ISSN 2039-1676


19 maggio 2011 |

La Corte costituzionale individua lo strumento per dare attuazione alle sentenze della Corte europea: un nuovo caso di revisione per vizi processuali

Osservazioni in margine a C. cost. 113/2011, Pres. De Siervo, Rel. Frigo

SOMMARIO
 
 
 
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1.  La latitanza del legislatore e l'opera di supplenza della giurisprudenza.
 
Continua l'opera di supplenza della giurisprudenza di fronte alla perdurante inerzia del legislatore in tema di esecuzione delle sentenze della Corte europea dei diritti dell'uomo. Dopo la Corte di cassazione, ora anche la Corte costituzionale, con la sentenza in commento, è stata costretta ad individuare, all'interno dell'ordinamento, lo strumento più idoneo per dare esecuzione alle pronunce della Corte di Strasburgo che accertano la violazione delle regole dell'equo processo.
 
D'altra parte, la necessità di un intervento legislativo sul punto era già stata espressa a chiare lettere dalla stessa Corte costituzionale. Con la sentenza 24 aprile 2008 n. 129 del 2008, i giudici delle leggi, pur ritenendo infondata la questione di costituzionalità dell'art. 630, comma 1, lett. a c.p.p. sollevata dalla Corte di appello di Bologna proprio nel caso cd. Dorigo, avevano affermato, infatti, «l'evidente, improrogabile necessità che l'ordinamento predisponga adeguate misure atte a riparare, sul piano processuale, le conseguenze scaturite dalle violazioni ai principi della Convenzione in tema di "processo equo", accertate da sentenze della Corte europea dei diritti dell'uomo». Evitando una pur possibile dichiarazione di inammissibilità basata sulla considerazione che «il relativo meccanismo non potrebbe che essere rimesso alla discrezionalità del legislatore ordinario», la Corte costituzionale si era, così, ritagliata spazio per un successivo intervento e, soprattutto, aveva accordato del tempo al legislatore per rispondere al «pressante invito ad adottare i provvedimenti ritenuti più idonei, per consentire all'ordinamento di adeguarsi alle sentenze della Corte europea dei diritti dell'uomo che abbiano riscontrato, nei processi penali, violazioni ai principi sanciti dall'art. 6 della Cedu»[1]. Pur a distanza di tempo, tuttavia, tale esortazione non ha avuto seguito e la Corte costituzionale, posta nuovamente di fronte a «un vulnus non sanabile in via interpretativa», è stata costretta a porvi rimedio.
 
Il legislatore italiano è rimasto, quindi, il solo a non voler adempiere all'obbligo assunto con l'art. 46 Conv. eur., secondo il quale gli Stati membri devono «conformarsi alle sentenze definitive della Corte sulle controversie nelle quali sono parti». L'unico, all'interno del nostro ordinamento, ad ignorare quanto più volte evidenziato nelle sentenze della Corte europea: come in alcune circostanze occorra consentire alla vittima di ritrovarsi nella situazione antecedente all'acclarata violazione della Convenzione (cd. restitutio in integrum) e come, in casi particolari, non possano che essere il riesame o la riapertura di un procedimento siano il mezzo più efficace (e a volte il solo) per raggiungere tale scopo[2].
 
Un'inerzia colpevole, quella dimostrata dal nostro legislatore in tutti questi anni, anche in considerazione dei continui richiami provenienti dal Comitato dei Ministri. E' sufficiente ricordare la Raccomandazione (2000) 2[3] con la quale si invitano gli Stati contraenti ad introdurre nel proprio ordinamento interno la possibilità, per la vittima di una violazione dei diritti tutelati dalla Convenzione, di ottenere il «riesame o la riapertura»[4] del caso in seguito alla sentenza della Corte di Strasburgo.
 
Pur adottando una prospettiva molto ampia, l'attenzione del Comitato dei Ministri è chiaramente diretta, in via principale, alle ipotesi di riapertura del processo penale, per le quali si tratta di stabilire - come si legge nel Preambolo della Raccomandazione - una serie di criteri idonei a «identificare le situazioni eccezionali in cui l'obiettivo di garantire i diritti dell'individuo e la messa in atto effettiva delle sentenze della Corte prevalgono sui principi sottesi dalla dottrina della res iudicata, nonostante l'importanza indiscutibile di tali principi».
 
In particolare, la Raccomandazione individua una serie di condizioni cumulative in presenza delle quali, sulla base dell’esperienza del Comitato dei Ministri, «il riesame di un caso o la riapertura di un procedimento si è rivelato lo strumento più efficace, se non addirittura l’unico, per realizzare la restitutio in integrum». Ciò si rende necessario soltanto in presenza di circostanze ben precise: quando 1) «la parte offesa continua a subire delle conseguenze negative molto gravi a causa della decisione nazionale, conseguenze che non possono essere riparate dall’equo indennizzo e che possono essere modificate solo attraverso il riesame o la riapertura del processo»; 2) la sentenza della Corte induce alla conclusione che «la decisione interna impugnata è nel merito contraria alla Convenzione o la violazione riscontrata è costituita da errores in procedendo o da altre mancanze di tale gravità da far sorgere seri dubbi sull'esito del procedimento nazionale considerato». Entrambe queste condizioni devono ricorrere affinché la riapertura del processo risulti obbligatoria sul piano internazionale per adempire agli impegni assunti con la ratifica della Convenzione europea.
 
Il nostro ordinamento europeo è l'unico a non offrire un rimedio generale alla vittima di un processo in cui si sia verificata una violazione, accertata dalla Corte di Strasburgo[5], delle garanzie previste dall'art. 6 Conv. eur. Nell'ambito del Consiglio d'Europa, ventisei Stati già prevedono nel proprio codice di procedura penale la possibilità di riesaminare una decisione giudiziaria irrevocabile a seguito di una sentenza della Corte europea[6]. Altri otto Paesi, invece, pur in assenza di una disciplina legislativa ad hoc, hanno raggiunto la medesima soluzione in via giurisprudenziale[7]. Infine, numerosi sono gli Stati che non si sono ancora trovati a dover "riaprire" i procedimenti interni, ma la cui legge e prassi interna rendono una tale ipotesi facilmente prefigurabile.
 
Una lacuna normativa tutta italiana, quindi, che è stata stigmatizzata anche dalla nostra dottrina. In questa direzione, alcuni autori hanno da tempo suggerito diverse soluzioni che spaziano dalla modifica dell’art. 630 c.p.p. attraverso l’inserimento della sentenza di condanna della Corte di Strasburgo[8] fra i casi di revisione, fino alla creazione di uno strumento totalmente nuovo, sganciato dallo schema della revisione, che semplicemente assicuri nelle ipotesi in questione la celebrazione di un nuovo processo immune dai vizi riscontrati dai giudici di Strasburgo[9].
 
Alcuni timidi passi avanti sono in effetti stati compiuti sul piano delle iniziative legislative[10], ma non sono sufficienti: le modifiche introdotte sinora sembrano esprimere l’intenzione di rendere operativo un meccanismo di attuazione interna delle sentenze europee, ma ciò che manca, in tutta evidenza, è appunto l’individuazione di questo meccanismo[11].
 
L'ostinata inerzia del legislatore italiano ha indotto così i giudici a ricercare all'interno dell'ordinamento strumenti capaci di adempiere, con i minori sacrifici e la maggiore efficacia, agli obblighi derivanti dalle sentenze della Corte europea.
 
In questa prospettiva, la giurisprudenza ha spesso seguito un percorso tortuoso, volto a piegare le ragioni del diritto ad esigenze di giustizia sostanziale. Tale, in effetti, sembra quello intrapreso, per esempio, dalle pronunce che sono giunte a dichiarare tout court cessata, in forza di sentenza della Corte europea, l'esecuzione di condanne passate in giudicato[12]. Tale rimedio, che fa perno sull'incidente di esecuzione regolato dall'art. 670 c.p.p., si rivela, non solo, inadeguato: esso "congela" il giudicato, impedendone l'esecuzione, ma non lo elimina, collocandolo a tempo indeterminato in una sorta di "limbo processuale". Soprattutto, la mera declaratoria di ineseguibilità non dà risposta all'esigenza primaria, ossia quella della riapertura del processo, in condizioni che consentano il recupero della garanzie assicurate dalla Convenzione.
 
Soluzioni del genere, forse apprezzabili sul piano equitativo in qualche caso di specie, vanno comunque oltre ciò che promana dai dicta dei giudici di Strasburgo, i quali non hanno mancato di precisare come la constatata violazione, in una determinata vicenda giudiziaria, dei principi del processo equo, non significhi, di per sé, che la condanna conclusiva della vicenda esaminata sia stata «infondata»[13].
 
Analogamente, anche il rimedio che fa leva sull'utilizzazione, in via analogica, del ricorso straordinario per errore materiale o di fatto previsto dall'art. 625-bis c.p.p. non può comunque rappresentare una risposta esaustiva al problema, risultando strutturalmente inidoneo ad assicurare la riapertura dei processi a fronte di violazioni che non si siano verificate nell'ambito del giudizio di cassazione[14].
 
Nonostante sia indubbio che la strada maestra per risolvere compiutamente la questione in argomento rimanga quella legislativa, lo sforzo compiuto dalla giurisprudenza è senz'altro ammirevole, perché non denota solo una spiccata sensibilità per i diritti fondamentali, ma permette di evitare che il nostro Paese possa incorrere in nuove violazioni della Convenzione europea. Al riguardo, si deve rilevare come, successivamente all'ordinanza di rimessione, l'art. 46 Conv. eur. sia stato modificato per effetto dell'entrata in vigore (il 1° giugno 2010) del Protocollo n. 14 alla Convenzione[15]. Tramite l'aggiunta dei paragrafi 4 e 5 è stato introdotto uno specifico procedimento di infrazione, atto a costituire un più incisivo mezzo di pressione nei confronti dello Stato convenuto: si prevede, infatti, che il Comitato dei Ministri possa chiedere alla Corte di Strasburgo un'ulteriore pronuncia, la quale accerti l'avvenuta violazione dell'obbligo per una Parte contraente di confermarsi alle sue sentenze.
 
 
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2.  L’iter della vicenda giudiziaria.
 
Paolo Dorigo è stato condannato con sentenza della Corte d’assise di Udine, pronunciata il 3 ottobre 1994 alla pena di tredici anni e sei mesi di reclusione in ordine ai reati di associazione con finalità di terrorismo, ricettazione, banda armata, detenzione e porto illegale di armi, attentato per finalità terroristiche e rapina aggravata. La sentenza, dopo la conferma della Corte d’assise di appello di Trieste e il rigetto del ricorso da parte della Corte di cassazione, divenne irrevocabile il 27 marzo 1996. Dorigo propose quindi ricorso davanti alla Commissione europea dei diritti dell’uomo ai sensi dell’allora vigente art. 25 Conv. eur. lamentando la violazione dell’art. 6 Conv. eur.
 
Il 9 settembre 1998, la Commissione europea concluse il suo rapporto nel senso della non equità del processo che aveva portato alla condanna del ricorrente, per violazione dell’art. 6 par. 1 e 3 lett. d Conv. eur.: i giudici italiani avevano infatti utilizzato, come prove determinanti ai fini della sentenza di condanna, le dichiarazioni rese nel corso delle indagini preliminari da tre coimputati, i quali, esaminati in sede dibattimentale, si erano avvalsi della facoltà di non rispondere (ciò aveva consentito l’acquisizione al fascicolo per il dibattimento dei verbali delle dichiarazioni dagli stessi precedentemente rese, in forza dell’art. 513 c.p.p. nel testo vigente anteriormente alla riforma del 1997). Il rapporto della Commissione fu poi trasmesso ai sensi dell’art. 32 Conv. eur., al Comitato dei Ministri presso il Consiglio d’Europa il quale, preso atto del mancato deferimento della controversia alla Corte europea, decise di pubblicare tale rapporto conferendogli efficacia obbligatoria ai sensi dell’art. 48 Conv. eur.
 
Si avvicendarono nel tempo diverse risoluzioni ad interim con le quali il Comitato dei Ministri richiamava “con fermezza” l’obbligo dello Stato italiano di assicurare l’adozione «di misure individuali volte a mettere fine alle violazioni constatate e a rimuovere, nei limiti del possibile, i relativi effetti per le vittime»[16]. In particolare, nella Risoluzione interinale ResDH2002(30)[17] i Delegati ministeriali presero atto dell’assenza, nell’ordinamento interno, di strumenti che consentissero al ricorrente di riaprire il procedimento e della pendenza di iniziative legislative volte a colmare tale vuoto normativo. Con la Risoluzione ResDH2004(13)[18] il Comitato invitò nuovamente il Governo italiano ad introdurre il più rapidamente possibile misure volte a rimuovere le conseguenze negative della violazione constatata nella vicenda processuale di Dorigo. Analogamente, con la Risoluzione ResDH2005(85)[19] il Consiglio d’Europa, dopo aver censurato il comportamento delle autorità italiane, che a sei anni dalla condanna non avevano ancora provveduto a rimuovere le conseguenze della violazione del diritto nelle forme della restitutio in integrum, richiamò fermamente «l’obbligo per tutte le autorità coinvolte» di assicurare l’adozione di una specifica legislazione per il riesame del “caso Dorigo” in sede nazionale, conformemente alla Convenzione europea.
 
Successivamente a tale risoluzione, lo stesso Comitato dei Ministri approvava un regolamento interno[20] secondo il quale l’accertamento di corretta esecuzione di una sentenza di condanna della Corte europea non potrebbe prescindere dalla verifica dell'adozione di misure individuali di restituito in integrum, quali la rinnovata celebrazione del processo dimostratosi “non equo”. Da ultimo, il 19 ottobre 2006, il Comitato dei Ministri ha nuovamente esaminato il “caso Dorigo”, sottolineando positivamente lo sforzo compiuto dall’autorità giudiziaria italiana (nella specie, la Corte d’appello di Bologna) che, previa scarcerazione dello stesso Dorigo, aveva nel frattempo sollevato la quaestio legitimatis dell’art. 630 c.p.p., nella parte in cui non consentiva la revisione del processo a fronte di una sentenza di condanna della Corte europea. Ferma restando, ovviamente, l’ulteriore necessità – ribadita dal Comitato – di una modifica ordinamentale che consenta la riapertura dei processi, in generale, e nel “caso Dorigo”, in particolare[21], allorché si determinino analoghe situazioni.
 
Tenuto conto della situazione creatasi, il pubblico ministero di Udine decideva di investire il giudice dell’esecuzione al fine di ottenere una declaratoria di  illegittimità della detenzione di Dorigo. Nel rigettare la richiesta della Procura della Repubblica, la Corte d’assise di Udine osservava che l’indagine affidata al giudice dell’esecuzione ai sensi dell’art. 670 c.p.p. è limitata al controllo dell’esistenza di un valido titolo esecutivo, mentre restano preclusi sia il rilievo delle eventuali nullità verificatesi nel giudizio di cognizione sia le valutazioni riguardanti il merito dello stesso. Di conseguenza, deve comunque prevalere il giudicato penale, pur se frutto di un processo considerato “non equo” dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (come nel caso di specie) per ragioni inerenti al procedimento di formazione della prova e alla lesione del diritto della persona accusata di «interrogare o far interrogare i testimoni a carico», secondo la previsione del par. 3 lett. d dell’art. 6 Conv. eur.
 
Avverso tale decisione il pubblico ministero propose ricorso per cassazione denunciando l’erronea applicazione degli artt. 666 e 670 c.p.p., sull’assunto che la soluzione del problema posto al giudice dell’esecuzione avrebbe dovuto essere impostata secondo le linee già indicate dalla Corte di cassazione[22], al fine di risolvere la questione se l’art. 5 par. 2 lett. a Conv. eur. precluda l’esecuzione nell’ordinamento italiano di una sentenza di condanna emessa a conclusione di un processo giudicato non equo dalla Corte europea a norma dell’art. 6 Conv. eur. Il pubblico ministero deduceva, infine, l’erronea applicazione degli artt. 5 par. 2 e 46 Conv. eur. nonché degli artt. 11 e 111 Cost. Infatti, per effetto della pronuncia europea di «non equità», la sentenza nazionale avrebbe cessato di essere «titolo legittimo di detenzione» ai sensi dell’art. 5 par. 2 lett. a Conv. eur. e di conseguenza, vi sarebbe stato il divieto, per gli organi dello Stato, di dare esecuzione o di continuare a dare esecuzione alla sentenza nazionale. In altri termini, secondo il ricorrente, l’art. 5 par. 2 lett. a Conv. eur. si inseriva, quale norma immediatamente applicabile, nel sistema dell’esecuzione penale e costituiva  disposizione speciale rispetto agli artt. 649, 655 e 656 c.p.p.
 
La Corte di cassazione, con la sentenza 1° dicembre 2006 n. 2800, ha smentito l’impostazione della Corte d’assise di Udine, affermando il principio di diritto per cui «il giudice dell’esecuzione deve dichiarare, a norma dell’art. 670 c.p.p., l’ineseguibilità del giudicato quando la Corte europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali abbia accertato che la condanna è stata pronunciata per effetto della violazione delle regole sul processo equo sancite dall’art. 6 della Convenzione europea e abbia riconosciuto il diritto del condannato alla rinnovazione del giudizio, anche se il legislatore abbia omesso di introdurre nell’ordinamento il mezzo idoneo ad instaurare il nuovo processo».
 
Parallelamente, e prima che intervenisse la pronuncia della Corte di cassazione ora ricordata, il difensore del condannato aveva proposto al giudice a quo una richiesta di revisione sostenendo, in particolare, che la fattispecie considerata poteva essere ricondotta all'ipotesi del contrasto fra giudicati, di cui all'art. 630 comma 1 let. a) c.p.p., stante l'equiparabilità della decisione della Corte europea alla sentenza di un «giudice speciale». Con ordinanza del 15 maggio 2006, la Corte d'appello rimettente - ritenendo impraticabile la soluzione interpretativa prospettata dalla difesa - sollevava, in riferimento agli artt. 3,10 e 27 Cost., una questione di legittimità costituzionale dell'art. 630, comma 1, lett. a) c.p.p. «nella parte in cui esclude, dai casi di revisione, l'impossibilità che i fatti stabiliti a fondamento della sentenza o del decreto di condanna si concilino con la sentenza della Corte europea che abbia accertato l'assenza di equità del processo, ai sensi dell'art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo».
 
In relazione agli indicati parametri, la questione era dichiarata infondata con sentenza n. 129 del 2008. La Corte costituzionale, infatti, aveva escluso, in specie, tanto la configurabilità di una disparità di trattamento fra casi simili, attenendo il contrasto fra giudicati, evocato dalla norma censurata, ai «fatti» su cui si fondano le diverse sentenze, e non alle valutazioni in esse effettuate; quanto una lesione della presunzione di innocenza, intesa come norma di diritto internazionale consuetudinario; quanto, infine, una compromissione della finalità rieducativa della pena, non potendo le regole del "giusto processo" essere considerate strumentali alla rieducazione del condannato. Nell'occasione, la Corte aveva comunque sottolineato «l'improrogabile necessità di predisporre adeguate misure», volte a riparare le violazioni ai principi in tema di "equo processo", accertate dalla Corte europea dei diritti dell'uomo.
 
Ripresa quindi la trattazione del procedimento davanti alla Corte d'appello, il Procuratore generale eccepiva l'illegittimità costituzionale dell'art. 630 c.p.p. sotto un diverso profilo: quello, cioè, della lesione dell'art. 117 Cost. in riferimento all'art. 46, par. 1, Conv. eur., che sancisce l'obbligo degli Stati contraenti di conformarsi alle sentenze definitive della Corte europea, rimuovendo ogni effetto contrario. La questione era dichiarata rilevante e non manifestamente infondata dalla Corte d'appello in quanto basata su censure nuove e distinte rispetto a quelle già esaminate dalla Corte costituzionale: l'art. 630 c.p.p. risulterebbe, in effetti, inconciliabile con la previsione dell'art. 46, par.1, Conv. eur., a fronte della quale gli Stati contraenti sarebbero tenuti ad adeguare la propria legislazione alle norma della Convenzione e lederebbe, sia pure indirettamente, l'art. 117, comma 1°, Cost. nella parte in cui - nell'individuare i casi di revisione - omette tuttora di prevedere la rinnovazione del processo, allorché la sentenza o il decreto penale di condanna siano in contrasto con una sentenza definitiva della Corte europea che abbia accertato «l'assenza di equità del processo», ai sensi dell'art. 6 Conv. eur.
 
 
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3.  Lo strumento individuato dalla Corte costituzionale.
 
Il problema, evidentemente, non è tanto quello di stabilire «se il giudicato penale debba comunque prevalere, pur se frutto di un processo ritenuto non equo dalla Corte europea»[23], posto che l’esaurimento dei rimedi interni è una condizione imprescindibile per la legittimazione a ricorrere alla Corte europea. Qualsiasi sentenza della Corte europea che accerti una violazione pattizia posta in essere dall’autorità giudiziaria verrà sempre fisiologicamente a collidere con un giudicato nazionale[24].
 
Si tratta, piuttosto, di un problema di strumenti giuridici. Occorre, in altre parole, trovare uno strumento processuale capace di soddisfare due esigenze: consentire al nostro sistema di uniformarsi ad una decisione della Corte europea e, nello stesso tempo, evitare il più possibile di vanificare il difficile lavoro di inquirenti e giudici[25]. Per fare ciò, tuttavia, bisogna preliminarmente accettare, una volta per tutte, quanto già affermato dalla Corte di cassazione nel caso Drassich,ossia che «nel bilanciamento di valori costituzionali, da un lato, quello della funzione del giudicato e, dall'altro, quello del diritto a un processo "equo" e a una decisione resa nel rispetto di principi fondamentali e costituzionali posti a presidio del diritto a interloquire sull'accusa, non può che prevalere quest'ultimo»[26]. Ridefinire, in ultima analisi, l'ambito dell'elemento legato alla certezza dei rapporti giuridici in relazione ai valori di libertà e di dignità della persona propri di ogni singolo cittadino: questi valori devono essere ritenuti senza dubbio prevalenti rispetto a pretese esigenze di natura formale sulle quali poggia il principio d'intangibilità del giudicato.
 
Confinata negli stretti limiti di un quadro legislativo immutato, la Corte costituzionale non ha potuto che condividere la scelta del giudice a quo di individuare la sede dell'intervento additivo nell'art. 630 c.p.p.: la revisione, infatti, comportando, quale mezzo straordinario di impugnazione a carattere generale, la riapertura del processo, che implica una ripresa delle attività processuali in sede di cognizione, estesa anche all'assunzione delle prove, costituisce l'istituto, fra quelli attualmente esistenti nel sistema processuale penale, che presenta profili di «maggiore assonanza» al fine di garantire la conformità dell'ordinamento nazionale all'art. 46, par. 1, Conv. eur.
 
Il procedimento attraverso il quale la Corte costituzionale perviene alla dichiarazione di incostituzionalità dell'art. 630 c.p.p. è quello elaborato a partire dalle sentenze n. 348 e n. 349[27] del 2007 e riconfermato anche dopo l'entrata in vigore del Trattato di Lisbona[28]: le norme della Convenzione europea - nel significato loro attribuito dalla Corte europea - integrano, quali «norme interposte», il parametro costituzionale espresso dall'art. 117, comma 1, Cost. nella parte in cui impone l'adeguamento della legislazione nazionale interna ai vincoli derivanti dagli «obblighi internazionali».
 
In questa prospettiva, ove si profili un eventuale contrasto fra una norma interna e una norma della Convenzione, il giudice comune deve verificare anzitutto la praticabilità di una interpretazione della prima in senso conforme alla Convenzione, avvalendosi di ogni strumento ermeneutico a sua disposizione; e, ove tale verifica dia esito negativo, egli deve denunciare la rilevata incompatibilità, proponendo questione di legittimità costituzionale in riferimento all'indicato parametro. A sua volta, la Corte costituzionale, investita dello scrutinio, resta legittimata a verificare se, così interpretata, la norma della Convenzione si ponga eventualmente in conflitto con altre norme della Costituzione.
 
Orbene, in relazione al «parametro di riferimento» individuato nell'art. 117, comma 1, Cost, l'interpretazione dell'art. 46, par. 1, Conv. eur. - «norma interposta» - secondo la quale l'obbligo di conformarsi alle sentenze definitive della Corte europea, comporta anche l'impegno dello Stato contraente a consentire la riapertura dei processi quando appaia indispensabile ai fini della restitutio in integrum in favore dell'interessato, non risulta contrastante con la nostra Costituzione. In particolare, pur nella indubbia rilevanza dei valori della certezza e della stabilità della cosa giudicata, non può ritenersi contraria al dettato costituzionale la previsione del venir meno dei relativi effetti preclusivi in presenza di compromissioni di particolare pregnanza - quali quelle accertate dalla Corte di Strasburgo - delle garanzie previste dall'art. 6 Conv. eur e dell'art. 111 Cost.
 
Di conseguenza, la Corte perviene alla dichiarazione di illegittimità costituzionale dell'art. 630 c.p.p. nella parte in cui non contempla un «diverso» caso di revisione, rispetto a quelli regolati, volto specificamente a «consentire la riapertura del processo quando la stessa risulti necessaria per conformarsi a una sentenza definitiva della Corte europea».
 
Una decisione sofferta, ma, allo stesso tempo, coraggiosa.

Sofferta perché la Corte ha ben chiaro come la strada maestra per risolvere compiutamente la questione in argomento sia indubbiamente quella legislativa. Lo testimonia l'inconsueto ultimo passaggio della sentenza che suona come estremo appello al legislatore: «giova ribadire e sottolineare che l'incidenza della declaratoria di incostituzionalità sull'art. 630 c.p.p. non implica una pregiudizievole opzione di questa Corte a favore dell'istituto della revisione, essendo giustificata soltanto dall'inesistenza di altra e più idonea sedes dell'intervento additivo. Il legislatore resta pertanto e ovviamente libero di regolare con una diversa disciplina - recata anche dall'introduzione di un autonomo e distinto istituto - il meccanismo di adeguamento alle pronunce definitive della Corte di Strasburgo, come pure di dettare norme su specifici aspetti di esso sui quali questa Corte non potrebbe intervenire, in quanto involventi scelte discrezionali».
 
Una decisione coraggiosa, perché la Corte non nasconde le difficoltà che solleva tale intervento additivo di principio: spetterà, infatti, da un lato, ai giudici comuni trarre dalla decisione i necessari corollari sul piano applicativo, avvalendosi degli strumenti ermeneutici a loro disposizione; e, dall'altro, al legislatore provvedere eventualmente a disciplinare, «nel modo più sollecito e opportuno», gli aspetti che apparissero bisognevoli di apposita regolamentazione. Numerosi, d'altra parte, sono gli aspetti problematici che comporta quest'ulteriore nuova ipotesi di revisione. Senza poterne effettuare una completa disamina in questa sede, si pensi, per esempio, alle disposizioni relative ai limiti della richiesta (art. 631 c.p.p.), alle conseguenze in caso di accoglimento della stessa (commi 2 e 3, art. 637 c.p.p.) e al principio (che qui sarebbe derogato) per cui i vizi processuali restano coperti dal giudicato.
 
Una strada - quella intrapresa dai giudici costituzionali - comunque obbligata anche in considerazione della già ricordata insensibilità del nostro legislatore ai «pressanti inviti» degli organi di Strasburgo ad adempiere all'obbligo previsto dall'art. 46 Conv. eur. D'altra parte, come si legge nella sentenza, la Corte, «posta di fronte a un vulnus costituzionale, non sanabile in via interpretativa - tanto più se attinente a diritti fondamentali - è tenuta comunque a porvi rimedio».
 
L'individuazione di questo inedito "caso processuale" di revisione quale strumento giuridico per dare esecuzione alle sentenze di condanna della Corte europea in caso di violazione dell'art. 6 Conv. eur. è destinata, verosimilmente, a sollevare le critiche della dottrina.
Non si mancherà di sottolineare, in particolare, come l'ipotesi della riapertura del processo collegata al vincolo scaturente dalla Convenzione europea comporti la necessità di riesaminare, alla luce della violazione accertata dalla Corte europea, gli stessi atti già considerati nei tre gradi di giudizio e, come tale, risulti eterogenea rispetto agli altri casi di revisione, perché fuoriesce dalla logica, a questi sottesa, della composizione dello iato tra "verità processuale" e "verità storica", emergente esclusivamente dalla sopravvenienza di elementi nuovi ed "esterni" rispetto al processo già celebrato.
 
Si tratta di un'obiezione comprensibile che, tuttavia, potrebbe non tenere in giusta considerazione l'attuale ambito di operatività dell'impugnazione straordinaria, così come ampliato dalla giurisprudenza di legittimità. Si pensi, in particolare, alla sentenza Pisano delle Sezioni Unite[29] che ha esteso il concetto di «nuova prova» anche a quella che, pur presente agli atti, non è stata valutata dal giudice[30]. Oppure a quell'indirizzo giurisprudenziale che, sulla medesima linea, considera «nuova» anche quella prova che, pur presente agli atti, valutata o meno, non è entrata a far parte del processo argomentativo e motivazionale del provvedimento[31]. Insomma, la revisione sembra aver abbandonato la sua tradizionale configurazione per assumere sempre più la caratteristica di impugnazione straordinaria volta a porre rimedio, oltre i limiti del giudicato, a provvedimenti emessi contra ius anche per "vizi interni" al processo che, altrimenti, rimarrebbero privi di specifica tutela.

La strada è, dunque, segnata. All'interno del nostro ordinamento, vi è ora un modello processuale di revisione capace di dare esecuzione alle sentenze di condanna della Corte europea che accertano una violazione delle garanzie sull'equo processo di natura tale da non poter essere sanata se non tramite una restitutio in integrum. Numerosi e cruciali sono, tuttavia, gli aspetti bisognosi di un'attenta regolamentazione, pena evidenti rischi soprattutto per alcune categorie di processi quali, per esempio, quelli contro la criminalità organizzata. Ma questo, ancora una volta, è compito del legislatore.



[1] Corte cost., 24 aprile 2008, n. 129, in Giur. cost., 2008, p. 1506 s. con nota di Chiavario, Giudicato e processo «iniquo»: la Corte si pronuncia (ma non è la parola definitiva).
[2] V. Corte eur. dir. uomo, Grande Camera, 10 novembre 2004, Sejdovic c. Italia, ric. n. 56581/00, § 126, in Cass. pen., 2005, p. 983-989; Corte eur. dir. uomo, 27 aprile 2006, Sannino c. Italia, ric. n. 30961/03, § 70.
[3] Consiglio d'Europa, Raccomandazione, 19 gennaio 2000, n. 2, in Buzzelli - Mazza, Codice di procedura penale europea, Cortina Editore, 2005, p. 953-954.
[4] Secondo quanto precisato nell'Explanatory Memorandum della Raccomandazione (2000) 2, cit., il concetto di «riapertura» si limita ad ipotesi specifiche caratterizzate dall'intervento delle autorità giurisdizionali, mentre quello di «riesame» riguarda le ipotesi di intervento da parte di autorità non giurisdizionali, in particolare amministrative.
[5] Per un’analisi dei rimedi che gli Stati possono adottare in sede di esecuzione di sentenze della Corte europea che attestano la violazione della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, si considerano fondamentali i contributi di Allegrezza, Violazioni della CEDU e giudicato penale. Quali contaminazioni? Quali rimedi?, in Brunelli - Pugiotto - Veronesi (a cura di), All'incrocio tra Costituzione e CEDU, Giappichelli, 2007; Bultrini, La Convenzione europea dei diritti dell’uomo: considerazioni introduttive, in Dir. pen. proc., 1999, spec. pp. 651-654; Conte, Gli effetti delle sentenze della Corte europea negli ordinamenti nazionali, in Nascimbene (a cura di), La Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Profili ed effetti nell’ordinamento italiano, Giuffrè, 2002; Crisafulli, Interventi per eseguire le sentenze della CEDU senza annullare il lavoro di giudici e inquirenti, in Guida dir., 2007, n. 2, p. 8;Drzemczewski-Tavernier, sub Art. 46, in Bartole-Conforti-Raimondi, Commentario alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, Cedam, 2001, p. 685 s.; Feldman, Remedies for violations of Convention Rights under the Humen Rights Act, in European Human Review, 1988, p. 691 s.; Gialuz, Il riesame del processo a seguito di condanna della Corte di Strasburgo: modelli europei e prospettive italiane, in Giur. cost., 2010, p. 1845 s.; Imbert, L’esecuzione delle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo e delle decisioni del Comitato dei Ministri, in Doc. giust., 2000, n. 1-2, p. 234 s.; Klerk, Supervision of the Execution of the Judgements of the European Court of Human Rights, in Netherlands International Law Review, 1998, vol. XLV, pp. 65-86; Malagoni, I processi vanno più veloci ma l’Italia sarà di nuovo sotto esame a febbraio, in Dir. e giust., 2001, n. 3, pp. 18-21; Marotta, Gli effetti delle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo nell’ordinamento italiano, in Riv. int. dir. uomo, 1989, p. 55; Nascimbene, Violazione «strutturale», violazione «grave» ed esigenze interpretative della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, in Riv. dir. internaz. priv. proc., 2006, p. 655; Raimondi, Effetti del diritto della Convenzione e delle pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo, in Riv. int. dir. uomo, 1998, p. 424 s.; Ubertis, L'adeguamento italiano alle condanne europee per violazioni dell'equità processuale, in Id., Argomenti di procedura penale, III, Giuffré, 2011, p. 57 s. V., infine, Lonati, Il diritto dell'accusato a "interrogare o fare interrogare" le fonti di prova a carico, Giappichelli, 2008, p. 79 s.
[6] Si tratta di Francia, Svizzera, Germania, Slovenia, Austria, Bosnia Herzegovina, Bulgaria, Croazia, Grecia, Lituania, Lettonia, Lussemburgo, ex Repubblica jugoslava di Macedonia, Malta, Moldova, Norvegia, Paesi Bassi, Polonia, Regno Unito, Romania, Russia, San Marino, Slovacchia, Turchia, Ucraina e Ungheria.
[7] Si tratta di Belgio, Danimarca, Finlandia, Islanda, Repubblica Ceca, Spagna, Svezia e Ucraina.
[8] Una panoramica delle diverse misure adottate in questi anni dalla magistratura italiana per dare esecuzione alle sentenze di condanna della Corte europea dei diritti dell’uomo è descritta da Aimonetto, Condanna "europea" e soluzioni interne al sistema processuale penale: alcune riflessioni e spunti de iure condendo, in Riv. it. dir. proc. pen., 2009, p. 1510; Gialuz, Il riesame del processo a seguito di condanna della Corte di Strasburgo, cit., p. 1845 s.; Tamietti, Un ulteriore passo verso una piena esecuzione delle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo in tema di equo processo: il giudicato nazionale non è di ostacolo alla riapertura dei processi, in Cass. pen., 2007, p. 1015 s.
[9] Così Mazza, Sei mesi di tempo (ormai anche meno) per garantire lo stato di diritto, in Cass. pen., 2006, p. 43112. Dubbi sull’idoneità dell’istituto della revisione a disciplinare ipotesi del genere e per l’opportunità di prevedere strumenti appositi sono stati espressi, tra gli altri, anche da Scalfati, I giudici offrono un «rimedio tampone» in attesa che si colmi il vuoto legislativo, in Guida dir., 2007, n. 9, p. 82. Secondo Ubertis, Conformarsi alle condanne europee per violazione dell'equità processuale: doveroso e già possibile, in Corr. mer., 2007, p. 599, invece, in caso di accertata violazione da parte degli organi di Strasburgo, «non sussistendo giuridicamente un giudizio, nemmeno sorge la questione di rispettare un giudicato e il giudice dell’esecuzione, ai sensi dell’art. 670 comma 1 c.p.p., dovrebbe solo accertare la mancanza del titolo esecutivo e assumere le delibere conseguenti». Nella medesima prospettiva, sia pure con diverse sfumature, Giarda, Italia e giurisprudenza europea: «Io speriamo che me la cavo», in Dir. pen. proc., 2006, p. 5 e Selvaggi, Le sentenze della Corte europea dei diritti dell'uomo e il giudicato nazionale: conflitto non risolvibile, in Cass. pen., 2006, p. 3182 s.
[10] Per una panoramica delle proposte di legge v., Lonati, Il diritto dell'accusato a "interrogare o fare interrogare" le fonti di prova a carico, cit., p. 106 s. Per precisazioni e rilievi critici sui contenuti degli elaborati, cfr. Scalfati, Libertà fondamentali e accertamento giudiziario: la revisione del processo a seguito di pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo, in Di Chiara (a cura di) Il processo penale tra politiche della sicurezza e nuovi garantismi, Giappichelli, 2002, p. 450.
[11] Per intensificare il monitoraggio sulle sentenze della Corte di Strasburgo al fine di migliorare il livello di esecuzione delle pronunce di condanna all’Italia e rispettare gli obblighi internazionali, la l. 9 gennaio 2006 n. 12 ha introdotto una modifica alla l. 23 agosto 1988 n. 400 riguardante la disciplina dell’attività di governo e ordinamento della Presidenza del Consiglio dei Ministri, inserendo la lett. a-bis all’art. 5 comma 3. V., anche, D.p.r. 28 novembre 2005, n. 289 recante Integrazioni al Testo Unico di cui al D.P.R. 14.11.2002 n. 313 in materia di Casellario Giudiziale.
[12] Cfr. Cass., Sez. I, 1° dicembre 2006, P.M. Bianco, in Riv. it. dir. proc. pen., 2007, con nota di Lonati, Il caso «Dorigo»: un altro tentativo della giurisprudenza di dare esecuzione alle sentenze della Corte europea dei diritti dell'uomo in attesa di un (auspicato) intervento legislativo.
[13] Così, tra le altre, Corte eur. dir. uomo, 13 ottobre 2005, Bracci c. Italia, in Foro it., 2006, II, 278.
[14] Condividono la critica all'applicazione analogica dell'art. 625-bis c.p.p., Aimonetto, Condanna "europea" e soluzioni interne al sistema processuale penale: alcune riflessioni e spunti de iure condendo, in Riv. it. dir. proc. pen., 2009, p. 1514; Biondi, Il ricorso straordinario per Cassazione per errore materiale o di fatto quale possibile rimedio alle violazioni della CEDU, in Giust. pen., 2009, III, c. 329 s.; Gambardella, Il "caso Scoppola": per la Corte europea l'art. 7 Cedu garantisce anche il principio di retroattività della legge penale più favorevole, in Cass. pen., 2010, p. 2026 s.; Quattrocolo, La Corte europea dei diritti dell'uomo e il principio di correlazione tra accusa e sentenza: un invito ad un ripensamento del principio iura novit curia?, in Leg. pen., 2009, p. 362; Sciarabba, La "riapertura" del giudicato in seguito a sentenze della Corte di Strasburgo: questioni generali e profili interni, in Giur. cost., 2009, p. 527 s.; Zacchè, Cassazione e iura novit curia nel caso Drassich, in Dir. pen. proc., 2009, p. 784. Si sono espressi, invece, in termini adesivi, sia pur nelle diverse sfumature, Caianiello, La riapertura del processo ex art. 625-bis c.p.p. a seguito di condanna della Corte europea dei diritti dell'uomo, in Cass. pen., 2009, p. 1468; De Matteis, Condanna da parte della Corte europea dei diritti dell'uomo e revoca del giudicato, ivi, 2009 p. 1474 s.; S. Negri, Nel bilanciamento tra valori fondamentali deve prevalere il diritto all'equo processo, in Guida dir., 2009, n. 11, p. 62.
[15] Ratificato e reso esecutivo in Italia con legge 15 dicembre 2005, n. 280.
[16] L’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa ha ugualmente reagito in diverse occasioni di fronte all’inerzia italiana; in particolare con la Raccomandazione 1684(2004), la Risoluzione, 13 novembre 2004, n. 1411(2004) e la Risoluzione, 2 ottobre 2006, n. 1516(2006), tutte consultabili sul sito www.coe.int.
[17] Comitato dei Ministri, 19 febbraio 2002, Risoluzione ResDH(2002)30. V. il testo in Dir. pen. proc., 2002, p. 781. In particolare, il Comitato dei Ministri aveva notato che la violazione comportava delle conseguenze negative molto gravi per il ricorrente. Tali conseguenze non potevano essere eliminate dal solo pagamento dell’equa soddisfazione, che riguardava unicamente il danno morale subito fino al 1999, considerato che l’accertata violazione dei diritti della difesa poneva un serio dubbio sulla fondatezza della condanna del ricorrente. Non essendo stata presa nessuna misura d’esecuzione adeguata, il Comitato dei ministri è stato costretto ad adottare una serie di provvedimenti per sollecitare le autorità italiane ad assicurare il rispetto degli obblighi derivanti dalla Convenzione.
[18] Comitato dei Ministri, 10 febbraio 2004, Risoluzione ResDH(2004)13. V. il testo in Dir. pen. proc., 2005, p. 430. Le osservazioni del Comitato dei Ministri si appuntavano, con manifesta preoccupazione, su quelle disposizioni del disegno di legge, all’epoca all’esame del Senato (S-2441), tendenti ad escludere dal raggio d’azione della progettata nuova ipotesi di impugnazione straordinaria le violazioni ai principi del giusto processo accertati prima dell’entrata in vigore della legge nell’ambito di procedimenti per reati particolarmente gravi. Infatti, si statuiva che la revisione delle sentenze e dei decreti penali di condanna per uno dei reati di cui all’art. 51 commi 3-bis e 3 quater c.p.p., non potesse essere richiesta qualora la violazione delle disposizioni di cui all’art. 6 Conv. eur. fosse stata anteriore alla riforma. Ad onor del vero, la previsione era stata oggetto di un vivace dibattito parlamentare e coloro che l’avevano caldeggiata, nonostante le forti perplessità, ne avevano sottolineato, principalmente, i motivi di opportunità politica: si voleva, cioè, perseguire l’obiettivo di sottrarre a quasi certa revisione processi per reati di mafia, svoltisi in modo del tutto conforme a quelle che erano le disposizioni processuali all’epoca vigenti. Cfr., soprattutto, l’intervento dell’on. Finocchiaro, in Atti parlamentari. Camera dei Deputati. XIV leg. Assemblea. Resoconto stenografico della seduta n. 347 del 28 luglio 2003, p. 25-26.
[19] Comitato dei Ministri, 12 ottobre 2005, Risoluzione ResDH(2005)85.
[20] Règles du Comité des Ministres pour la surveillance de l’exécution des arrêts et des termes des règlements amiables, 10 maggio 2006.
[21] Cfr. Comitato dei Ministri, comunicato stampa, 19 ottobre 2006, Strasburgo.
[22] Cass., Sez. I, 22 settembre 2005, Cat Berro, in Cass. pen., 2006, p. 3171, con nota di Selvaggi, Le sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo e il giudicato nazionale: conflitto non risolvibile?; ed in Guida dir., 2005, n. 43, p. 84, sempre con nota di Selvaggi, I dispositivi della Corte europea possono travolgere il giudicato. V. pure Giarda, Italia e giurisprudenza europea: “io speriamo che me la cavo”, in Dir. pen. proc., 2006, p. 5.
[23] Cass., Sez. I, 1° dicembre 2006, Dorigo, in Riv. it. dir. proc. pen., 2007, p. 1530 con nota di Lonati, Il «caso Dorigo»: un altro tentativo della giurisprudenza di dare esecuzione alle sentenze della Corte europea dei diritti dell'uomo in attesa di un (auspicato) intervento legislativo.
[24] Cfr. Cass., Sez. I, 12 luglio 2006, Sirotti, in Dir. giust., 2006, p. 38.
[25] L’opinione dissenziente del giudice Zupancic, espressa in relazione alla sentenza Corte eur. dir. uomo, 27 febbraio 2001, Lucà c. Italia (in Cass. pen., 2001, p. 2836 s. con nota di Maffei, Prove d’accusa e dichiarazioni di testimoni «assenti» in una recente sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo), mostra chiaramente le profonde ragioni che dovrebbero indurre ogni legislatore europeo a muoversi in tale direzione, proprio alla luce del tenore letterale e della ratio degli artt. 1 e 41 Conv. eur.
[26] Così, già, Cass., Sez. VI, 25 maggio 2009, Drassich, in Cass. pen., 2011, p. 262 con nota di Lonati, Il «caso Drassich»: continua l'opera di supplenza della giurisprudenza di fronte alla perdurante (e sconcertante) inerzia del legislatore italiano in tema di esecuzione delle sentenze della Corte europea dei diritti dell'uomo in attesa di un (auspicato) intervento legislativo. Cfr., anche la prima sentenza di legittimità intervenuta sempre nel caso Drassich: Cass., Sez. VI, 12 novembre 2008, n. 45807, Drassich, in Cass. pen., 2009, p. 1457, con nota di Caianiello, La riapertura del processo ex art. 625-bis c.p.p. a seguito di condanna della Corte europea dei diritti dell'uomo; De Matteis, Condanna da parte della Corte europea dei diritti dell'uomo e revoca del giudicato. V., anche, Kostoris, Diversa qualificazione giuridica del fatto in Cassazione e obbligo di conformarsi alle decisioni della Corte europea dei diritti umani: il caso Drassich, in Giur. it., 2009, p. 2154 s.; Licata, La Cassazione trova la via per riaprire i processi dopo la condanna per violazione del giusto processo, in www.consultaonline.it; S. Negri, Nel bilanciamento tra valori fondamentali deve prevalere il diritto all'equo processo, cit., p. 60 s.; D. Negri, Corte europea e iniquità del giudicato penale, cit., p. 122 s.; Parlato, Riapertura del processo iniquo per modifica "viziata" del nomen iuris, ivi, 2008, p. 1584; Zacchè, Cassazione e iura novit curia nel caso Drassich, cit., p. 784. Più in generale, cfr. Aimonetto, Condanna "europea" e soluzioni interne al sistema processuale penale, cit., p. 1510 s.; Gialuz, Il riesame del processo a seguito di condanna della Corte di Strasburgo, cit., p. 1844 s.; Quattrocolo, La Corte europea dei diritti dell'uomo e il principio di correlazione tra accusa e sentenza, cit., p. 343; Id., Giudicato interno e condanna della Corte europea dei diritti dell'uomo: la Corte di cassazione "inaugura" la fase rescissoria, in Cass. pen., 2010, p. 107 s.; Sciarabba, La "riapertura" del giudicato in seguito a sentenze della Corte di Strasburgo, cit., p. 513 s.
[27] C. cost., 24 ottobre 2007, n. 348 e n. 349, in Giur. cost., 2007, p. 3475 e p. 3535, con commenti di Cartabia, Guazzarotti, Sciarabba.
[28] Cfr. Corte cost., 5 gennaio 2011, n. 1, inedita; Corte cost., 26 maggio 2010, n.196, in Giur. cost., 2010, p. 2308; Corte cost., 26 maggio 2010 n. 187, ivi, 2010, p. 2212; Corte cost., 15 aprile 2010 n. 138, ivi, 2010, p. 1604 s.
[29] Cass., Sez. Un., 26 settembre 2001, Pisano, in Cass. pen., 2002, p. 80 con nota di Lonati, Sul criterio per la definizione di prova «nuova» in vista del giudizio di revisione.
[30] Indirizzo lucidamente riassunto dalle parole di Cordero, in Procedura penale, 2010, X ed., p. 1143: «(...) importa poco che qualcosa figuri negli atti, se il giudice l'ha ignorato» .
[31] Cfr., per tutte, Cass., Sez. I, 20 gennaio 1992, Castaldo, in Giur. it., 1992, II, c. 720, con nota di Bargis, Prove ai fini della revisione, c. 771.