19 luglio 2018 |
Ulteriormente ridotta la tipicità del delitto di violazione degli obblighi inerenti alla misura di prevenzione: per la Cassazione anche il divieto di partecipare a pubbliche riunioni contrasta con il principio di determinatezza
Cass., Sez. I, sent. 9 aprile 2018 (dep. 10 luglio 2018), n. 31322, Pres. Mazzei, Est. Barone
Contributo pubblicato nel Fascicolo 7-8/2018
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1. Lo sciame sismico innescato dalle ‘destabilizzanti’ enunciazioni garantiste contenute nella nota sentenza della Grande Chambre della Corte EDU, De Tommaso c. Italia, del 23 febbraio 2017[1] continua ad attraversare la dorsale penalistica della disciplina delle misure di prevenzione[2], provocando scosse telluriche capaci di sgretolare i resistenti orientamenti giurisprudenziali invalsi nel diritto nazionale in spregio ai principi fondamentali del diritto penale e alle penetranti critiche provenienti da larga parte della dottrina[3].
La Corte di Cassazione, a distanza di pochi mesi, torna, infatti, nuovamente a pronunciarsi sulla principale fattispecie incriminatrice del c.d. codice antimafia connessa alle misure di prevenzione: l’art. 75 d.lgs. n. 159/2011.
Ancora una volta nel mirino dei giudici di legittimità finisce il delitto di violazione degli obblighi inerenti alla sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno di cui al combinato disposto degli artt. 75 comma 2 e 8, comma 4 del d.lgs. n. 159/2011.
A differenza del recente passato, però, questa volta il bersaglio non è più costituito dalle ipotesi di violazione delle generiche prescrizioni di “vivere onestamente” e di “rispettare le leggi”, già censurate dalla Corte EDU nella citata sentenza De Tommaso e, successivamente, dalla Corte di Cassazione con la sentenza Paternò delle Sezioni unite[4] e la contrastante ordinanza Sorresso della Seconda Sezione[5], bensì dall’altra sotto-fattispecie delittuosa del divieto di partecipare a pubbliche riunioni che chiude l’elencazione degli obblighi di cui all’art. 8, comma 4[6].
Secondo l’avviso della S.C. anche l’inosservanza di questa prescrizione da parte del soggetto sottoposto alla misura della sorveglianza speciale con obbligo o divieto di soggiorno non integra il reato di violazione degli obblighi inerenti alla sorveglianza speciale e la sentenza impugnata va, quindi, annullata senza rinvio perché il fatto non sussiste.
2. Come si vedrà, la Corte con questa decisione non si limita a prendere una consapevole e netta posizione su un dato critico abbastanza evidente quale l’indeterminatezza del precetto primario del delitto in questione anche in relazione alla prescrizione del divieto di partecipare a pubbliche riunioni; ma va inconsapevolmente (?) a rinfocolare il contrasto interpretativo sorto in giurisprudenza nell’immediato dopo-De Tommaso relativamente non all’an della sussistenza del conflitto tra il principio di precisione e determinatezza delle norme penali e questo obbligo descrittivo per relationem di una ‘frazione’ del fatto tipico del delitto di cui al’art. 75, co. 2, bensì al quomodo della sua risoluzione.
Se non sussistono (finalmente) dubbi sulla necessità di allineare talune disposizioni contenute nel codice antimafia relative alle misure praeter delictum al principio di legalità penale sub specie precisione e determinatezza, molti ve ne sono in ordine allo strumento giuridico da utilizzare per procedere as un simile operazione: da un lato, le Sezioni unite Paternò hanno risolto ex se il problema tramite lo strumento dell’interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente conforme; dall’altro, la Seconda Sezione della S.C. ha optato per la rimessione della questione alla Consulta, deducendo il contrasto tra l’art. 75 d.lgs. n. 159/2011 e gli artt. 25, comma 2 e 117 Cost., quest’ultimo in relazione al parametro interposto dell’art. 7 CEDU e dell’art. 2 prot. 4 CEDU[7].
3. Il fatto da cui origina la questione è molto semplice: l’imputato era stato condannato prima dal G.u.p. presso il Tribunale di Matera e poi dalla Corte di Appello di Potenza per il delitto previsto dall’art. 75, comma 2, d. lgs. n. 159/2011 perché, recandosi ad assistere presso lo stadio comunale del proprio luogo di residenza ad un incontro di calcio tra due squadre locali, aveva contravvenuto al divieto di partecipare a pubbliche riunioni, contenuto nella misura sorveglianza speciale cui era sottoposto.
Avverso questa decisione era stato proposto ricorso per Cassazione eccependo l’errata applicazione della legge penale atteso che la manifestazione sportiva cui aveva partecipato, per la “natura meramente occasionale ed estemporanea”, esulava dalla nozione di “pubblica riunione” connotata dal carattere dell’abitualità.
4. La Corte nella decisione in esame ha accolto il ricorso ritenendolo fondato, dal momento che la pronuncia del giudice del gravame (così come quella del giudice di prime cure) era basata sul precedente e granitico orientamento che reputava la nozione di “pubblica riunione” – nonostante la sua natura polisemica – potenzialmente circoscritta, “tenendo conto della ratio della fattispecie in esame, volta a sanzionare l’inottemperanza da parte del sottoposto al divieto di partecipare a eventi pubblici in cui è più difficile il controllo dei presenti e più agevole la commissione di reati”. Sulla scorta di questa interpretazione, infatti, era pacifica in passato la sussunzione nella nozione contestata della “disputa calcistica che si tiene in uno stadio, trattandosi di una situazione in cui può intervenire un numero elevato e indeterminato di persone, a prescindere da quanti spettatori risultino, ex post, avervi effettivamente partecipato”.
5. Le cose nelle more del giudizio sono, invece, profondamente cambiate in seguito alla citata sentenza De Tommaso in cui la Corte EDU – con una decisione reputata alla stregua dei parametri individuati dalla sentenza della Corte costituzionale n. 49/2015 consolidata e vincolante –, dopo aver ribadito che nella legalità convenzionale sancita nell’art. 7 CEDU rientrano indefettibilmente anche i predicati della prevedibilità e della accessibilità delle previsioni sanzionatorie limitative di diritti fondamentali della persona[8], ha affermato che non solo gli obblighi dell’honeste vivere e del rispettare le leggi contenuti nell’art. 75, comma 2, d.lgs. n. 159/2011 risultano descritti in modo non sufficientemente dettagliato dal legislatore italiano, ma anche quello del divieto di partecipare a pubbliche riunioni su cui non verteva direttamente il suo giudizio. A tale proposito, secondo la Corte EDU, la legge non specifica alcun limite temporale o spaziale della libertà fondamentale di associazione costituzionalmente riconosciuta dall’art. 18 Cost., rimettendo altresì la sua individuazione alla discrezionalità pressoché illimitata del giudice e frustrando così il principio di prevedibilità e accessibilità delle norme incriminatrici.
Sull’onda di questo arresto della Grande Chambre, come si è anticipato, le Sezioni unite con la sentenza Paternò hanno immediatamente provveduto a reinterpretare in chiave costituzionalmente e convenzionalmente conforme il delitto di cui all’art. 75, comma 2, d.lgs. n. 159/2011, ridisegnandone in bonam partem il perimetro operativo tramite l’estromissione/abrogazione in via ermeneutica delle ipotesi dell’inosservanza delle prescrizioni generiche del vivere onestamente e del rispettare le leggi da parte del sottoposto a sorveglianza speciale con obbligo o divieto di soggiorno[9].
Ponendosi dichiaratamente nel solco di questi due autorevoli arresti giurisprudenziali della Corte di Strasburgo e delle Sezioni unite, la Corte di Cassazione nella decisione in epigrafe è così approdata ad un’analoga conclusione restrittiva del penalmente rilevante anche in ordine all’ulteriore ipotesi del divieto di partecipare a pubbliche riunioni contemplata sempre per relationem nell’art. 75, comma 2 d.lgs. n. 159/2011.
Anzi, facendosi schermo della omologa pronunzia del massimo organo nomofilattico nella più autorevole delle sue composizioni relativa alle altre classi di prescrizioni generiche in precedenza richiamate, la S.C. in questa circostanza si è limitata a ragionare per analogia secondo uno schema logico-deduttivo che, ricalcando gli snodi argomentativi di Paternò, ha finito con il riproporre una “rilettura tassativizzante e tipizzante della fattispecie, tale da rendere coerenza costituzionale e convenzionale alla norma incriminatrice” anche sotto questo specifico versante delle pubbliche riunioni[10].
Così, dopo aver segnalato come non sia rintracciabile nell’ordinamento italiano una definizione legislativa univoca di “pubblica riunione”, esistendone una pluralità non sovrapponibile (a titolo esemplificativo si richiamano in sentenza: quelle di cui all’art. 266, comma 3 n. 3 c.p.; all’art. 18 comma 2 T.U.L.P.S.; ed all’art. 4, comma 4 legge 18 aprile 1975, n. 110); né una giurisprudenziale, dal momento che il riferimento fatto dal ‘diritto vivente’ alla possibilità di intervento di un numero elevato e indeterminato di persone, tale da rendere più difficile il controllo dei presenti ed agevolare la commissione di reati, non consente di restringerne in modo ragionevole il campo di significato, la Corte perviene alla conclusione che il precetto penale in questione si atteggi anche sotto questo profilo in termini del tutto incerti ed imprecisi.
A suo avviso la genericità della littera legis è tale da demandare “di fatto alla discrezionalità del giudice il compito di colmare il vuoto di determinatezza della norma e in particolare di un elemento costitutivo del reato quale è la ‘pubblica riunione’, da definire, volta per volta, attraverso la coniugazione del dato fattuale con la ratio fondante la fattispecie criminosa”, senza alcuna previa specificazione in merito all’ambito temporale o spaziale del relativo divieto.
Ciò impedisce alla disposizione incriminatrice in parola di orientare ex ante il comportamento dei consociati in modo univoco, attraverso una nitida e previa demarcazione dell’area del penalmente rilevante; e di vincolare ex post il giudice a sussumere all’interno della medesima fattispecie delittuosa condotte dotate di disvalore omogeneo, evitando di accomunare tra loro condotte partecipative ad eventi o situazioni profondamente eterogenei e non sempre in linea con la ratio giustificatrice del divieto di assistervi.
6. Al termine di questa articolata, ma come si vedrà parziale, ricostruzione delle nuove coordinate ermeneutiche da seguire nell’interpretazione dell’art. 75 comma 2, d.lgs. n. 159/2011, in combinato disposto con l’art. 8 comma 4 del medesimo codice antimafia, l’unica alternativa praticabile per la Corte è allora quella di muoversi in sintonia con l’arresto delle citate Sezioni Unite Paternò e di procedere ad un’esegesi costituzionalmente orientata della fattispecie in esame in forza della quale l’inosservanza del divieto di partecipare a pubbliche riunioni da parte del soggetto sottoposto alla misura della sorveglianza speciale con obbligo o divieto di soggiorno (così come quello di rispettare le leggi e vivere onestamente), non integra il reato previsto dall’art. 75, comma 2, d.lgs. n. 159 del 2011.
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7. Da quanto sinora detto, la decisione in commento si presenta prima facie come un altro importante passo nel lungo percorso di curvatura e adeguamento della disciplina delle misure di prevenzione alla legalità penale, contribuendo a rimarcare la recente tendenza emersa in giurisprudenza a richiedere l’ossequio del principio di determinatezza per le fattispecie incriminatrici incentrate sulla violazione delle prescrizioni impartite al soggetto sottoposto a misure di prevenzione personali.
Senonché, a ben vedere, desta più d’una perplessità per il ‘mezzo’ prescelto per perseguire questo condivisibile obiettivo.
Come si è anticipato in precedenza, infatti, la Suprema Corte non ha trovato nel recente passato un’identità di vedute circa i rimedi da esperire contro il vulnus inflitto al principio di determinatezza dalla genericità del precetto primario dell’art. 75 d.lgs. n. 159/2011, da un lato brandendo in talune occasioni l’arma dell’interpretazione convenzionalmente e costituzionalmente conforme, dall’altro, in altre circostanze, quella della questione di legittimità costituzionale, ritenendo la prima sicuramente più agevole ed immediata, ma allo stesso tempo meno garantista sia per il passato che pro futuro.
In particolare, la soluzione giurisprudenziale ed irrituale della ‘abrogazione in via interpretativa’ di un segmento della disposizione incriminatrice condivisa dalla sentenza in commento, anche se realizzata come in questo caso sulla scorta di una precedente decisione delle Sezioni unite, non ha mai il medesimo grado di efficacia, stabilità e vincolatività di una declaratoria di illegittimità costituzionale promanante dalla Consulta[11].
Per i fatti pregressi non consente di travolgere il giudicato, dal momento che questa prerogativa è espressamente riconosciuta dall’ordinamento unicamente ai mutamenti legislativi ed alle sentenze della Corte costituzionale in quanto soli provvedimenti giuridici dotati di efficacia erga omnes. Gli effetti di un simile overruling giurisprudenziale favorevole non potrebbero, quindi, spiegarsi nei confronti di soggetti condannati in via definitiva per il medesimo delitto ritenuto indeterminato dalle Sezioni unite e, quindi, non più sussistente, salvo provare in via residuale a proporre una questione incidentale in fase esecutiva circa l’impossibilità di eseguire una pena divenuta irragionevole perché relativa ad un fatto non più considerato reato[12].
Per quelli futuri non è in grado di orientare con sicurezza i consociati, dal momento che nulla impedisce che, trattandosi di un mero indirizzo interpretativo, possa essere successivamente smentito e confutato dalla giurisprudenza in un secondo momento, facendo così sorgere dubbi tutt’altro che di agevole soluzione sulla possibile non punibilità dei soggetti che abbiano eventualmente commesso il fatto quando era ritenuto atipico ma siano giudicati con (o dopo) il nuovo revirement.
Simili limiti della soluzione ermeneutica condivisa dalla Corte in questa decisione sono solo attuti, ma non definitivamente appianati, dalla recente modifica nel frattempo intervenuta dell’art. 618 co. 1 bis c.p.p. con la riforma Orlando del 2017[13] che ha introdotto un obbligo per la Sezione semplice della Corte che intenda discostarsi dal precedente arresto delle Sezioni unite di rimessione della questione al massimo organo nomofilattico.
Tale novità, pur contribuendo, seppure implicitamente, a stabilizzare il diritto giurisprudenziale proveniente dalle S.U. e a rafforzarne l’efficacia erga omnes non riesce ad equipararlo in tutto e per tutto al diritto di origine legislativa.
Questa modifica legislativa, invero, riduce lo iato tra la law in the book e la law in action esistente nel nostro sistema penale, ma non riesce ad eliminare del tutto la differente ‘essenza’ del diritto giurisprudenziale di provvedimento individuale e concreto sempre modificabile in un secondo momento, senza il bisogno di un vaglio democratico e ponderato di tutte le forze politiche, ma con un overruling interpretativo anche se reso più complesso dal procedimento ‘rafforzato’ descritto dal rinnovato art. 618, comma 1 bis c.p.p.
8. L’unica alternativa in grado di coprire anche tali situazioni amplificando la portata garantista della medesima valutazione è costituita da una sentenza della Corte costituzionale, dal momento che una declaratoria di illegittimità costituzionale della fattispecie incriminatrice per violazione del principio di determinatezza produce, come detto, effetti erga omnes, con proiezione anche nel passato e nel futuro. Relativamente alle sentenze di accoglimento della Corte, infatti, la regola generale è quella enunciata nell’art. 136 Cost. in base alla quale “la norma cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione” e ribadita più dettagliatamente dall’art. 30, l. 87/1953 precisando che “quando in applicazione della norma dichiarata incostituzionale è stata pronunciata sentenza irrevocabile di condanna, ne cessano l’esecuzione e tutti gli effetti penali”.
In una simile eventualità, infatti, beneficerebbero della non punibilità anche i soggetti che siano già stati condannati in via definitiva per il reato successivamente dichiarato illegittimo costituzionalmente, così come sicuramente non sarebbero punibili tutti coloro i quali terranno il medesimo comportamento in futuro, sin quando non dovesse intervenire una nuova modifica legislativa volta a reintrodurre per i soli nuovi fatti il delitto in precedenza dichiarato illegittimo.
9. La sentenza in questione, allora, dietro un indiscusso pregio, cela un grande limite: la totale indifferenza nei confronti di questo diverso orientamento interpretativo prospettato dalla Seconda Sezione della Corte di Cassazione in contrapposizione alle Sezioni unite e una inspiegabile noncuranza nei confronti della oramai imminente decisione della Corte costituzionale.
Re melius perpensa, infatti – non si sa se per disattenzione o per scelta adesiva ed incondizionata al dictum delle S.U. –, risulta decisamente ‘parziale’ e non attenta alle tensioni che sincronicamente stanno attraversando il diritto vivente sul punto, omettendo del tutto di dare conto della discrasia ermeneutica relativa ai metodi con cui risolvere il problema oramai innegabile dell’indeterminatezza della fattispecie di cui all’art. 75 comma 2 d.lgs. n. 159/2011 e, conseguentemente, di motivare le ragioni della sua adesione all’alternativa interpretativa delle Sezioni unite e della mancata attesa della pronuncia della Consulta.
Nei fatti, una Corte avveduta, per evitare a monte l’adozione di una decisione potenzialmente criticabile, si sarebbe potuta limitare a fissare la data della decisione relativa al divieto di partecipare a pubbliche riunioni in un punctum temporis successivo alla data prevista per la decisione della Corte costituzionale sull’analoga questione di legittimità dell’art. 75 co. 2 d.lgs. n. 159/2011 relativa all’honeste vivere e al rispettare le leggi, similmente a quanto ha fatto di recente, mutatis mutandis, durante la lunga saga Taricco, salvo qualche eccezione. Così facendo, avrebbe avuto la agevole e non censurabile possibilità di adeguare il proprio decisum a quello del giudice delle leggi, senza operare decisioni azzardate.
In teoria, senza voler ricorrere a questo escamotage empirico, avrebbe più opportunamente dovuto investire la Consulta di analoga questione di legittimità costituzionale relativamente al contrasto dell’art. 75 comma 2 d.lgs. n. 159/2011 e gli artt. 25, comma 2 e 117 Cost. con riferimento all’art. 7 CEDU e all’art. 2 Protocollo 4 CEDU nella parte in cui incrimina la violazione della prescrizione generica del partecipare a pubbliche riunioni.
10. Oggi, peraltro, in casi come quello affrontato dalla Corte di Cassazione in tale circostanza, l’alternativa della questione di legittimità costituzionale appare ancor più chiaramente la migliore in assoluto, non essendo più ipotecata dai timori che magari, in passato, potevano inconsciamente indurre la giurisprudenza ad evitare di sollevarla, tenendo conto della tendenziale chiusura manifestata dalla Consulta, anche in tempi recenti, ad accogliere questioni di legittimità incentrate sulla violazione della legalità penale sub specie determinatezza, sia nella stessa materia delle misure di prevenzione nella già citata e criticatissima sentenza n. 282/2011, sia in altri settori del diritto penale come, ad esempio, nella decisione n. 172/2014 relativa al delitto di atti persecutori di cui all’art. 612 bis c.p.
Per lungo tempo la Corte costituzionale, facendo leva sulla possibilità di rinvenire nella disposizione censurata un’interpretazione costituzionalmente conforme[14], ha, nella sostanza, degradato il principio di precisione e determinatezza dal rango nobile dei principi rivolti al legislatore ed inerenti alla redazione delle norme incriminatrici generali ed astratte, a quello di mero criterio ermeneutico affidato al giudice del caso concreto per la interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente conforme delle stesse[15], andando così a declinare una doppia dimensione del principio di determinatezza alla stessa stregua di quanto è stato fatto per il principio di offensività, oggi pacificamente inteso in un’accezione astratta quale canone di politica criminale ed in un’accezione concreta quale criterio ermeneutico e di quanto si sta prospettando anche con il principio di colpevolezza secondo la nota sentenza delle Sezioni unite Ronci del 2009.
La recentissima pronunzia della Corte costituzionale n. 115/2018 sulla vicenda Taricco[16] – seppure relativa a questioni specifiche completamente differenti – pare, invero, aver restituito autonoma dignità al principio di determinatezza[17], riconoscendolo quale articolazione garantistica nevralgica della legalità penale e quale principio dimostrativo giustiziabile dalla Corte ogni qualvolta sussistano disposizioni incriminatrici manifestamente generiche. In quella occasione, infatti, la Consulta ha dichiarato non applicabile nel diritto interno né la “regola Taricco in sé”, né l’art. 325, paragrafi 1 e 2, TFUE per il loro radicale ed irrimediabile “deficit di determinatezza”.
Questa riaffermazione della inderogabilità del principio e della sua appartenenza al nucleo duro ed indeformabile della legalità penale operata dalla Consulta, pur essendo scaturita, probabilmente, da contingenti ragioni ‘politiche’ relative al dialogo tra le Corti, non può non condizionare, almeno parzialmente, anche il suo operato futuro in casi ‘facili’.
Breve: in questo mutato contesto di riferimento, si può presumibilmente confidare sull’esito positivo delle questioni di legittimità costituzionale attualmente pendenti sulle norme incriminatrici indeterminate in materia di misure di prevenzione.
Difficilmente la Corte, sulla base di questo recente principio di diritto di portata generale, potrebbe invertire bruscamente la rotta e rimettere immediatamente in discussione la lettura ‘massimalista’ del principio di determinatezza appena propugnata. Soprattutto rispetto ad una questione che, altrimenti, in una simile eventualità rischierebbe di essere risolta ugualmente dai giudici comuni come dimostrano taluni recenti arresti giurisprudenziali, innescando così un conflitto interno tra giudice delle leggi e giudici ordinari che metterebbe in seria discussione il controllo accentrato di legittimità costituzionale che, sino a prova contraria, caratterizza ancora il nostro ordinamento[18].
Sembrano, quindi, finalmente maturi i tempi per un revirement anche della Consulta in ordine ai dubbi di legittimità costituzionale riguardanti il delitto di cui all’art. 75 d.lgs. n. 159/2011 e per una definitiva estensione della vis garantista dei principi penalistici in un campo di materia storicamente refrattario alla loro penetrazione come quello delle misure di prevenzione.
[1] Corte Edu, Grande Camera, sent. 23 febbraio 2017, de Tommaso c. Italia, in questa Rivista, 3 marzo 2017, con nota di F. Viganò, La Corte di Strasburgo assesta un duro colpo alla disciplina italiana delle misure di prevenzione personali (fasc. 3/2017, p. 370 ss.). Sul punto cfr. anche gli altri contributi che appaiono nella colonna a sinistra del presente documento.
[2] I suoi effetti ‘a cascata’ sono ricostruiti anche dalla relazione tematica n. 15/2018 dell’Ufficio del massimario della Corte di Cassazione a cura di D. Tripiccione, Le misure di prevenzione personali: verso un’interpretazione convenzionalmente e costituzionalmente conforme alla luce dei più recenti arresti della giurisprudenza nazionale ed europea.
[3] Per una ricognizione dei molteplici profili di difficile compatibilità costituzionale della disciplina delle misure di prevenzione si rinvia ex multis agli Atti del V Convegno nazionale dell’Associazione Italiana dei Professori di Diritto Penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2017, 439 ss.; nonché a V. Maiello, Le singole misure di prevenzione personali e patrimoniali, in Id. (a cura di), La legislazione penale in materia di criminalità organizzata, misure di prevenzione e armi, in Trattato teorico-pratico di diritto penale, diretto da F. Palazzo-C.E. Paliero, vol. XII, Torino, 2015, 323 ss.
[4] Cass., Sez. Un. Pen., sent. 27 aprile 2017 (dep. 5 settembre 2017), n. 40076, Pres. Canzio, Rel. Fidelbo, Ric. Paternò, in questa Rivista, 13 settembre 2017, con nota di F. Viganò, Le Sezioni unite ridisegnano i confini del delitto di violazione delle prescrizioni inerenti alla misura di prevenzione alla luce della sentenza De Tommaso: un rimarchevole esempio di interpretazione conforme alla CEDU di una fattispecie di reato (fasc. 9/2017, p. 146 ss.).
[5] Cass. pen., Seconda sez., ord. 11 ottobre 2017 (dep. 26 ottobre 2017), n. 49194, Pres. De Crescienzo, Est. Recchione, Imp. Sorresso, in questa Rivista, 17 ottobre 2017, con nota di F. Viganò, Ancora sull’indeterminatezza delle prescrizioni inerenti alle misure di prevenzione: la Seconda sezione della Cassazione chiama in causa la Corte costituzionale (fasc. 10/2017, p. 272 ss.). Per un commento critico ad entrambe le decisioni, Paternò e Sorresso, si veda V. Maiello, La violazione degli obblighi di “vivere onestamente” e “rispettare le leggi” tra abolitio giurisprudenziale e giustizia costituzionale: la vicenda Paternò, in Dir. pen. proc., 2018, 777 ss.
[6] Sulla fattispecie di cui all’art. 75, comma 2 d.lgs. n. 159/2011 cfr. M. Fattore, Violazione degli obblighi inerenti alla sorveglianza speciale, in La legislazione penale in materia di criminalità organizzata, misure di prevenzione ed armi, a cura di V. Maiello, cit., 423 ss.
[7] Per una disamina comparata di entrambe le alternative prospettate dalla giurisprudenza si rinvia a V. Maiello, La violazione degli obblighi di “vivere onestamente” e “rispettare le leggi”, cit., 780 ss.
[8] Sul punto si rinvia a F. Viganò, Il principio di prevedibilità della decisione giudiziale, in La crisi della legalità nel “sistema vivente” delle fonti penali, Napoli, 2016, 237 ss.
[9] Sugli effetti che possono scaturire dalla due pronunce della Corte EDU e delle Sezioni unite si veda F. Basile, Quale futuro per le misure di prevenzione dopo le sentenze De Tommaso e Paterno?, in Giur. it., 2018, 452 ss.; V. Manes, Dalla “fattispecie” al “precedente”: appunti di “deontologia ermeneutica”, in questa Rivista, 17 gennaio 2018.
[10] La locuzione “interpretazione tassitivizzante e tipizzante” impiegata dalla Corte è, difatti, la medesima utilizzata dalle Sezioni unite nella sentenza Paternò.
[11] Parla di abolitio giurisprudenziale V. Maiello, La violazione degli obblighi di “vivere onestamente” e “rispettare le leggi”, cit., 781, il quale osserva come “l’arresto in esame, invero, non prospetta una mera rideterminazione semantica dell’enunciato normativo, del tipo di quella che ne promuove la rimodulazione di senso indotta da una rinnovata, e più evoluta, visione della realtà evocata dai segni linguistici. Piuttosto, esso implementa una diversa pratica interpretativa che, nel ‘sottrarre’ parte del materiale lessicale della disposizione, produce - de facto ma non de iure, nella law in action e non in quella in the books - un’abolitio criminis parziale, riguardante le violazioni del “vivere onestamente” e del “rispettare le leggi. Questa manovra esorbita dai limiti fisiologici dell’attività ermeneutica e si addentra nel campo di azione riservato al potere istituzionale legittimato a giustiziare le antinomie prodotte dalla divaricazione tra vigore e validità che, nel modello italiano di Stato costituzionale, appartiene alla competenza esclusiva del giudice delle leggi”. Sul punto cfr. anche V. Manes, Dalla “fattispecie” al “precedente”: appunti di “deontologia ermeneutica”, cit., 1 ss.
[12] Cfr. sul punto F. Viganò, op. ult. cit.
[13] Sui possibili effetti di questa riforma relativa al valore del diritto giurisprudenziale all’interno del diritto penale sia consentito rinviare al nostro Dalla legolatria alla post-legalità: eclissi o rinnovamento di un principio?, in Riv. it. dir. proc. pen., 2018, in corso di pubblicazione.
[14] In argomento, si rinvia a M. Luciani, Interpretazione conforme a Costituzione, in Enc. dir., Annali 2016, Milano, 2016, 120 ss.
[15] Una incisiva ricostruzione della tendenza invalsa nella giurisprudenza di legittimità e costituzionale a degradare il principio di determinatezza è operata M. Donini, Lettura critica di Corte costituzionale n. 115/2018, in questa Rivista, 11 luglio 2018, 20 ss.
[16] Per un primo commento alla tanto attesa decisione della Corte costituzionale si veda C. Cupelli, La Corte costituzionale chiude il caso Taricco e apre a un diritto penale europeo ‘certo’, in questa Rivista, 4 giugno 2018.
[17] Sulla centralità di questo principio nel diritto penale si rinvia a S. Moccia, La ‘promessa non mantenuta’. Ruolo e prospettive del principio di determinatezza/tassatività nel sistema penale italiano, Napoli, 2001; F. Palazzo, Il principio di determinatezza nel diritto penale, Padova, 1979; Id., Legalità e determinatezza della legge penale: significato linguistico, interpretazione e conoscibilità della regula iuris, in G. Vassalli (a cura di), Diritto penale e giurisprudenza costituzionale, Napoli, 2006, 49 ss.; G. Fiandaca, Sulla giurisprudenza costituzionale in materia penale, tra principi e democrazia, in Cass. pen., 2017, 19.
[18] Manifesta dubbi sulla tenuta della lettura ‘massimalista’ del principio operata dalla C. cost. n. 115/2018, M. Donini nel lavoro in precedenza citato.