ISSN 2039-1676


10 marzo 2017 |

I centri di detenzione amministrativa cambiano nome ed aumentano di numero, e gli hotspot rimangono privi di base legale: le sconfortanti novità del Decreto Minniti

A proposito del D.L. 17 febbraio 2017, n. 13 (Disposizioni urgenti per l'accelerazione dei procedimenti in materia di protezione internazionale, nonché per il contrasto dell'immigrazione illegale)

Contributo pubblicato nel Fascicolo 3/2017

 

Per leggere il d.d.l. di conversione del Decreto Legge n. 13/2017 e la relativa Relazione del Governo, clicca in alto su "visualizza allegato" (le norme del D.L. in commento si trovano a pag. 68 e segg.).

 

1. Con il provvedimento in commento, al momento in sede di conversione da parte del Parlamento, il Governo ha provveduto con decretazione d’urgenza ad una riforma complessiva dei procedimenti in materia di protezione internazionale, con modifiche di notevole impatto sulla prassi (su tutte, la creazione di sezioni specializzate, l’abolizione dell’appello e la riduzione dei casi di comparizione del richiedente protezione davanti al giudice), che hanno suscitato reazioni fortemente negative, tra gli altri anche da parte del Primo Presidente della Corte di Cassazione Canzio e della sezione dell’ANM presso la Corte di Cassazione (cfr. Antonello Cosentino, L’Anm della Cassazione sul D.L. n. 13/2017, in materia di protezione internazionale e di contrasto dell'immigrazione illegale, in Questione giustizia, 8 marzo 2017), con valutazioni che sono state riprese da tutti i maggiori organi di informazione.

Non è questa la sede per un commento a tali novità, che sono estranee ratione materiae agli interessi di questa Rivista. All’interno del decreto, nella parte dedicata alle “misure di contrasto dell’immigrazione illegale”, vi sono tuttavia alcune disposizioni che interessano anche il penalista, sulle quali concentreremo ora brevemente l’attenzione.

 

2. Una prima novità è quella prevista all’art. 18 co. 3 del decreto, che modifica il testo dell’art. 51 co. 3 bis c.p.p., ed inserisce anche il delitto di associazione a delinquere “realizzata allo scopo di commettere taluno dei delitti di cui all’art. 12 co. 3 e 3 ter d.lgs. 286/98” tra i reati per i quali è prevista la competenza della procura presso il tribunale del capoluogo del distretto: anche le associazioni criminali volte alla commissione delle ipotesi aggravate di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare (ad esempio quando le modalità di trasporto dei migranti li abbiano esposti a pericoli per la loro vita, oppure a trattamenti inumani o degradanti) vengono dunque attribuite alla competenza della procura distrettuale, che già aveva competenza in relazione ad una serie di ipotesi in cui la fattispecie associativa era finalizzata al compimento di reati di particolare gravità. La novità ci pare da salutare con favore, considerato in particolare come in molti casi non risulti di immediata evidenza se si configuri il reato in questione piuttosto che la diversa fattispecie della tratta di persone di cui all’art. 601 c.p., che già era di competenza della procura distrettuale. La novella impedisce dunque, per il futuro, il configurarsi di delicati problemi di conflitti di competenza tra la procura ordinaria e quella distrettuale, quando dalle indagini non risulti ancora chiaro se la condotta dei trafficanti di uomini, sicuramente integrante gli estremi del delitto di cui all’art. 12 d.lgs. 286/98, possa essere qualificata altresì alla stregua della più grave fattispecie codicistica.

 

3. Positiva ci pare anche l’apertura, prevista all’art. 13, di procedure volte all’assunzione da parte del Ministero della giustizia di un numero pur limitato (al massimo 60 unità) di figure “di funzionario della professionalità giuridico pedagogico, di funzionario della professionalità di servizio sociale nonché' di mediatore culturale (…) al fine di supportare interventi educativi, programmi di inserimento lavorativo, misure di sostegno all’attività trattamentale e al fine di consentire il pieno espletamento delle nuove funzioni e compiti assegnati al Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità in materia di esecuzione penale esterna e di messa alla prova”. Il governo, inserendo tale intervento relativo al funzionamento della giustizia minorile in un provvedimento in tema di immigrazione, mostra dunque di essere consapevole di quanto sia importante che tale settore sia in grado di rispondere in modo adeguato alla presenza sempre più numerosa di minori stranieri, che necessitano della predisposizione di percorsi e misure di reinserimento ad hoc. L’esiguità delle risorse destinate allo scopo fa sorgere, tuttavia, qualche perplessità circa l’effettiva adeguatezza delle misure messe in campo.

 

4. In materia di espulsioni, l’art. 19 come 2 lett. b) dispone che, per quanto riguarda le espulsioni disposte a titolo di sanzione sostituiva o alternativa alla detenzione (previste rispettivamente al co. 1 ed al co. 5 dell’art. 16 d.lgs. 286/1998), “quando non è possibile effettuare il rimpatrio dello straniero per cause di forza maggiore, l’autorità giudiziaria dispone il ripristino dello stato di detenzione per il tempo strettamente necessario all'esecuzione del provvedimento di espulsione” (nuovo co. 9 bis dell’art. 16 d.lgs. 286/98). Quanto alle espulsioni ministeriali “per motivi di ordine pubblico o sicurezza dello Stato” di cui all’art. 13 co. 1 d.lgs. 286/98, l’art. 16 ha previsto che per i procedimenti aventi ad oggetto l’impugnazione di tali provvedimenti sia applicabile il particolare rito abbreviato disciplinato dall’art. 119 d.lgs. 104/2010 (al co. 1 di tale disposizione è stata introdotta la nuova lettera m-sexies).

 

5. Novità importanti sono state poi introdotte in ordine a quelle forme di detenzione ammnistrativa dello straniero irregolare che, benché stricto sensu estranee alla materia penalistica, hanno già più volte interessato questa Rivista in ragione della loro incidenza sulla libertà personale.

Le modifiche normative sono tutto sommato di rilievo contenuto, e non incidono sulla struttura portante della disciplina.

Con l’art. 19 co. 1 viene cambiata la denominazione dei centri dove viene eseguito il trattenimento amministrativo dello straniero irregolare, che in luogo di Centri di identificazione ed espulsione (CIE) vengono ora denominati Centri di permanenza per il rimpatrio (CPR).

L’art. 19 co. 2 lett. a) prolunga di 15 giorni il termine massimo di permanenza in tali centri degli stranieri che già erano stati trattenuti per almeno 90 giorni in una struttura carceraria (nei casi “di particolare complessità delle procedure di identificazione e di organizzazione del rimpatrio” tali stranieri possono ora essere trattenuti, dopo gli iniziali 30 giorni, per un ulteriore periodo di 15 giorni, previa convalida della proroga da parte del giudice di pace).

All’art. 17 co. 3 si prevede una nuova e specifica ipotesi di trattenimento in tali centri, per la durata massima di 30 giorni, per gli stranieri che rifiutino di sottoporsi alle operazioni di rilevamento fotodattiloscopico e segnaletico (nuovo art. 10 ter co. 3 d.lgs. 286/98). È tuttavia il caso di segnalare come già secondo la normativa pre-vigente il mero “mancato possesso del passaporto o di altro documento equipollente, in corso di validità” configurasse gli estremi del rischio di fuga ex art. 13 co. 4 bis d.lgs. 286/98, e dunque in sostanza già fosse consentito, una volta emanato il decreto di espulsione o di respingimento, disporre, in attesa dell’identificazione e del rimpatrio, il trattenimento dello straniero che si sottraesse alle procedure di identificazione. Ora, però, il trattenimento può essere disposto dal questore anche prima dell’emanazione del provvedimento espulsivo, previa comunque la sua convalida da parte del giudice di pace (o da parte del Tribunale nei casi di trattenimento di uno straniero richiedente protezione internazionale).

Infine, l’art. 8 co. 1 lett. b) modifica l’art. 6 co. 3 del d.lgs. 142/2015 (recante la disciplina dell’accoglienza dei richiedenti protezione internazionale), relativo alla possibilità, quando la richiesta di protezione sia stata avanzata da soggetto in stato di trattenimento in un CIE (ora CPR), di prolungare il trattenimento “quando vi sono fondati motivi per ritenere che la domanda è stata presentata al solo scopo di ritardare o impedire l’esecuzione dell’espulsione”. Tale possibilità, prima della riforma prevista solo per gli stranieri trattenuti in attesa dell’esecuzione di un provvedimento di espulsione, è oggi estesa anche agli stranieri destinatari di un provvedimento di respingimento differito ai sensi dell’art. 10 d.lgs. 286/98.

 

6. La novità che desta maggiori perplessità non è tuttavia di natura normativa, ma operativa e finanziaria. Come noto, è ormai chiaro da anni che il sistema del trattenimento ammnistrativo in attesa del rimpatrio: a) pone enormi problemi di rispetto dei diritti fondamentali dello straniero (come testimoniano le innumerevoli denunce di commissioni di inchiesta istituzionali e di ONG, italiane e straniere, che negli anni hanno denunciato le condizioni inumane e degradanti di molti CIE); b) è foriero di gravi difficoltà sotto il profilo dell’ordine pubblico (tali condizioni sono state all’origine di numerose rivolte, anche violente: per il caso in cui il giudice ha riconosciuto la legittima difesa in capo agli autori della rivolta, considerate le inammissibili condizioni in cui erano costretti a vivere, cfr. Trib. Crotone, sent. 12 dicembre 2012, Giud. D’Ambrosio, in questa Rivista, 7 gennaio 2013, con nota di Luca Masera, Rivolte degli stranieri detenuti nei C.I.E.: una forma di legittima difesa contro la violazione dei diritti fondamentali degli internati?); e c) è anche in larga misura costoso ed inefficace (le statistiche attestano che in meno del 50% dei casi gli stranieri trattenuti vengono effettivamente rimpatriati). Alla luce di tale complesso di considerazioni, negli ultimi due-tre anni il numero di CIE aperti era stato progressivamente ridotto a soli quattro centri in tutta Italia, con un numero di posti disponibile pari a poche centinaia di unità.

L’art. 19 co. 3 del decreto legge segna ora una decisa inversione di tendenza rispetto a tale recente passato. La norma prevede infatti l’adozione di iniziative volte a “garantire l’ampliamento della rete dei centri […], tenendo conto della necessità di realizzare strutture di capienza limitata idonee a garantire condizioni di trattenimento che assicurino l’assoluto rispetto della dignità della persona”, e destina la somma di 13 milioni di euro per le spese di realizzazione dei nuovi centri. Insomma, nonostante l’esperienza del passato abbia mostrato in modo inequivocabile i limiti del sistema di esecuzione coattiva delle espulsioni basato sulla detenzione amministrativa, il governo decide ancora di insistere su questa strada, mentre nessuna risorsa viene destinata ad incentivare il sistema dei rimpatri volontari ed assistiti, cui ha avuto sinora accesso un numero trascurabile di stranieri. La coazione a ripetere un approccio repressivo alla questione migratoria, in cui l’uso della detenzione ammnistrativa dell’irregolare riveste un ruolo anche simbolicamente centrale, continua dunque a prevalere su un’analisi razionale dei problemi e sull’adozione di modelli selettivi e volontari di rimpatrio, che come noto sono gli unici davvero efficaci, ma pagano poco in chiave propagandistica.

La nuova norma ci assicura invero che i centri saranno di piccole dimensioni, e vi sarà garantito l’assoluto rispetto della dignità della persona. Ma già il fatto che il governo abbia sentito la necessità di questa ovvia precisazione, è la migliore conferma della pessima fama che negli anni si sono conquistati i CIE, luoghi di “galera ammnistrativa” (l’espressione è di Carofiglio) al cui interno si sono consumate vicende che hanno scosso l’opinione pubblica. Speriamo che gli abusi del passato non debbano ripetersi nei nuovi centri, e che il cambio di denominazione si associ ad una concreta modifica delle loro modalità di gestione; l’approccio securitario che emerge dalla decisione politica e mediatica di riprendere il ricorso massiccio alla detenzione ammnistrativa lascia, tuttavia, dubitare della reale volontà di tutelare la dignità dei migranti rinchiusi in tali luoghi.

 

7. Un’ultima novità, anch’essa a nostro avviso tutt’altro che apprezzabile, riguarda la disciplina dei cd. hotspot, cioè dei centri di prima accoglienza ove vengono indirizzati gli stranieri al momento del loro arrivo sulle nostre coste (il più noto è quello di Lampedusa, ma ne sono al momento attivi diversi altri nelle regioni meridionali del Paese). Per la prima volta, nel nuovo art. 10 ter d.lgs. 286/98 tali centri vengono definiti in un testo nazionale (la traduzione di hotspot è “punti di crisi”), e ne viene fornita una base normativa: “lo straniero rintracciato in occasione dell'attraversamento irregolare della frontiera interna o esterna ovvero giunto nel territorio nazionale a seguito di operazioni di salvataggio in mare è condotto per le esigenze di soccorso e di prima assistenza presso appositi punti di crisi allestiti nell'ambito delle strutture di cui al decreto-legge 30 ottobre 1995, n. 451, convertito, con modificazioni, dalla legge 29 dicembre 1995, n. 563, e delle strutture di cui all'articolo 9 del decreto legislativo 18 agosto 2015, n. 142”. La nuova norma prevede che in tale strutture vadano effettuate le “operazioni di rilevamento fotodattiloscopico e segnaletico”, dovendo ivi essere “assicurata [allo straniero] l’informazione sulla procedura di protezione internazionale, sul programma di ricollocazione in altri Stati membri dell’Unione europea e sulla possibilità di ricorso al rimpatrio volontario assistito”.

La scelta di disciplinare con fonti di rango primario i centri cd. hotspot, dove si svolgono le fasi delicatissime della prima identificazione e dell’informazione riguardo alla protezione internazionale, parrebbe lodevole, considerato come già in diverse occasioni fonti anche molto autorevoli (commissioni parlamentari e del Consiglio d’Europa) abbiano stigmatizzato come tali centri fossero privi di una chiara disciplina legale circa il loro funzionamento e le loro caratteristiche (in primis se luoghi chiusi o strutture di accoglienza aperte, da cui gli stranieri possono liberamente allontanarsi). Proprio poche settimane fa, il 15 dicembre 2016, in relazione al più noto degli hotspot, quello di Lampedusa, la Grande Camera della Corte EDU con la sentenza Khlaifia ha del resto condannato l’Italia (per fatti risalenti al 2011) per violazione dell’art. 5 della Convenzione, sottolineando come tali centri costituissero in realtà luoghi di detenzione, nei quali gli stranieri erano privati della libertà senza alcuna base legale e senza la possibilità di fare ricorso all’autorità giudiziaria (cfr. Andrea Giliberto, La pronuncia della Grande Camera della Corte EDU sui trattenimenti (e i conseguenti respingimenti) di Lampedusa del 2011, in questa Rivista, 23 dicembre 2016). Per evitare in futuro ulteriori condanne, era necessario ricondurre nell’alveo della legalità le fasi di prima identificazione ed accoglienza, dotandole di precise basi normative.

Volgendo tuttavia lo sguardo più da vicino al nuovo art. 10 ter d.lgs. 286/98, ci si rende conto che l’opera di normazione dei centri di prima accoglienza è soltanto apparente. La disciplina dei nuovi “punti di crisi” rinvia infatti ad un decreto legge del 1995 ed alla relativa legge di conversione (cd. legge Puglia), in cui il legislatore, in risposta al massiccio afflusso di migranti proveniente dalle coste dell’Albania, si limitava a consentire all’art. 2 “l’istituzione, a cura del Ministero dell’interno, sentita la Regione Puglia, di tre centri dislocati lungo la frontiera marittima delle coste pugliesi per le esigenze di prima assistenza a favore dei predetti gruppi di stranieri”. La legge oggi richiamata non dice però assolutamente nulla quanto alla natura e all’organizzazione dei centri. Quanto poi alle altre strutture di cui al richiamato art. 9 del d.lgs. 142/15, i cd. CPA (Centri di prima accoglienza), la norma si limita a fornirne la denominazione e a segnalarne anche in questo caso la possibilità di apertura da parte del Ministero dell’interno, senza prevedere alcuna ulteriore indicazione.

Insomma, l’intervento normativo appare sotto questo profilo del tutto inadeguato rispetto agli obiettivi. La decisione di regolamentare con fonti primarie i cd. hotspot si risolve in un rinvio a disposizioni che non dicono nulla, e lasciano ancora una volta alla totale discrezionalità dell’autorità di polizia la concreta gestione di fasi procedimentali dense di diritti fondamentali, come la prima identificazione e l’informazione sulle procedure di protezione internazionale. Molte, e delicatissime, sono le domande che restano senza risposta: i nuovi “punti di crisi” saranno strutture aperte, da cui lo straniero resterà libero di allontanarsi, o luoghi chiusi, dove lo straniero in attesa dell’identificazione sarà sottoposto a privazione di libertà? Se, come accade non di rado, le procedure di identificazione non si risolvano nel volgere di poche ore, ma si prolunghino per giorni (spesso anche per il rifiuto dello straniero di sottoporsi al prelievo delle impronte), su quali basi legali lo straniero, prima dell’eventuale trasferimento in un CPR, potrà essere trattenuto nel punto di crisi? Potrà lo straniero essere trattenuto per giorni senza un provvedimento formale, e senza un controllo da parte dell’autorità giudiziaria?

Non si tratta ovviamente di domande di poco conto: è in gioco il diritto all’habeas corpus scolpito dall’art. 13 Cost., e dallo stesso art. 5 CEDU, come ben ha rilevato recentissimamente la Corte di Strasburgo. La risposta del Governo è una norma che, come in un gioco di scatole cinesi, si risolve nel rinvio ad altre norme che non contengono alcuna indicazione pregante. Con l’inquietante conseguenza che la libertà personale dello straniero, nelle prime fasi dopo gli sbarchi, rimarrà affidata, domani come ieri, alla libera discrezionalità delle forze di polizia.

 

8. Le ultime riforme in tema di detenzione ammnistrativa (negli ex CIE o nei “punti di crisi”) confermano in definitiva quel fenomeno di “bagatellarizzazione della libertà personale” del migrante irregolare (l’espressione è di Angelo Caputo), che ormai da più di quindici anni, almeno a far data dalla legge Bossi-Fini, caratterizza quasi ogni intervento in materia di immigrazione. La libertà dello straniero irregolare continua ad essere considerata come un valore di poco conto; al punto che, quando si tratta di detenzioni di qualche giorno (come accade negli hotspots), la legge sembra considerare tollerabile che tale libertà possa essere compressa de facto dall’autorità di polizia, al di fuori di qualsivoglia disciplina legale e di qualsiasi controllo da parte dell’autorità giudiziaria. Una soluzione, questa, che non sarebbe neppure immaginabile nei confronti di cittadini italiani, ed è a tutti gli effetti degna di uno stato di polizia, piuttosto che di uno stato di diritto.

Il decreto legge in commento, ora in discussione in Parlamento, è attualmente al centro di pesanti critiche relative in particolare alle riforme in materia di procedure di protezione, che come visto all’inizio rappresentano l’aspetto più significativo del decreto. Esso però contiene, come abbiamo appena visto, novità di rilievo anche in materia di privazione di libertà amministrativa dello straniero. Sarebbe allora importante che dal mondo dei penalisti venisse un forte segnale di critica rispetto a tali novità, che fanno ancora una volta della libertà degli stranieri irregolari una “libertà diversa”, addirittura sottratta in alcuni casi alle più elementari garanzie costituzionali e convenzionali. È vero che non si parla qui di misure penali: ma quando viene in considerazione la privazione di libertà ad opera delle autorità dello Stato, il penalista non può volgere lo sguardo altrove, e deve pretendere il rispetto dei diritti fondamentali della persona, quali che siano le etichette sotto cui la privazione di libertà viene praticata.