ISSN 2039-1676


09 giugno 2017 |

La Suprema Corte alle prese con il "principio di assorbimento" in una recente sentenza in materia di abuso d’ufficio

Nota a Cass., Sez. VI, sent. 28 febbraio 2017 (dep. 21 marzo 2017), n. 13849, Pres. Carcano, Rel. Corbo, Ric. Trombatore

Contributo pubblicato nel Fascicolo 6/2017

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1. Segnaliamo ai nostri lettori una recente pronuncia con cui la Sesta sezione penale della Cassazione ha ancora una volta escluso il concorso formale tra i delitti di abuso d’ufficio e di falso (ideologico o materiale) in atto pubblico, con riferimento a tutti quei casi in cui la contestata condotta di abuso si sia interamente esaurita nella commissione di un fatto qualificabile come falso in atto pubblico.

Tale decisione, sostanzialmente in linea con la tendenza maggioritaria espressa dalla giurisprudenza di legittimità – pur nel quadro, in verità, di un dibattito giurisprudenziale ancora aperto – appare infatti interessante perché in essa la Suprema Corte si sforza di dettare regole generali sul funzionamento delle clausole di riserva e, nello specifico, sui criteri idonei ad attribuire natura autonoma al principio di assorbimento (rectius, di sussidiarietà) per distinguerlo dal diverso principio di specialità.

 

2. La vicenda portata davanti ai giudici di legittimità riguardava due distinte tipologie di condotte commesse dall’imputato quale funzionario istruttore direttivo della Camera di Commercio.

Costui, infatti, da una parte si era illegittimamente appropriato di denaro versato alla Camera di Commercio da privati cittadini a titolo di cancellazione o riabilitazione dai protesti, condotte per le quali gli era stato contestato il reato di peculato; dall’altra, aveva altresì proceduto a inserire nel sistema informatico della Camera di Commercio una serie di annotazioni di avvenuta cancellazione per riabilitazione in favore di alcuni debitori protestati, con contestuale indicazione dell’avvenuto pagamento dei diritti di segreteria per la trattazione della pratica, mentre tali riabilitazioni e tali pagamenti non erano realmente mai intervenuti.

In ordine a questo secondo gruppo di condotte, i reati contestati dal pubblico ministero erano quelli di truffa aggravata (in relazione all’ingiusto profitto procurato ai beneficiari delle indebite cancellazioni mediante induzione in errore degli organi della Camera di Commercio), falsità ideologica commessa da pubblico ufficiale in atto pubblico (attraverso le annotazioni nel sistema informatico della Camera di Commercio) e abuso d’ufficio (avuto riguardo all’ingiusto vantaggio patrimoniale procurato ai beneficiari delle indebite cancellazioni).

La Corte d’appello di Catania, tuttavia, in parziale riforma della sentenza di primo grado, aveva condannato l’imputato solo per i plurimi reati di peculato, truffa e falso, assolvendo con formula piena in merito ai contestati fatti di abuso d’ufficio. Per tale ragione, contro la sentenza di secondo grado ricorreva in Cassazione, oltre al difensore dell’imputato, anche il Procuratore generale della Repubblica presso la Corte d’appello di Catania, il quale lamentava l’avvenuta violazione di legge con riguardo alla ritenuta non configurabilità del delitto di abuso d’ufficio nel caso di specie.

Al contrario di quanto affermato dai giudici dell’appello, infatti, il procuratore generale adduceva che tra il reato di falso e quello di abuso d’ufficio sussiste in verità concorso reale di norme, trattandosi di fattispecie distinte sia sotto il profilo del bene giuridico tutelato, sia per struttura giuridica (e infatti, mentre il delitto di cui all’art. 323 c.p. è reato di evento e richiede il dolo intenzionale, quello di cui all’art. 479 c.p. è reato di mera condotta, punito a titolo di dolo generico). Simili differenze, pertanto, dovrebbero escludere in radice “sia il concorso apparente di norme, sia l’assorbimento di un reato nell’altro per effetto dei principi di sussidiarietà o di consunzione”.

 

3. Secondo la Suprema Corte tali censure sono però infondate, pur riconoscendo che effettivamente il tema sollevato dal procuratore generale – incentrato sulla non chiara delimitazione della portata applicativa della clausola di riserva “salvo che il fatto non costituisca più grave reato” presente all’interno dell’art. 323 c.p. – è stato nel tempo oggetto di soluzioni contrastanti.

In particolare, un primo indirizzo, considerato maggioritario in giurisprudenza, oltre che in dottrina[1], interpreta il reato di abuso d’ufficio come ipotesi residuale rispetto a qualsiasi reato più grave in cui sia ascrivibile il medesimo fatto concreto, ritenendo pertanto che anche in relazione al delitto di falso sussista un rapporto di assorbimento in tutti i casi in cui sia il falso sia l’abuso siano integrati da una medesima condotta unitaria (configurandosi, quindi, un concorso apparente di norme); solo nel caso in cui le condotte di abuso e quella di falso siano distinte, per esempio allorché il falso sia destinato a occultare l’avvenuto abuso d’ufficio, potrebbe invece riconoscersi un concorso materiale dei due delitti.

Nondimeno, diverse decisioni, anche recenti, hanno abbracciato una posizione radicalmente opposta, schierandosi in favore del concorso formale tra i reati di abuso d’ufficio e di falso in atto pubblico, sul presupposto che l’assorbimento andrebbe di per sé escluso in ragione della diversità dei beni giuridici tutelati dalle norme incriminatrici, che sono la genuinità degli atti pubblici per il falso, l’imparzialità e il buon andamento della pubblica amministrazione per l’abuso d’ufficio[2].

A giudizio della Sesta sezione della Suprema Corte, tuttavia, solo il primo indirizzo è meritevole di essere accolto. In effetti, se si ritiene che funzione specifica delle clausole di riserva sia delimitare l’ambito di operatività delle norme che le contengono, sarebbe la stessa esigenza di interpretare gli enunciati linguistici contenuti nelle disposizioni normative attribuendo loro un significato utile, piuttosto che inutile, a dettare una soluzione in questo senso: più nello specifico, afferma la Corte, “la clausola di riserva non può essere intesa come applicabile solo nei rapporti tra reati aventi ad oggetto la tutela del medesimo bene giuridico, perché altrimenti si attribuirebbe alla stessa il significato di un inutile doppione del principio di specialità. Di conseguenza, a fronte di un fatto unico, detta clausola consente, anzi impone, di applicare esclusivamente il trattamento sanzionatorio previsto per la fattispecie più grave, anche se la stessa ha ad oggetto la tutela di un bene giuridico diverso da quello presidiato dalla disposizione assistita da pena meno severa”.

A questo punto, dunque, il problema diviene per la Corte definire in che casi ci si trovi effettivamente di fronte a un unico fatto; e a tal fine, essa specifica, non assume alcun rilievo la diversità strutturale dei reati di cui all’art. 323 c.p. e 479 c.p., e in particolare il fatto che sia diverso l’elemento soggettivo previsto per l’una e l’altra fattispecie: alla luce della giurisprudenza di legittimità, costituzionale e convenzionale formatasi in materia di ne bis in idem, infatti, l’identità del fatto va valutata con riguardo alla sola “corrispondenza storico-naturalistica nella configurazione del reato[3], sicché può essere preso in considerazione ai fini di escludere tale identità solamente un diverso evento materiale (ossia una “modificazione della realtà materiale conseguente all’azione o all’omissione dell’agente”[4]), e non un mero “evento giuridico”, quale un differente contenuto del dolo.

In conclusione, posto che nella vicenda in esame il fatto di abuso d’ufficio si era esaurito nella condotta di attestare falsamente la positiva conclusione delle pratiche di cancellazioni dei protesti, correttamente i giudici dell’appello avevano escluso la punibilità a titolo del reato di cui all’art. 323 c.p., il quale doveva considerarsi assorbito, in virtù della presenza della clausola di riserva, nel più grave delitto di falso.

 

***

 

4. Benché, come già si è detto, la sentenza in esame non appaia particolarmente innovativa, in quanto sostanzialmente si assesta nel solco della giurisprudenza maggioritaria che tende a escludere il concorso formale tra il delitto di abuso d’ufficio e i delitti di falso, le motivazioni adottate dalla Suprema Corte in questa sede ci paiono comunque meritevoli di alcune riflessioni.

I problemi sorti in relazione alla corretta ricostruzione dei rapporti inerenti ai reati di abuso d’ufficio e di falso in atto pubblico derivano principalmente dall’interpretazione attribuita alla clausola di riserva “salvo che il fatto non costituisca un più grave reato” contenuta nell’art. 323 c.p.; in particolare, la questione sollevata dal ricorso del procuratore generale, condivisa da parte della dottrina e dalla giurisprudenza di legittimità minoritaria, riguarda la possibilità di limitare l’applicabilità di tale clausola – a dispetto del dettato normativo – ai soli casi in cui la norma incriminatrice considerata prevalente non solo stabilisca un trattamento sanzionatorio più severo (ossia incrimini un reato più grave), ma sia altresì posta a tutela dei medesimi beni giuridici tutelati dal delitto di abuso d’ufficio: e dunque, si può ritenere, dei beni dell’imparzialità e buon andamento della pubblica amministrazione, declinati il primo quale interesse a che l’attività amministrativa non sia improntata ad atteggiamenti preferenziali o discriminatori, il secondo quale interesse alla legalità della funzione amministrativa nell’ambito della funzione o del servizio svolto[5].

Le ragioni alla base di questo orientamento sono strettamente collegate alla funzione generale che secondo alcuni le clausole di riserva rivestono all’interno del nostro ordinamento penale: e in effetti viene da più parti sostenuto che la presenza in un rilevantissimo numero di norme incriminatrici di clausole che riconoscono e affermano espressamente rapporti di rango tra fattispecie, tali per cui la norma di rango minore, quale norma sussidiaria, cede il passo alla norma ritenuta principale, sia in realtà espressione di un più ampio criterio di sistema del nostro ordinamento, dal quale è possibile dedurre l’esistenza di un principio di portata generale in grado di operare non solo nei casi di sussidiarietà espressa, ma anche laddove tale sussidiarietà sia rimasta tacita[6]. Il che avverrà, nello specifico, ogniqualvolta due norme incriminatrici, cui sia riconducibile il medesimo fatto concreto, individuino due figure di reato di diversa gravità, delle quali una – la norma principale – tuteli, accanto al bene giuridico protetto dall’altra, anche uno o più beni giuridici ulteriori, oppure reprima un’offesa più grave al medesimo bene giuridico.

Perduranti incertezze, tuttavia, riguardano l’applicazione delle clausole di riserva c.d. assolutamente indeterminate o relativamente determinate, ossia quelle clausole che dispongono una subordinazione nei confronti non di specifiche figure di reato, ma di qualunque altra norma incriminatrice, oppure di intere classi di reati. È infatti in tali casi – tra i quali rientra, per l’appunto, anche il delitto di cui all’art. 323 c.p. – che possono sorgere dubbi circa l’individuazione delle norme rispetto a cui opera la riserva: e, in particolare, appare controverso chiarire se ai fini della subordinazione debba essere accertata o meno l’identità (almeno parziale) dei beni giuridici tutelati dalle fattispecie penali in rilievo.

Questo perché, a giudizio di alcuni autori, specialmente in siffatte ipotesi sorgerebbe la necessità di spiegare per quali ragioni, pur in assenza di un rapporto di specialità, la sanzione prevista per la norma sussidiaria non debba essere irrogata: un problema che troverebbe risposta solo in virtù della sostanziale inutilità della reiterazione della tutela quando l’offesa minore (quella contemplata dalla norma sussidiaria) possa ritenersi già sufficientemente compensata dall’applicazione della sola norma prevalente[7]. In conclusione, dunque, qualora si ammettesse che una clausola di riserva indeterminata possa operare anche nei rapporti tra fattispecie penali deputate alla tutela di beni giuridici assolutamente distinti e non interrelati, questo non solo comporterebbe un ostacolo all’affermazione della teoria che vede la sussidiarietà come principio generale dell’ordinamento, ma una simile subordinazione non troverebbe giustificazione neanche alla luce del principio del ne bis in idem sostanziale (che, secondo altra autorevole dottrina, costituisce l’unico principio diverso dalla specialità in grado di regolare il concorso apparente di norme[8]).

 

5. Tali argomentazioni, nondimeno, non potrebbero comunque avallare un’interpretazione contra legem, laddove il dettato normativo sia chiaro ed esplicito nell’escludere il concorso di reati a prescindere dall’identità dei beni giuridici tutelati dalle norme incriminatrici. In questo senso, la clausola di riserva contenuta nell’art. 323 c.p. non sembra lasciare spazio a molti dubbi, posto che espressamente esclude l’applicabilità del delitto di abuso d’ufficio ogniqualvolta “il fatto costituisca un più grave reato”; di conseguenza, sulla base di un’interpretazione squisitamente letterale, accertare che la diversa norma incriminatrice cui può essere ricondotto il medesimo fatto prevede un reato “più grave” dovrebbe ritenersi sufficiente a impedire il concorso con l’abuso d’ufficio, a condizione però che il fatto criminoso sia effettivamente unitario: il che si traduce, con riferimento ai delitti di falso in atto pubblico, nella necessità che la condotta abusiva di cui all’art. 323 c.p. si risolva interamente nella commissione del falso e non si tratti invece di condotte distinte (nel caso in cui accanto alla condotta di falso si riconosca un’ulteriore azione abusiva commessa dal pubblico ufficiale, infatti, tanto la dottrina quanto la giurisprudenza si schierano piuttosto pacificamente in favore del concorso materiale di reati, eventualmente in continuazione tra loro[9]).

Sembra quindi più corretto ritenere che con riferimento al delitto di cui all’art. 323 c.p. il legislatore abbia voluto costituire una fattispecie di per sé sussidiaria e residuale, una sorta di “norma di chiusura” destinata ad applicarsi solo ove la condotta tenuta dal pubblico ufficiale (o incaricato di pubblico servizio) in violazione di norme di legge o regolamento (ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto), mediante la quale questi abbia intenzionalmente procurato a sé ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale o abbia cagionato ad altri un danno ingiusto, non integri nessun’altra più grave figura di reato[10]. Senza contare che in relazione al diverso delitto commesso “con abuso dei poteri, o con violazione dei doveri inerenti a una pubblica funzione o a un pubblico servizio” sarà comunque applicabile – salvo che tale aspetto costituisca già elemento costitutivo della fattispecie – la circostanza aggravante di cui all’art. 61 n. 9, che pertanto appare idonea ad assicurare che la sanzione concretamente irrogata nel caso di specie sia proporzionata rispetto all’offesa arrecata ai beni dell’imparzialità e buon andamento della p.a. e, nello specifico, all’interesse alla legalità dell’azione amministrativa.

Certo, si potrebbe ancora sostenere che, per accertare la “maggiore gravità” della fattispecie principale, non basti un generico confronto tra le sanzioni astrattamente irrogate dal legislatore, in quanto solo fattispecie che tutelino (in tutto o in parte) beni giuridici omogenei potrebbero risultare in radice comparabili; con riferimento ai rapporti tra abuso d’ufficio e delitti di falso in atto pubblico (materiale o ideologico), tuttavia, non sembra neanche condivisibile la posizione espressa nel caso in esame dal procuratore generale in sede di ricorso per cassazione, secondo cui tali reati presenterebbero un’oggettività giuridica completamente distinta.

In effetti, sebbene tali figure criminose siano sicuramente poste a tutela anche della corretta e genuina formazione degli atti pubblici, secondo la maggioranza della dottrina non v’è dubbio che bene giuridico tutelato dai delitti di falso commessi da pubblici ufficiali sia anzitutto il buon andamento della pubblica amministrazione, in relazione in particolare allo specifico procedimento amministrativo in cui il documento falsificato dovrà essere utilizzato[11].

 

6. Pur potendosi in generale condividere, per le ragioni ora esposte, la soluzione abbracciata dalla Suprema Corte nella sentenza in commento, le argomentazioni da essa sostenute ingenerano comunque alcune perplessità.

La Corte di legittimità, invero, costruisce il proprio ragionamento muovendo dall’addotta esigenza di attribuire un significato autonomo alla clausola di riserva contenuta nell’art. 323 c.p. e, a tal fine, di distinguerla dal diverso principio di specialità di cui all’art. 15 c.p.: già il principio di specialità, essa sostiene, richiederebbe di accertare l’identità del bene giuridico tutelato tra le norme incriminatrici in questione; se dunque tale accertamento fosse richiesto anche per verificare l’operatività della clausola di riserva, ci si limiterebbe a replicare il medesimo giudizio già imposto dal canone della specialità, rendendo così la clausola contenuta nell’art. 323 c.p. un “inutile doppione”.

Tale argomento, a nostro modesto parere, ci sembra discutibile in quanto espressivo della tesi, affermatasi nella giurisprudenza di legittimità in tempi risalenti e criticata da buona parte della dottrina, secondo la quale l’art. 15 c.p., facendo riferimento al concetto di “stessa materia”, renderebbe il principio di specialità operativo solo in relazione a fattispecie dotate della medesima oggettività giuridica[12]. A questo orientamento – peraltro smentito dalla stessa Suprema Corte in tempi più recenti[13] – la dottrina ha obiettato che la formula “stessa materia” non evoca affatto l’identità del bene giuridico tutelato, indicando piuttosto l’esigenza che la medesima situazione di fatto sia riconducibile sia alla norma generale, sia alla norma speciale; il rapporto di specialità, conseguentemente, deve essere accertato esclusivamente sulla base di un confronto strutturale tra le fattispecie incriminatrici astratte, mediante la comparazione dei rispettivi elementi costitutivi[14].

Il rischio di sovrapposizione paventato dalla Suprema Corte ci pare dunque, in conclusione, un falso problema.

 

7.  All’esito di questa breve analisi, un dubbio sembra rimanere ancora insoluto: che ne è del principio di sussidiarietà (o, se si preferisce, di assorbimento[15]), alla luce dell’orientamento affermato dalla Cassazione?

La Corte di legittimità, come è noto, appare restia ad attribuire cittadinanza nel nostro ordinamento a criteri regolatori del concorso apparente di norme che non siano espressamente previsti dalla legge. Al di fuori del principio di specialità, tipizzato dall’art. 15 c.p., e dei casi in cui le stesse norme incriminatrici contengano clausole di riserva, la giurisprudenza sembra schierarsi sempre in favore del concorso di reati: come è avvenuto, da ultimo, nella recente sentenza con cui le Sezioni Unite della Corte di cassazione hanno affermato che il reato di malversazione in danno dello Stato (art. 316-bis c.p.) concorre con quello di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche (art. 640-bis c.p.)[16].

Anche nel caso sottoposto al nostro esame, del resto, la Cassazione, lungi dal riconoscere rilevanza autonoma al principio di assorbimento, espressamente lo limita ai soli casi concernenti l’applicabilità di una clausola di riserva, impedendo in questo modo che la sussidiarietà possa ergersi a criterio di sistema.

A nostro giudizio, tuttavia, l’esistenza all’interno del nostro ordinamento di clausole di riserva indeterminate, rispetto alle quali il legislatore stesso sembra aver operato una sorta di presunzione assoluta di subordinazione in favore di un gruppo più o meno ampio di reati, non deve farci deporre nel senso dell’impossibilità di riconoscere un più amplio principio generale fondato sull’idea della progressione della tutela, in virtù del quale riscontrare un concorso apparente di norme tutte le volte che la norma principale tuteli in maniera rafforzata lo stesso bene giuridico già tutelato dalla norma sussidiaria.

A tale conclusione infatti non può ostare, come si è visto, l’affermazione per cui un criterio incentrato sulla ricerca dell’identità del bene giuridico tutelato finirebbe per sovrapporsi inutilmente al già esistente principio di specialità: perché una norma possa dirsi speciale rispetto a un’altra, infatti, ciò che deve essere accertato è se, sulla base di un confronto tra le fattispecie legali astratte, essa contenga tutti gli elementi costitutivi presenti nella norma incriminatrice generale, più almeno un elemento specializzante (per aggiunta o specificazione). Anche laddove manchi un rapporto di specialità, pertanto, può rintracciarsi - a prescindere dalla presenza di clausole di riserva - la necessità di escludere il concorso di reati qualora una delle sanzioni da irrogare possa considerarsi “superflua” in relazione al fine di proteggere gli interessi alla cui tutela essa è concretamente adibita, già adeguatamente salvaguardati dall’applicazione della sola norma incriminatrice principale.

 

 

[1] Cfr. Cass. pen., Sez. II, 11 ottobre 2012 (dep. 2013), n. 1417, Platamone; Cass. pen., Sez. VI, 22 settembre 2009, n. 42577, Fanuli; Cass. pen., Sez. V, 15 novembre 2005, n. 1491, Cavvallari; Cass. pen., Sez. V, 9 novembre 2005, n. 45225, Bernardi; Cass. pen., Sez. VI, 19 maggio 2004, n. 27778, Piccirillo. In questo senso, in dottrina si può rimandare a C. Benussi, Diritto penale della pubblica amministrazione, Padova, 2016, p. 469 ss.; G. Carloni, Sui rapporti tra falso ideologico in atto pubblico e abuso d’ufficio: assorbimento o concorso formale di reati?, in Cass. pen., 2006, p. 82 ss.; M. De Bellis, La violazione di norme di legge o di regolamento di cui all’art. 323 c.p. può consistere nella violazione del precetto di altra norma penale: ancora sulla vexata quaestio dei rapporti tra abuso d’ufficio e falso ideologico in atto pubblico, in Riv. pen., 2006, p. 1220 ss.; M. Romano, I delitti contro la pubblica amministrazione: i delitti dei pubblici ufficiali, Art. 314-335-bis cod. pen., Commentario sistematico, III ed., Milano, 2013, p. 321.

[2] Così ad es. Cass. pen., Sez. II, 11 dicembre 2013 (dep. 2014), n. 5546, Cuppari; Cass. pen., Sez. V, 1 febbraio 2000, n. 3349, Palmegiani; Cass. pen., Sez. V, 5 maggio 1999, n. 7581, Graci.

[3] Così Corte cost., 31 maggio 2016 (dep. 21 luglio 2016), n. 200, § 8 (diritto).

[4] Corte cost., cit., ibidem.

[5] In questo senso cfr. C. Benussi, Diritto penale della pubblica amministrazione, cit., p. 417.

[6] In questo senso cfr. per tutti G. Marinucci - E. Dolcini, Manuale di diritto penale, V ed., Milano, 2015, p. 491 ss.; G. Fiandaca - E. Musco, Diritto penale. Parte generale, VII ed., Bologna, 2014, p. 721 ss.

[7] Così G. Contento, Corso di diritto penale, vol. II, Roma, 2004, p. 427.

[8] V. F. Mantovani, Diritto penale. parte generale, IX ed., Padova, 2015, p. 468 ss.

[9] Cfr. Cass. pen., Sez. V, sentenza del 15 novembre 2005 (dep. 16 gennaio 2006), n. 1491, Cavallari; nello stesso senso si veda anche C. Benussi, Diritto penale della pubblica amministrazione, cit., p. 473 ss.

[10] A tal rilievo detta clausola consisterebbe, secondo alcuni autori, in una clausola di consunzione, più che di sussidiarietà: cfr. ad esempio C. Benussi, Diritto penale della pubblica amministrazione, cit., p. 470.

[11] Cfr. R. Bartoli, Le falsità documentali, in M. Pelissero - R. Bartoli (a cura di), Reati contro la fede pubblica, Torino, 2011, p. 193, p. 246.

[12] Tesi espressa anche dalle Sezioni Unite nella sentenza del 29 ottobre 1997 (dep. 8 gennaio 1998), in Cass. pen., 1998, p. 1331 ss; prima ancora, Cass. pen., Sez. Un., sentenza del 21 aprile 1995, n. 9568, La Spina.

[13] Così Cass. pen., Sez. Un., sentenza del 28 ottobre 2010, n. 1235, Giordano; Cass. pen., Sez. Un., sentenza del 28 ottobre 2010, n. 1963, Di Lorenzo; Cass. pen., Sez. Un., sentenza del 19 aprile 2007, n. 16568, Carchivi; Cass. pen., Sez. Un., sentenza del 20 dicembre 2005, n. 47164, Marino.

[14] Cfr. G. Marinucci - E. Dolcini, Manuale di diritto penale, V ed., Milano, 2015, p. 490, i quali sottolineano come interpretare il principio di specialità richiedendo l’identità dei beni giuridici tutelati avrebbe l’insopportabile effetto di sottoporre al concorso formale di reati fattispecie caratterizzate da oggettività giuridiche diverse, ma in evidente rapporto di specialità, quali i reati di oltraggio (a pubblico ufficiale o a magistrato in udienza) e ingiuria (ormai depenalizzato in illecito civile).

[15] La dottrina è solita distinguere tra principi di specialità, sussidiarietà e assorbimento/consunzione, ma tale distinzione non è pacificamente accolta da tutti gli autori, né dalla giurisprudenza, sicché spesso i confini di sussidiarietà/assorbimento/consunzione appaiono poco netti.

[16] Il riferimento è a Cass., SSUU, sent. 23 febbraio 2017 (dep. 28 aprile 2017), n. 20664, Pres. Canzio, Rel. Petruzzellis, ricc. Stalla e Battilana, già commentata su questa Rivista da S. Finocchiaro, Il buio oltre la specialità. Le Sezioni Unite sul concorso tra truffa aggravata e malversazione, in questa Rivista, 8 maggio 2017; in attesa della sentenza, la questione era già stata oggetto di osservazioni da parte di S. Finocchiaro, Concorso di reati o concorso apparente di norme? Alle Sezioni Unite la vexata quaestio del rapporto tra truffa e malversazione, in questa Rivista, 5 dicembre 2016.