ISSN 2039-1676


23 giugno 2014 |

La Corte costituzionale fornisce alcune importanti coordinate per un'interpretazione costituzionalmente conforme del delitto di stalking

Corte cost., sent. 11 giugno 2014, n. 172, Pres. Silvestri, Rel. Cartabia

Per scaricare il testo della sentenza in commento, pubblicata sul sito www.giurcost.it, clicca qui.

 

1. Con la sentenza n. 172 dell'11 giugno scorso, la Corte ha dichiarato infondata una questione di legittimità costituzionale, proposta dal Tribunale di Trapani, dell'art. 612 bis c.p., per violazione del principio di indeterminatezza sancito dall'art. 25 co. 2 Cost.

La questione sollevata dal Tribunale di Trapani riecheggia le critiche formulate da una parte della dottrina penalistica già all'indomani dell'introduzione del delitto di atti persecutori nel nostro sistema penale.

In particolare, afferma il giudice rimettente che la fattispecie sarebbe in contrasto col principio sancito dalla Costituzione all'art. 25 co. 2, in quanto mancherebbe una definizione sufficientemente determinata di quattro diversi requisiti della fattispecie, e più precisamente:

(i) della condotta, in quanto non sarebbe determinato il "minimum della condotta intrusiva temporalmente necessaria e sufficiente affinché possa dirsi integrata la persecuzione penalmente rilevante";

(ii) del 'perdurante e grave stato di ansia e di paura';

(iii) della 'fondatezza' del timore;

(iv) delle 'abitudini di vita' la cui alterazione integra il terzo, alternativo evento del fatto tipico.

 

2. La Corte, in via preliminare, rileva che, dopo la presentazione dell'ordinanza di rimessione, il legislatore ha introdotto alcune modifiche alla disciplina del delitto di stalking, relative al quadro sanzionatorio (elevato a cinque anni di reclusione nel massimo); alla definizione dell'aggravante di cui al secondo comma dell'art. 612 bis c.p.; alla disciplina della procedibilità: nessuna di tali modifiche, tuttavia, ha interessato la descrizione della fattispecie base, oggetto della questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale di Trapani. Conseguentemente, non occorre procedere alla restituzione degli atti al giudice a quo per la riconsiderazione della rilevanza e non manifesta infondatezza della questione alla luce dello jus superveniens.

 

3. Chiare le premesse teoriche poste dalla Corte all'analisi, nel merito, della questione: il metodo interpretativo da applicare per vagliare la compatibilità o meno della fattispecie descritta all'art. 612 bis c.p. col principio costituzionale di determinatezza dovrà essere "integrato" e "sistemico", dovrà cioè condurre l'interprete a considerare ogni elemento della fattispecie sospettato di indeterminatezza non isolatamente, bensì in collegamento con gli altri elementi costitutivi della fattispecie stessa e con la disciplina in cui questa si inserisce.

Solo così, infatti, è possibile verificare se il precetto sia intelligibile nella sua formulazione linguistica e il fatto tipico verificabile in quanto espressione di fattispecie corrispondenti alla realtà (secondo l'insegnamento fornito dalla stessa Corte con la nota sentenza 96/81 con cui è stata dichiarata l'incostituzionalità del plagio).

 

4. Interpretata nel rispetto dei criteri su indicati, la fattispecie appare, secondo la Corte, conforme al dettato costituzionale.

Andiamo con ordine.

Quanto alla condotta di minaccia e molestia, l'interprete ha a propria disposizione la ricca e risalente tradizione interpretativa delle fattispecie di cui agli artt. 612 ("Minaccia") e 660 ("Molestia o disturbo alle persone") c.p., tradizione che - rileva la Corte - "da un lato agevola l'interpretazione della disposizione oggi sottoposta a giudizio e, dall'altro, offre la riprova che la descrizione legislativa corrisponde a comportamenti effettivamente riscontrabili (e riscontrati) nella realtà". Sul punto, la Corte non dice molto di più, limitandosi a rammentare che la definizione codicistica di 'minaccia' ("prospettazione di un male futuro") è appagante, in quanto coerente col significato che il termine assume nel linguaggio comune, e che il concetto di molestia è condivisibilmente definito, anche in questo caso in linea col senso comune, come l'"alterare in modo fastidioso o importuno l'equilibrio psichico di una persona normale".

Col requisito della 'reiterazione', espressamente richiesto dall'art. 612 bis c.p. - continua la Corte -, il legislatore ha, inoltre, inteso connotare ulteriormente le condotte di minaccia e molestia, così da individuare "specifici fenomeni di molestia assillante che si caratterizzano per un atteggiamento predatorio nei confronti della vittima, bene espresso dal termine inglese 'stalking'". Proprio questo requisito, da intendersi - precisa ancora la Corte - come commissione di "almeno due condotte di minacce o molestia", nel momento in cui diviene causa di uno dei tre eventi alternativi previsti dalla fattispecie, esprime un disvalore aggravato rispetto a quello delle generiche minacce o molestie, così giustificando una più severa reazione penale. In tal senso, il delitto di stalking si presenta semplicemente come 'specificazione' dei reati meno gravi di minaccia e di molestie, senza che ciò comporti alcuna rinuncia in termini di determinatezza della incriminazione.

Da ultimo, la Corte non ravvisa deficit di determinatezza nemmeno nella descrizione normativa dei tre, alternativi eventi del fatto tipico del delitto in discorso.

Segnala la Corte che tanto il "perdurante e grave stato di ansia e di paura", quanto il "fondato timore per l'incolumità", riguardando la sfera emotiva e psicologica dell'individuo, devono essere "accertati attraverso un'accurata osservazione di segni e indizi comportamentali, desumibili dal confronto tra la situazione pregressa e quella conseguente alle condotte dell'agente, che denotino una apprezzabile destabilizzazione della serenità e dell'equilibrio psicologico della vittima". A tale fine, si potrà fare ricorso alle dichiarazioni della vittima, alla verifica dei suoi comportamenti conseguenti alla condotta posta in essere dall'agente, nonché alle condizioni soggettive della vittima, purché note all'agente e quindi 'coperte' dal dolo.

Nella corretta interpretazione dei due eventi ora richiamati, la Corte evidenzia l'importanza delle aggettivazioni "grave e perdurante", dello stato d'ansia, e "fondato", del timore, in quanto segnalano che devono restare fuori dall'area di applicazione della norma incriminatrice "ansie di scarso momento, sia in ordine alla loro durata sia in ordine alla loro incidenza sul soggetto passivo", nonché "timori del tutto immaginari o del tutto fantasiosi della vittima". Ferma restando - sottolinea la Corte - la costante operatività del principio di offensività quale canone interpretativo cui il giudice deve senz'altro fare sempre ricorso per circoscrivere l'area di tipicità dell'incriminazione.

Similmente, anche l'interpretazione del terzo, alternativo evento - l'alterazione delle abitudini di vita - passa attraverso un confronto fra il "complesso dei comportamenti che una persona solitamente mantiene nell'ambito familiare, sociale e lavorativo" e i comportamenti che la vittima è costretta a tenere a seguito dell'attività persecutoria subita.

 

5. Con la sentenza in oggetto la Corte fornisce all'interprete coordinate chiare, che sgombrano il campo da ogni dubbio in termini di compatibilità della fattispecie col principio costituzionale di determinatezza. Certo resta ancora sul campo qualche 'nodo' esegetico che starà all'interprete sciogliere.

Quanto al requisito della 'reiterazione', per esempio, la Corte nulla dice in merito al problema 'temporale', pure indicato dal giudice rimettente, limitandosi a rilevare che per essere integrato è necessario e sufficiente che le condotte (di molestia o minaccia) siano due e siano causa della realizzazione di uno degli eventi previsti dalla norma. Resta, dunque, un dubbio sulla necessità, o meno, che le condotte siano reiterate all'interno di un certo lasso di tempo: un problema sollevato da una parte della dottrina all'indomani dell'introduzione della norma e che, per la verità, si era già posto anche in relazione all'interpretazione di un altro reato abituale, il delitto di maltrattamenti.

Proprio nell'ambito dell'esperienza giurisprudenziale maturata in relazione a quest'ultima fattispecie, è stata valorizzata - ai fini della verifica del ricorrere del requisito della reiterazione - l'esistenza, sul piano oggettivo, di un 'nesso' fra le condotte, le quali dovranno così risultare essere realizzazione di una sorta di disegno criminoso teso al maltrattamento di una determinata vittima, disegno naturalmente 'coperto', sul piano soggettivo, dal dolo dell'agente; in quest'ottica, è, invece, del tutto ininfluente ai fini dell'integrazione della fattispecie, l'entità, maggiore o minore, del lasso di tempo intercorso fra una condotta e l'altra (Cass. 27.5.2003, C., in Cass. pen., 2005, p. 862; Cass. 12.4.2006, C., in Guida al dir., 2006, 38, p. 77). Una soluzione interpretativa che, forse, potrebbe trovare spazio anche in materia di stalking per riempire di contenuto un requisito, la reiterazione, che a ben vedere costituisce la caratteristica più peculiare di questa fattispecie.

Molto interessanti sono le considerazioni che la Corte svolge in relazione agli eventi 'grave stato di ansia' e 'fondato timore'. Di particolare interesse, al riguardo, è che la Corte non ritenga di dover agganciare l'accertamento del ricorrere di tali eventi a valutazioni di tipo 'medico-legale', ben potendo l'evento ricorrere anche in assenza di una vera e propria patologia di natura psichiatrica.

Anche in questo caso, però, qualche dubbio interpretativo resta. Non è chiaro, infatti, se la 'fondatezza' del timore - secondo l'interpretazione della Corte - debba imporre all'interprete di espungere dall'area di applicazione della norma incriminatrice "timori immaginari o del tutto fantasiosi" (per usare le parole della sentenza) anche se realmente sofferti dalla vittima e conosciuti dall'agente. È ben possibile, infatti, che una persona abbia fobie che appaiono del tutto irrazionali ai nostri occhi, ma se lo stalker, sapendo di tali fobie, ne approfitta per spaventare la vittima, riteniamo che la fattispecie potrà dirsi integrata, in quanto indubbia è l'offesa al bene giuridico tutelato dalla norma. Ecco, allora, che per 'fondatezza' - ammesso che tale requisito aggiunga davvero qualcosa in termini di descrizione del fatto - forse deve semplicemente intendersi che il giudice deve verificare che, nel caso concreto, la vittima ha davvero provato timore per la propria incolumità e che l'agente sapeva che, agendo in quel modo, avrebbe ingenerato un simile timore, e ciò quand'anche il timore appaia del tutto immaginario o fantasioso (sul punto, sia consentito rinviare a A. Valsecchi, Il delitto di 'atti persecutori' (il cd. stalking), in Riv. it. dir. proc. pen., 2009, p. 1390 ss.).

Un'ultima notazione sul terzo evento descritto dall'art. 612 bis: l'alterazione delle abitudini di vita. Anche in questo caso è convincente la conclusione della Corte, che ritiene compatibile col principio di determinatezza l'elemento di fattispecie.

Meno chiaro - a nostro parere - è il criterio selettivo che dovrebbe guidare il giudice nel discriminare fra alterazione delle abitudini rilevante ai sensi dell'art. 612 bis e alterazione non rilevante. Il problema si pone, ad esempio, in quei casi in cui la persona abbia cambiato le proprie abitudini non per un qualche timore ingenerato dall'agente, ma semplicemente per fastidio. Dubitiamo, infatti, che simili ipotesi debbano essere sussunte nella fattispecie in esame, e ciò proprio alla luce di un'interpretazione di tipo sistematico e teleologico, qual è quella indicata dalla Corte, nonché in considerazione del quadro sanzionatorio, particolarmente severo, comminato dal legislatore.

Se, infatti, riconosciamo (come suggerisce la Corte) la norma che incrimina gli atti persecutori come elemento di un sistema introdotto per colmare una lacuna, collocandosi idealmente fra la più lieve contravvenzione di molestia, che tutela la tranquillità e serenità psichica, e le più gravi fattispecie a base violenta, che tutelano l'integrità fisica, la libertà sessuale e la vita, appaiono allora insufficienti a integrare la soglia minima di offensività del fatto (punito, rammentiamo, con la reclusione da uno a cinque anni) condotte bagatellari, che provocano un fastidio nella 'vittima' inducendola a modesti cambiamenti nelle abitudini di vita.

Al contrario, crediamo che un'interpretazione maggiormente conforme al principio di offensività e alla collocazione sistematica della norma dovrebbe condurre a ritenere sussumibili nella fattispecie in esame solo condotte che, per la loro intrinseca gravità o per le particolari modalità di commissione, abbiano effettivamente indotto la vittima a temere per l'incolumità fisica propria o di una persona cara, e che abbiano indotto la vittima a mutare le proprie abitudini proprio allo scopo di proteggersi dal persecutore.

In altre parole, riteniamo che, nonostante il tenore letterale della norma, che indubbiamente prevede tre diversi possibili eventi alternativi, per l'integrazione della fattispecie sia sempre necessario che la vittima abbia provato un effettivo timore per l'incolumità propria o di un proprio congiunto, ovvero patito uno stato d'ansia o di paura, non integrando, invece, la fattispecie una condotta che abbia indotto la vittima a mutare abitudini per ragioni diverse (come, per esempio, per mero fastidio - di nuovo, sul punto, sia consentito rinviare per un maggiore approfondimento a A. Valsecchi, Il delitto di 'atti persecutori', cit., p. 1394 ss.)