida al dir., 2006, 38, p. 77 ss.).
 
La giurisprudenza in materia di atti persecutori, invece, sembra aver optato proprio per un’interpretazione prettamente ‘quantitativa’ del requisito in discorso, facendone, anzi, in un primo tempo, un’applicazione ‘estremizzata’. In una delle prime pronunce in cui si è posto il problema di definire il requisito della reiterazione, infatti, il giudice ha escluso la sussistenza del nesso di abitualità per il numero esiguo degli atti posti in essere dall’agente e per la limitata reiterazione nel tempo degli stessi sebbene l’agente avesse, nell’arco di pochi giorni, diffuso un volantino nel quale annunciava che la vittima effettuava massaggi a domicilio, inviato una lettera minatoria, inviato un mazzo di fiori con allegato un biglietto di condoglianze, inviato tre pacchi contenenti ossa, una vagina finta infilzata da uno spillo e un oggetto dall’odore nauseabondo, inviato un sollecito di pagamento del tutto inventato e inviato tre sms, così ingenerando nella vittima un (comprensibile…) timore per la propria incolumità (Trib. Reggio Emilia, 12.3.2009 (ord.), GUP Nerucci).
 
Oggi, con le ultime pronunce in materia, la Suprema Corte sembra, in verità, aver fatto proprio un criterio interpretativo meno rigido del requisito della reiterazione, sebbene pur sempre di natura essenzialmente ‘quantitativa’. In Cass., sez. V, 21.1.2010, n. 6417, O.P., Pres. Calabrese, infatti, la Corte ha statuito che per aversi reiterazione basta che l’agente ripeta la condotta anche una sola volta. E lo stesso principio (‘bastano due condotte per aversi reiterazione’) lo troviamo espressamente affermato in C., sez. V, 2.3.2010, n. 25527, V.L., Pres. Colonnese (sebbene poi, nel caso di specie, la Corte, a differenza del giudice del merito, abbia ravvisato la commissione non di due, bensì di tre diverse condotte).
 
 
3. Le soluzioni sino ad oggi offerte dalla giurisprudenza non ci persuadono.
 
Più convincente appare, invero, la posizione espressa da una parte della dottrina [in particolare, sul punto, v. Pistorelli, Nuovo delitto di “atti persecutori” (cd. stalking), in Corbetta, Della Bella, Gatta (a cura di), Sistema penale e “sicurezza pubblica”: le riforme del 2009, Milano, 2009, p. 171]. Secondo questa impostazione, non avendo (correttamente) il legislatore definito a priori i requisiti della reiterazione, sotto questo specifico profilo, la norma parrebbe a prima vista manifestare una preoccupante tensione con i principi di necessaria tipicità e determinatezza. Sennonché, a salvare la norma da applicazioni di dubbia costituzionalità è proprio la presenza dei tre eventi (alternativi), quali requisiti di fattispecie, nel senso che potrà dirsi raggiunto il livello di reiterazione richiesto dalla norma solo quando le condotte dell’agente – quale che sia il loro numero e il lasso di tempo più o meno diluito fra di esse intercorrente – avranno dato causa a uno degli eventi previsti dalla norma incriminatrice.
 
È evidente come una simile soluzione, per fungere realmente da “antidoto contro applicazioni distorte” (per dirla con Pistorelli), presupponga un’interpretazione non troppo lasca dell’evento alternativo “alterazione delle abitudini di vita”, che alla luce di una semplice interpretazione letterale potrebbe ritenersi integrato anche da alterazioni minime delle abitudini quotidiane del soggetto passivo del reato (quale, ad esempio, la decisione di percorrere una strada diversa per raggiungere l’ufficio, così da non incontrare il supposto ‘molestatore’). A tale scopo, un’interpretazione teleologica della norma dovrebbe indurre a escludere, in quanto atipici, tutti quei piccoli mutamenti nelle consuetudini di vita dettati dal mero fastidio, anziché da un vero e proprio timore ingenerato dal persecutore, così di fatto richiedendo per l’integrazione della fattispecie che si ingeneri sempre paura o turbamento nella vittima (dunque almeno uno dei primi due eventi descritti dalla norma) [per un approfondimento sul punto, ci sia consentito rinviare a Valsecchi, Il nuovo delitto di atti persecutori (il cd. stalking), in Riv. it. dir. proc. pen., 2009, p. 248 s.].
 
Alcune recenti pronunce di merito paiono confermare l’interpretazione qui proposta, riconoscendo in ogni caso la centralità, nella fattispecie criminale in esame, del timore ingenerato nella vittima per la propria incolumità (il riferimento è a Trib. Bari, sez. riesame, 6.4.2009, Pres. Marrone, in De Jure, dove si afferma che “quello che connota il reato in oggetto, distinguendolo dai maltrattamenti, è […] la circostanza che le condotte del denunciato sono reiterate e ingenerano un fondato timore da parte della vittima di un male più grave”, nonché a Trib. di Lucera, 10.7.2009, Giudice Nardelli, in De Jure, che pure pone fortemente l’accento sul timore ingenerato dalla condotta dell’agente).
 
In questa chiave possono essere, a nostro avviso, riletti gli stessi precedenti della S.C. di cui si è fatto poc’anzi cenno. Anche nei casi in cui la Cassazione ha enunciato il principio secondo cui sarebbero sufficienti due sole condotte ai fini dell’integrazione della fattispecie, infatti, un esame dei fatti oggetto di giudizio dimostrava che le condotte in concreto addebitate all’imputato avevano posto la vittima in una condizione di timore, che l’aveva indotta a mutare significativamente le proprie abitudini di vita (ad es., nel caso deciso C. 2.3.2010, n. 25527, cit., si trattava di atti che avevano fortemente intimorito la vittima, al punto da indurla addirittura a cambiare casa).