ISSN 2039-1676


8 maggio 2017 |

Un nuovo passo della Consulta per la tutela dei minori con genitori condannati a pene detentive, e contro gli automatismi preclusivi nell’ordinamento penitenziario

Nota a Corte cost., sent. 8 marzo 2017 (dep. 12 aprile 2017), n. 76, Pres. Grossi, Rel. Zanon

Contributo pubblicato nel Fascicolo 5/2017

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1. Con la sentenza n. 76 del 2017 la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 47-quinquies, comma 1-bis, della legge 26 luglio 1975, n. 354, limitatamente alle parole «Salvo che nei confronti delle madri condannate per taluno dei delitti indicati nell’articolo 4-bis,».

Ciò vuol dire, come meglio si vedrà tra breve, che le madri (od eventualmente i padri) di bambini di età pari o inferiore ai dieci anni potranno valersi della detenzione domiciliare speciale, nella forma di massima agevolazione che consente l’accesso senza una fase antecedente di custodia carceraria, anche nel caso di condanna per uno dei reati inclusi nel catalogo dell’art. 4-bis dell’Ordinamento penitenziario: la norma cioè sulla quale, com’è noto, il legislatore ha costruito uno statuto differenziale e sfavorevole per i condannati cui attribuisce marcata pericolosità, essenzialmente sulla scorta di presunzioni correlate alla qualità del reato commesso.

 

2. Può essere utile, per comprendere appieno l’approdo cui è giunta la Corte, uno sguardo d’insieme alla disciplina della carcerazione per i genitori di figli infanti, nella sua versione originaria e nell’assetto di maggior favore maturato grazie a riforme legislative e ad alcuni interventi della giurisprudenza costituzionale.

Non pare dubbia, quale spiegazione delle linee evolutive del sistema, l’incidenza di fattori molteplici, compreso il bisogno di moderare i livelli quantitativi della popolazione carceraria, così attenuando una pressione che ha portato alla condanna dell’Italia, in sede europea, per il sovraffollamento disumano degli istituti di custodia e pena (Corte edu, II sezione, 8 gennaio 2013, Torreggiani e altri v. Italia). Al tempo stesso, certamente, l’occasione di una maternità o di una paternità responsabile è stata considerata quale strumento per una più facile e probabile risocializzazione complessiva del condannato. Ma il fattore principale dell’allargamento verso uno statuto speciale dell’esecuzione in danno dei genitori è stato costituito dalla valorizzazione sempre più intensa degli strumenti nazionali e sovranazionali di tutela dei bambini e dei minori. La Consulta l’ha notato ormai più volte, e l’ha ripetuto, pur sinteticamente, nella sentenza qui in commento.

Non solo l’art. 31, secondo comma, della Costituzione, ma anche l’art. 3, primo comma, della Convenzione ONU sui diritti del fanciullo (1989, con ratifica italiana del 1991) e l’art. 24, secondo comma, della Carta di Nizza: norme sovranazionali, entrambe, nel cui ambito si pretende “considerazione preminente” per l’interesse superiore del fanciullo in tutte le decisioni dell’autorità pubblica che lo riguardino; norme, dunque, che dettano un criterio di bilanciamento affatto particolare, per il legislatore ed anche, nella cornice della legge, quanto alle decisioni giudiziali.

2.1. Fin dalla metà degni anni ‘80, con l’inserimento nella legge n. 354 del 1975 del nuovo art. 47-ter, il legislatore aveva compreso i compiti di assistenza ed educazione verso bambini in tenera età tra le fattispecie idonee a bilanciare la pretesa punitiva espressa con la condanna a pene carcerarie, attraverso l’esecuzione di tali pene presso abitazioni od istituti di assistenza ed accoglienza, così da consentire lo sviluppo del rapporto tra genitore e figlio in condizioni di relativa “normalità”. Si trattava tra l’altro, e soprattutto, di evitare la cosiddetta “carcerizzazione” degli infanti, cioè la permanenza dei bambini molto piccoli, sia pure al fianco delle madri, presso gli istituti di reclusione (unica possibilità di relazione materna consentita, ex art. 11, comma 7, nel testo originario della legge di Ordinamento).

In sede di riforma, dunque, la donna incinta o madre di prole di età inferiore a tre anni con lei convivente (attualmente la soglia di età del bambino è fissata a dieci anni) fu inclusa tra i soggetti che, dovendo scontare pene di livello non molto alto (attualmente, fino a quattro anni), anche quando si trattasse del residuo di sanzioni più elevate, potevano avvalersi della detenzione domiciliare, da eseguirsi appunto nel domicilio o presso strutture di cura o assistenza. In seguito, è stata prevista una possibilità analoga per il padre, in caso di assenza o assoluto impedimento della madre (l’art. 47-ter fu introdotto dalla legge n. 663 del 1986, ed è stato poi modificato più volte).

Passati una decina d’anni ed oltre dalla cosiddetta legge Gozzini, il legislatore aveva poi introdotto una prima serie di fattispecie utili a consentire l’esecuzione “domiciliare” per periodi di pena più lunghi di quelli in allora indicati al primo comma dell’art. 47-ter, introducendo in tale ultima norma, con la legge n. 165 del 1998, un comma 1-ter: in sostanza, quando ricorrono le condizioni per un rinvio della esecuzione, a carattere obbligatorio o facoltativo, è consentito al  giudice di disporre invece che la pena (anche quella eccedente il limite generale fissato per la detenzione domiciliare) venga eseguita, appunto, presso una abitazione o presso istituti di cura e assistenza, stabilendo discrezionalmente il periodo di applicazione della misura (ed eventualmente prorogandolo). Si tratta, come accennato, di casi particolari: quello della madre di un neonato (fino ad un anno: art. 146 cod. pen.) o comunque di un bambino molto piccolo (fino a tre anni: art. 147 cod. pen.).

Passato ancora qualche anno, con la legge n. 40 del 2001 è stata prevista la possibilità di assistenza all’esterno in favore dei figli di età non superiore ai dieci anni (art. 21-bis della legge n. 354 del 1975), nelle stesse condizioni previste per il lavoro all’esterno, in via primaria per le madri e, sussidiariamente, in favore dei padri. Soprattutto, per mezzo del nuovo art. 47-quinquies della legge di Ordinamento penitenziario, al comma 1, è stata introdotta la disciplina della detenzione domiciliare speciale.

In sostanza, e sia pure in condizioni sensibilmente restrittive (prognosi favorevole sul comportamento futuro del condannato e previa esecuzione della pena per almeno un terzo, o per quindici anni in caso di ergastolo), le madri (o i padri) dei bambini infradecenni possono scontare la reclusione in casa o presso strutture di accoglienza, anche se mancano «le condizioni di cui all'articolo 47-ter»: in sostanza, anche per quote di pena eccedenti i quattro anni.

Di più, con una disposizione aggiuntiva inserita mediante l’art. 3 della legge n. 62 del 2011, cioè il comma 1-bis del citato art. 47-quinquies, è stata introdotta – previa verifica di ricorrenza di talune condizioni soggettive e oggettive – la possibilità che le madri di bambini in tenera età possano fin dall’inizio scontare la pena detentiva in un’abitazione od in un luogo di assistenza ed accoglienza, cioè scontare in un regime siffatto anche quel terzo di pena (o i quindici anni per il caso dell’ergastolo) che serve, a norma del comma precedente, a legittimare la forma originaria di detenzione domiciliare speciale.

Tuttavia, come di nuovo si vedrà in seguito, tale “specialissima” misura alternativa di esecuzione era applicabile «salvo che nei confronti delle madri condannate per taluno dei delitti indicati nell'articolo 4-bis» della stessa legge n. 354 del 1975. Un caso dunque peculiare, ma non anomalo, di automatismo fondato su una presunzione assoluta di segno sfavorevole, da aggiungere al regime speciale introdotto e progressivamente adattato, ex art. 4-bis, per limitare l’accesso ai benefici penitenziari dei condannati considerati pericolosi.

Una sorta di regime speciale della carcerazione è stato introdotto, com’è noto, anche con riguardo alla condizione di custodia cautelare. Se il testo originale del comma 4 dell’art. 275 c.p.p. poneva un divieto (relativo) di applicare la misura estrema solo nei confronti delle madri in fase di allattamento, la riforma attuata con la legge n. 332 del 1995 aveva esteso lo stesso regime anche alle madri conviventi di infanti di età pari od inferiore ai tre anni. Poi, con la legge n. 62 del 2011, l’esercizio di una maternità piena e responsabile è stato favorito anche con l’intervento sulla carcerazione preventiva, estendendo il divieto di custodia intra moenia, salvo che non sussistano esigenze cautelari di eccezionale rilevanza, alle madri di bambini di età pari od inferiore ai sei anni (con l’ulteriore previsione della restrizione in istituto a custodia attenuata per detenute madri, nei casi in cui ricorrono gravissime esigenze cautelari, e sempre che tali esigenze lo consentano, secondo la previsione del nuovo art. 285-bis  c.p.p.).

Con una distonia subito evidente: che, nel caso di perdurante pendenza del processo dopo il sesto compleanno del bambino, la madre deve essere condotta in carcere, se ricorrono tutti gli ulteriori presupposti della custodia (quindi quasi “automaticamente”, nel caso di imputazioni di mafia, terrorismo, narcotraffico et similia), ed a quel punto sperare nella irrevocabilità d’una sentenza di condanna, posto che la relativa esecuzione, come si è visto, potrebbe avvenire in regime di detenzione domiciliare fino al compimento dei dieci anni da parte del figlio.

2.2. Il quadro sovranazionale di tutela rafforzata dei bambini ha orientato anche una giurisprudenza costituzionale piuttosto copiosa ed incisiva, che ha espresso in sintesi un principio essenziale: occorre fare tutto il necessario affinché la punizione inflitta al genitore non si risolva in un provvedimento punitivo per il suo bambino, e va preclusa l’utilizzazione di provvedimenti limitativi della responsabilità genitoriale con finalità di punizione del condannato, e non (quando ne ricorrono le condizioni) quali strumenti di miglior tutela degli interessi del minore.

Una rapida rassegna evidenzia fronti sui quali la pressione per un ampliamento delle garanzie ha avuto successo, almeno parziale, e fronti sui quali, invece, la Consulta non ha ritenuto possibile un proprio intervento di manipolazione del sistema, nonostante l’evidente incoerenza che segna, per qualche verso almeno, il sistema stesso.

2.2.1.  La Corte ad esempio si è più volte rifiutata di omologare, quanto ai limiti di applicabilità del regime carcerario, la disciplina della custodia cautelare a quella della esecuzione di pena, la quale ultima, paradossalmente, finisce per essere più favorevole al genitore ed al suo bambino. Per utilizzare il linguaggio della decisione più recente sul tema, anche quando si discuta dell’identico interesse del minore a conservare un rapporto extra carcerario con la madre (perché si considera un bambino della stessa età), il trattamento della cautela e quello della esecuzione possono essere diversi, perché mutano «profondamente, a seconda del titolo di detenzione, le esigenze di difesa sociale»: «le misure cautelari, a differenza della pena, [sono] volte a presidiare i pericula libertatis, cioè ad evitare la fuga, l’inquinamento delle prove e la commissione di reati […] se le rispettive esigenze di difesa sociale sono di natura profondamente diversa, ne consegue che il principio da porre in bilanciamento con l’interesse del minore è, nei due casi, differente. E non raggiunge, pertanto, il livello della irragionevolezza manifesta la circostanza che il bilanciamento tra tali distinte esigenze e l’interesse del minore fornisca esiti non coincidenti» (sentenza n. 17 del 2017).

In base a questa logica, nel passato, la Corte ha respinto il tentativo di estendere ai provvedimenti cautelari il divieto di reclusione per le puerpere (sentenza n. 25 del 1979), e – in certo senso corrispettivamente – ha rifiutato di estendere al divieto posto per la fase esecutiva le eccezioni previste per la custodia cautelare in caso di persone ritenute altamente pericolose (ordinanze n. 145 del 2009 e n. 260 del 2009).

Da ultimo, con la citata sentenza n. 17 del 2017[1], è stata dichiarata l’infondatezza di una serie di questioni che nel complesso miravano ad estendere il divieto di custodia in carcere, posto dal comma 4 dell’art. 275 c.p.p., con riguardo a bambini di età superiore ai sei anni. L’ordinanza di rimessione aveva posto varie censure, in modo non del tutto lineare, e tra queste interessa, nella sede presente, la comparazione istituita appunto con il regime della reclusione in fase esecutiva, che consente misure alternative per ragazzi fino a dieci anni. La Corte ha risposto, come si è visto, che l’identità del bisogno minorile di proseguire con il minor turbamento il rapporto con il genitore non implica che debba essere sempre identico l’esito del bilanciamento, quando cambiano, come avviene nella specie, la qualità e la quantità degli interessi contrapposti.

2.2.2. Ben più aperta si è invece mostrata la giurisprudenza costituzionale quando si è trattato di fronteggiare incoerenze interne al sistema dell’esecuzione penale, omologando il trattamento di situazioni ritenute, secondo percorsi più o meno convincenti, meritevoli di assimilazione.

Può solo evocarsi, in questa sede, il delicatissimo tema dei figli portatori di disabilità, in favore dei quali la Corte ha disposto, nei casi di handicap “totalmente invalidante”, l’applicazione della disciplina concernente la detenzione domiciliare di cui all’art. 47-ter, comma 1, lettera a) dell’Ordinamento penitenziario, avuto riguardo alle pene inflitte in danno della madre condannata, e, nei casi previsti dal comma 1, lettera b), del padre condannato (sentenza n. 350 del 2003). Un più recente tentativo di omologazione tra infanti e persone d’età più alta ma affette da disabilità, operato nell’ambito delle norme sulla custodia cautelare, è invece fallito, con pronuncia di manifesta inammissibilità, ma sulla base prevalentemente dei difetti intrinseci attribuiti al ragionamento ed alle conclusioni del giudice rimettente (ordinanza n. 104 del 2015)[2].

Altro intervento di omologazione la Corte l’ha compiuto sulla disciplina delle infrazioni al regime della detenzione domiciliare per le madri di prole infante, che ovviamente può condurre ad una revoca del trattamento domiciliare, nonostante la speciale esigenza di relazione con il figlio. In sintesi, la stratificazione degli interventi legislativi aveva portato, per il caso del ritardato od omesso rientro nell’abitazione da parte della condannata, ad un regime differenziale in punto di integrazione del delitto di evasione e di presupposti per la cessazione della misura alternativa, a seconda che si trattasse della cosiddetta detenzione domiciliare ordinaria (quella dell’art. 47-ter) o di quella cosiddetta speciale (quella dell’art. 47-quinquies). Con l’ulteriore paradosso che il trattamento più severo era riservato alla donna posta in linea di massima nel contesto di minore allarme (cioè con una pena più bassa da scontare). Con la sentenza n. 177 del 2009, dunque, la Corte ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 47-ter, commi 1, lettera a), seconda parte, e 8, dell’Ordinamento penitenziario, nella parte in cui non limitava la punibilità ai sensi dell'art. 385 c.p. al solo allontanamento protratto per più di dodici ore, così come era invece stabilito dall'art. 47-sexies, comma 2, della suddetta legge n. 354 del 1975 (sia pur sul presupposto, richiesto per la sola fattispecie speciale, che non sussista un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti)[3].

 

3. Ma il terreno di gran lunga più importante, che riguarda per la verità l’intero sistema delle misure alternative alla carcerazione, è quello degli automatismi preclusivi, che si fondano in prevalenza (ma non solo) sul divieto generale posto, riguardo alla maggioranza delle misure e per numerosi reati, dall’art. 4-bis della legge n. 354 del 1975.

Com’è noto l’art. 4-bis della è stato introdotto nell’Ordinamento penitenziario (art. 1, comma 1, del decreto-legge n. 152 del 1991, come convertito, con modificazioni, dalla legge n. 203, del 1991) all’indomani di gravissimi fatti di criminalità mafiosa, con il fine precipuo (enunciato dalla sua stessa rubrica: «Divieto di concessione dei benefici e accertamento della pericolosità sociale dei condannati per taluni delitti») di precludere l’accesso ai benefici penitenziari dei condannati per una serie di delitti, il cui ambito è stato progressivamente esteso nel tempo. Sono state estese – tra l’altro per impulso della Corte costituzionale – anche le eccezioni su base soggettiva al divieto generalizzato di applicazione degli istituti alternativi alla carcerazione, soprattutto nel senso che la impossibilità oggettiva di collaborazione con gli inquirenti è stata equiparata al conseguito status di collaboratore di giustizia, che neutralizza appunto il divieto normativo. Inoltre, le porte del carcere sono rimaste parzialmente “aperte” in favore dei condannati per determinati delitti, sulla base però di condizioni più restrittive, in punto di pericolosità personale e di relativa verifica, di quelle usualmente valevoli per le singole misure alternative.

L’automatismo che segna in grande misura la previsione ricalca un modello diffuso nella periodica legislazione securitaria che viene prodotta in Italia. L’ordinamento è segnato da disposizioni che escludono o limitano grandemente la discrezionalità giudiziale, stabilendo che determinate condizioni producano un determinato effetto senza che sia possibile, per il giudice, una verifica che nel caso concreto ricorra effettivamente la ragione giustificatrice posta a fondamento razionale della disciplina da applicare. È nota a tutti la sequenza delle decisioni della Consulta che hanno demolito le regole di applicazione “obbligatoria” della custodia in carcere, sulla base dell’assunto per il quale le presunzioni assolute non sono vietate dall’art. 3 della Costituzione, ma richiedono una “base empirica” di grandissima affidabilità, tale da ridurre al minimo la possibilità che si dia un caso concreto nel quale non ricorrano le condizioni necessarie per la ragionevole applicazione della disciplina (per una recente applicazione del principio, nella specie relativa al regime della recidiva, può vedersi ad esempio la sentenza n. 185 del 2015[4]).

Naturalmente, anche l’art 4-bis, che si fonda largamente su una logica analoga (chi ha commesso un certo delitto sarà sempre pericoloso al punto da non legittimare la rinuncia all’esecuzione in forma carceraria), ha subito l’attacco della pratica forense. E tuttavia la Consulta, che pure non ha mancato di intervenire su singoli aspetti della relativa disciplina, ed ha spesso sviluppato notazioni fortemente critiche sulla previsione (a titolo di esempio possono citarsi le sentenze n. 306 del 1993, n. 32 del 2016 e n. 239 del 2014), si è rifiutata di riconoscere una incompatibilità sostanziale e generalizzata tra il meccanismo normativo ed i principi di uguaglianza e ragionevolezza, oltre che con i parametri che assicurano la funzione rieducativa della pena (tra le altre, sentenze n. 39 del 1994, n. 273 del 2001, n. 135 del 2003).

Una parziale eccezione riguarda proprio le misure in favore dei genitori di figli infanti, la cui possibilità di accesso alla detenzione domiciliare è stata in larga parte sganciata dal titolo del reato commesso, e quindi decisivamente favorita.

3.1. Un primo passaggio si è attuato con la sentenza n. 239 del 2014[5].

In verità la pratica aveva già tentato di superare l’automatismo in base ad interpretazioni costituzionalmente orientate, la cui sostanza si risolveva nell’invocazione di un diverso bilanciamento tra esigenze di sicurezza ed aspirazione di (relativa) libertà del condannato, quando la misura alternativa costituisca lo strumento per assicurare la prevalenza degli interessi del minore, imposta come detto da parametri nazionali e sovranazionali. Ma la stessa Consulta, seguendo in questo la giurisprudenza di legittimità, ha escluso, con la sentenza citata, la plausibilità dell’interpretazione adeguatrice, riconoscendo che il legislatore aveva ha inteso vietare la detenzione domiciliare anche in favore delle madri di infanti, se condannate per gravi delitti (e non assistite dalle particolari condizioni personali che avrebbero consentito una deroga al divieto).

Partendo da questo presupposto, per altro, la Corte ha riconosciuto l’illegittimità del regime preclusivo, e ciò per varie ragioni. Illegittima anzitutto l’estensione di una disciplina nata per incentivare i condannati alla collaborazione, anche quale momento pregnante del loro percorso rieducativo, ad un contesto nel quale le conseguenze negative della preclusione si producono soprattutto in danno di un terzo, cioè del figlio infante, i cui diritti sono d’altra parte garantiti al massimo livello. È vero che le esigenze di sicurezza non devono soccombere in qualunque caso, quando sia in gioco una relazione genitoriale (tanto che si giustificano le speciali condizioni previste per la detenzione domiciliare speciale al comma 1 dell’art. 47-quinquies: sentenza n. 177 del 2009), ma resta inaccettabile, in effetti,  l’automatismo della preclusione, cioè il fatto che l’interesse del minore venga considerato soccombente senza alcuna possibilità di verifica che, nel caso concreto, ricorra davvero una pericolosità tale da rendere irrinunciabile la carcerazione del genitore.

È interessante ancor oggi leggere il passaggio decisivo della prima sentenza sulle “madri del 4-bis”:  «affinché l’interesse del minore possa restare recessivo di fronte alle esigenze di protezione della società dal crimine occorre che la sussistenza e la consistenza di queste ultime venga verificata, per l’appunto, in concreto […] e non già collegata ad indici presuntivi – quali quelli prefigurati dalla norma censurata – che precludono al giudice ogni margine di apprezzamento delle singole situazioni».

Su queste basi la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale parziale dell’art. 4-bis, comma 1 della legge n. 354 del 1975, ed ha esteso l’ablazione del divieto, mediante il meccanismo della cosiddetta “illegittimità consequenziale”, dalla fattispecie della detenzione domiciliare speciale prevista dall’art. 47-quinquies della medesima legge alla cosiddetta detenzione domiciliare ordinaria, prevista dall’art. 47-ter, comma 1, lettere a) e b), della stessa legge, ferma restando la condizione dell’insussistenza di un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti.

3.2. Su queste premesse, l’approdo cui la Consulta è pervenuta con la sentenza n. 76 del 2017 appare del tutto congruente.

Una parziale connessione tra la misura della detenzione domiciliare speciale e la preclusione per i reati inseriti nel catalogo dell’art. 4-bis era rimasta operativa in forza del testo, non manipolato, del comma 1-bis dell’art. 47-quinquies, ed in particolare dell’incipit della norma: l’accesso “speciale” alla forma alternativa di esecuzione era applicabile «salvo che nei confronti delle madri condannate per taluno dei delitti indicati nell’articolo 4-bis».

Si parla qui, giova ricordarlo, della norma che, a partire dal 2011, consente eventualmente alle condannate madri di scontare l’intera pena in regime di detenzione domiciliare, o comunque una porzione significativa (anche più di dieci anni) di pene molto alte, e perfino dell’ergastolo (supra, § 2). Nell’introdurla, il legislatore ne aveva appunto esclusa automaticamente l’applicazione nei casi di condanna per uno dei delitti indicati all’art. 4-bis.

Per la verità non era mancato il tentativo, ripreso dall’Avvocatura dello Stato nel giudizio incidentale definito con la sentenza in commento, di interpretare l’incipit del comma 1-bis nel senso che non avrebbe vietato l’accesso alla misura, valendo solo ad esigere che ricorressero, nel caso concreto, le condizioni di deroga interne allo stesso art. 4-bis (cioè, ad esempio, lo status di collaboratore di giustizia). La Corte tuttavia, come già aveva fatto con la sentenza n. 239 del 2014, ha escluso il fondamento di una interpretazione siffatta, assegnando alle parole (malamente) assemblate dal legislatore il loro univoco significato, cioè quello della esclusione dei “casi” richiamati dall’intera disciplina dettata nel prosieguo della disposizione.

Ciò premesso, la Corte ha preso atto dell’automatismo introdotto dal legislatore, e l’ha censurato nella logica già adottata per la sentenza sull’art. 4-bis. Qui cioè la presunzione assoluta non è censurata in quanto irragionevole, ma per la stessa sua esistenza, alla luce del principio per il quale lo statuto costituzionale di protezione del minore infante esige sempre e comunque una verifica in concreto del bilanciamento tra esigenze della sicurezza collettiva ed interesse alla preservazione del rapporto genitoriale. In altre parole, dovrà essere considerata illegittima ogni presunzione non superabile che vieti l’applicazione a casi determinati in astratto di misure volte a favorire lo sviluppo della relazione parentale, od imponga in casi altrettanto determinati l’applicazione di misure idonee a recidere il vincolo genitoriale.

Sotto quest’ultimo profilo può ricordarsi anche, mutatis mutandis, la recente giurisprudenza costituzionale sulla perdita della potestà genitoriale quale sanzione accessoria applicata automaticamente nei confronti dei responsabili di determinati delitti contro la famiglia (sentenze n. 7 del 2013 e n. 31 del 2012).

Insomma, la disciplina censurata nella specie violava il secondo comma dell’art. 31 della Costituzione (la Corte ha considerato assorbite le ulteriori censure prospettate dal rimettente, cioè quelle relative agli artt. 3, 29 e 30 della Carta). Per riportarla sul piano della compatibilità costituzionale è bastato elidere l’incipit della norma censurata, eliminando l’eccezione fondata sulla pertinenza del reato commesso al catalogo dell’art. 4-bis, ed estendendo quindi la possibilità della detenzione domiciliare speciale a qualunque reato.

Naturalmente, la Corte non ha inteso incidere né sulle condizioni interne al comma 1-bis, che assicurano attraverso la valutazione del pericolo di reiterazione dei reati o di fuga della persona condannata quel bilanciamento in concreto che rappresenta il “minimo esigibile”, né sulla relazione (che potrebbe dirsi “normalizzata”) tra l’art. 47-quinquies e l’art. 4-bis della legge di Ordinamento penitenziario.

Tale ultima relazione, per altro, è stata in parte spezzata dalla sentenza n. 239 del 2014, che ha escluso le ipotesi di detenzione domiciliare dal divieto posto dalla norma preclusiva generale (comma 1 dell’art. 4-bis), sia pure ribadendo la necessità, per la forma “ordinaria” della misura, dell’insussistenza in concreto del rischio di commissione di nuovi delitti.  Di conseguenza, in chiusura del proprio provvedimento, la Corte ha rilevato che «ai condannati per uno dei delitti di cui all’art. 4-bis della legge n. 354 del 1975 resta pur sempre applicabile il complesso ed articolato regime previsto da tale disposizione per la concessione dei benefici penitenziari, in base, però, alla ratio della sentenza n. 239 del 2014 […] secondo la quale la mancata collaborazione con la giustizia non può ostare alla concessione di un beneficio primariamente finalizzato a tutelare il rapporto tra la madre e il figlio minore».

Sarebbe stato forse preferibile che la Consulta, in questo snodo davvero essenziale del ragionamento (almeno per quanto riguarda la fisionomia della disciplina di risulta), si esprimesse in termini più espliciti.

È chiaro che i Giudici, consapevoli della delicatezza propria d’una regola di applicabilità generalizzata della misura non carceraria, hanno inteso richiamare l’attenzione degli operatori sul valore sintomatico che l’art. 4-bis assegna al compimento di determinati delitti, e che ancora preclude l’accesso del condannato a misure alternative diverse dalla detenzione domiciliare per responsabilità genitoriale. Si devono evidenziare, però, le implicazioni più ampie ed incisive del rilievo. Sembra cioè che la Corte, riprendendo il precedente altrettanto ermetico ma pur sempre dichiarativo della illegittimità del solo comma 1 dell’art. 4-bis, abbia inteso affermare o ribadire che la detenzione domiciliare speciale resta assoggettata alle ulteriori previsioni del citato articolo, ed in particolare a quelle che pretendono, per i reati elencati al comma 1-ter, che «non vi siano elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva» e per i reati di cui al comma 1-quater che siano positivi i «risultati dell'osservazione scientifica della personalità condotta collegialmente per almeno un anno anche con la partecipazione degli esperti di cui al quarto comma dell'articolo 80» o, per casi particolari (comma 1-quinquies), che risulti la «positiva partecipazione al programma di riabilitazione specifica di cui all'articolo 13-bis» della legge di Ordinamento penitenziario.

Una soluzione certamente ancorata al perimetro dell’incisione attuata con la sentenza n. 239 del 2014. Con la decisione più recente, in effetti, la Corte non ha fatto che elidere la sopravvenuta distonia tra le regole dell’accesso “precoce” alla detenzione domiciliare e quelle per l’applicazione “ordinaria” dopo la parziale esecuzione carceraria della pena, così come risultanti, appunto, a seguito della sua precedente sentenza.

Sembra per altro si imponga, ormai, un’analisi di ragionevolezza della disciplina di risulta, come delineata in esito al doppio intervento della Consulta, posto che nel comma 1 dell’art. 4-bis sono compresi reati diversi da quelli elencati nelle disposizioni successive, ed anche più gravi. Con la conseguenza che – ferma restando la non necessità della condotta collaborativa – i presupposti per l’accesso al beneficio, quanto ai reati di prima fascia, sembrerebbero meno restrittivi (o comunque meno specifici) che per le fattispecie di cui ai commi 1-ter e seguenti dell’art. 4-bis. La cosa pareva aver senso nell’assetto originario della materia (sia pure un senso fortemente connesso all’incentivazione delle condotte collaborative e, comunque, alla valorizzazione estrema delle medesime condotte sul piano prognostico), ma vi sarà da stabilire, in sede di trattazione approfondita della materia, se un senso vi sia ancora – ed in quale misura – dopo la sentenza n. 239 del 2014 (e dopo la decisione, logicamente conseguente, n. 76 del 2017).

 

4. Tentiamo allora una breve sintesi dello stato della normativa.

In forza dell’art. 47-ter, comma 1, della legge di Ordinamento penitenziario, la madre (o, a determinate condizioni, il padre) di un bambino con età pari nel massimo a dieci anni, può scontare la pena della reclusione fino a quattro anni in ambiente domiciliare od in strutture di assistenza, anche quando si tratti del residuo di una maggior pena. La misura, dopo la sentenza n. 239 del 2014, è applicabile per qualsiasi delitto. Se si tratta di un delitto compreso nel novero delle fattispecie elencate all’art. 4-bis della legge n. 354 del 1975, la necessità che possa essere escluso il rischio di recidiva è stabilita testualmente dal dispositivo di manipolazione che segna la citata sentenza n. 239 del 2014 (ma la stessa Corte ha ammesso, nella motivazione di quel provvedimento, che si tratta di un requisito implicito generale della detenzione domiciliare ordinaria, negando dunque, di fatto, la peculiarità in astratto del trattamento concernente i delitti gravi). Anche alla luce della sentenza n. 76 del 2017 dovrebbe ritenersi, secondo quanto illustrato nel paragrafo che precede, che per i delitti elencati ai commi 1-ter, 1-quater e 1-quinquies dell’art. 4-bis debbano ricorrere le condizioni, parzialmente divergenti, indicate nelle norme stesse.

In secondo luogo, con l’istituto della detenzione domiciliare speciale, il comma 1 dell’art. 47-quinquies consente al genitore – sempre e solo fino a che il suo bambino non abbia compiuto i dieci anni – di scontare fuori dal carcere anche pene superiori ai quattro anni, ma in questo caso solo se si tratta del residuo di una maggior pena, e se sia stata espiata, della pena stessa, una porzione pari almeno ad un terzo (o a quindici anni, nel caso di condanna all’ergastolo). Sempre per effetto della sentenza n. 239 del 2014, la misura è applicabile per qualsiasi delitto, ferme le concrete condizioni già fissate dal legislatore con il testo della previsione e fermo restando quanto già precisato, poco sopra, per i reati di cui ai commi 1-ter e seguenti dell’art. 4-bis.

V’è infine una seconda ipotesi di detenzione domiciliare speciale (o, secondo l’opinione preferibile, una semplice modalità di accesso privilegiato alla ipotesi principale), regolata dal comma 1-bis dell’art. 47-quinquies, come manipolato dalla decisione assunta con la sentenza n. 76 del 2017. I genitori di figli con età pari o inferiore a dieci anni possono scontare fuori dal carcere non solo le pene, di qualsiasi durata, che residuino dopo la pregressa espiazione di un terzo della sanzione inflitta (o di quindici anni per il caso di ergastolo), ma la stessa “quota di espiazione preliminare” normalmente necessaria allo scopo, ed appena richiamata, così da non iniziare neppure l’esecuzione carceraria, quando la relazione genitoriale sia in atto.

Anche questo regime specialissimo, dopo l’intervento della Consulta, si applica quale che sia il reato commesso, e dunque anche per fatti compresi nella previsione dell’art. 4-bis, ferme restando le condizioni concrete descritte nel comma 1-bis dell’art. 47-quinquies, e richiamato di nuovo quanto si è detto per i reati di cui ai commi 1-ter e seguenti dello stesso art. 4-bis.

Va infine ricordato, per esaurire il quadro delle opportunità concernenti la fase esecutiva della pena, che le madri dei figli di età pari o inferiore ai dieci anni, quando si trovino comunque ristrette in carcere, possono essere ammesse alla cura e all’assistenza all’esterno in favore della prole, alle condizioni previste all’art. 21 per il lavoro all’esterno (art. 21-bis della legge n. 354 del 2015). È anche conferita la possibilità di ottenere permessi per assistere il figlio infermo o affetto da disabilità (art. 21-ter, comma 1), o per assistere il bambino infradecenne durante l’effettuazione di visite specialistiche (art. 21-ter, comma 2): queste opportunità, per inciso, sono accordate anche alle persone in condizione di custodia cautelare.

 

[1] La sentenza è stata pubblicata in questa Rivista, con una nota di Enrico ANDOLFATTO, Custodia cautelare in carcere ed esigenze di tutela dei figli minori: la sentenza della Corte Costituzionale sull’art. 275, comma IV, c.p.p.

[2] Si tratta dell’ordinanza 13 maggio 2015, n. 104, che può essere letta cliccando qui.

[3] Si tratta della sentenza 10 giugno 2009, n. 177, che può essere consultata cliccando qui.

[4] Si tratta della sentenza 23 luglio 2015, n. 185, pubblicata in questa Rivista con nota di Federica URBAN, Sulla illegittimità costituzionale dell’applicazione obbligatoria della recidiva anche ai reati di particolare gravità e allarme sociale.

[5] Sentenza 22 ottobre 2014, n. 239, pubblicata in questa Rivista con nota di Fabio FIORENTIN, La Consulta dichiara incostituzionale l'art. 4 bis ord.penit. laddove non esclude dal divieto di concessione dei benefici la detenzione domiciliare speciale e ordinaria in favore delle detenute madri.